Premessa
In questo saggio mi sono occupato di circa trenta anni di storia grimaldese ricapitolati attraverso le confuse vicende di un’organizzazione che, all’epoca dei fatti, fu molto popolare e, a suo modo, potente: la Società Operaia di Mutuo Soccorso.
A quel tempo Grimaldi era un piccolo centro agricolo, emarginato, amante del proprio localismo, pronto, per anni di soggezione e di arretratezza, a vincolarsi per un innato fatalismo ai piccoli don Rodrigo nostrani, i cosiddetti galantuomini.
Raccontare le vicende di questa palude potrebbe apparire allora un atto di cedimento a mediocri personaggi, considerando, tra l’altro, che i confratelli della Società Operaia e i loro avversari sono ignoti agli stessi discendenti.
Certo è che, per quanti di noi vogliono dare un corso diverso alla propria esistenza, è opportuno risalire a un passato, se si vuole, recente, per chiarire i termini degli attuali rapporti sociali, con e contro i quali, vivendo in questo luogo, bisogna fare i conti.
Non che sia assolutamente vero il tradizionale motto per cui “buon sangue non mente”, ma non è da sottovalutare l’ereditarietà ambientale dell’odierna arroganza caporalesca, la vittoriosa inefficienza, il diffuso servilismo, la mediocrità tenace, vasta, piena di livore, oggi come allora, strette in uno spirito di corpo.
In altre parole, questi trenta anni di storia locale sono quelli in cui si sono formati il carattere fascista, la mentalità reazionaria di massa, che, mascherati sotto altre etichette, resteranno, fino ad oggi, lo spirito della nostra comunità.
Questo spirito è dunque il soggetto reale di questa cronaca, ed è, in quanto categoria storica, suscettibile di destare un interesse oltre la semplice curiosità paesana.
Se le vicende sono individuali e particolari, ciò nonostante, essendo un modo di pensare maggioritario, le rappresentazioni generali potranno essere simili a tantissime piccole storie di altre zone, che, assommate, rendono pericoloso e duraturo il fenomeno.
Lo spirito autoritario agirà qui “con mano e piedi” e mostrerà che ogni localismo soggiace pacificamente o forzatamente alla grande strategia dei fenomeni generali che inevitabilmente sottintendono una brama inconfessata di potere.
Potere significa impossessarsi, con tutti i mezzi a disposizione e secondo le circostanze, dei meccanismi del dominio e del consenso e quindi della vita, dei beni e della coscienza degli altri. Tal esproprio non necessariamente è sinonimo di violenza, perché, aspirandovi quasi tutti, si finisce, di tempo in tempo, per legittimare e provvedere al ricambio delle oligarchie egemoni.
Il servo non è meno colpevole del padrone, quando cova il progetto di “diventare padrone”. E ciò è tanto vero tenendo fermo l’assunto che il potere non si rende trasparente, se in esso non si coglie questa intrinseca caratteristica: che quanto più si è impotenti, mediocri e inetti, tanto più si aspira alla più malevola o volgare preminenza.
D’altra parte, sappiamo che tale processo non potrebbe presentarsi come dato pienamente storico, se non s’inserisse nella generale lotta di classe e, dunque, non fosse organico alle forze e alle forme produttive del proprio tempo.
Ecco perché tra potere e modi di produzione c’è un imprescindibile nesso per cui il potere crea le classi e, dialetticamente, le forme produttive diventano la struttura su cui si modella l’avvicendarsi della supremazia. Consegue che, fino a quando la preistoria del dominio non lascerà posto all’esercizio dell’autorità, non vivremo in una società fattiva e razionale, ma in condizione di generale sudditanza.
Nei piccoli paesi tutto si complica per l’immediatezza e la radicalità dei rapporti personali: ognuno aspira a un suo ruolo prevaricante, come più cani davanti ad un pezzo di carne.
Questa dialettica, che si personificherà in piccoli e ordinari protagonisti, nelle liti di piazza e di bottega, nelle esasperate relazioni, nell’antagonismo di gruppo, ha una sola aspirazione: l’inserimento fra “coloro che contano”.
Questo travaglio dettato spesso da una rivalsa invidiosa, servirà a dare l’esempio del perché, senza alcun trauma, la quasi totalità di un piccolo paese accolse come naturale portato, una dittatura che, senza qui voler discutere altro, proclamava la sua essenza in un motto di chiara miseria morale e civile: credere, obbedire, combattere.
Alla fine del saggio, chi legge potrà rendersi conto che la Società Operaia di Grimaldi fu un grande movimento di massa che, scadendo sempre più in una miseria ideale e fattiva, rinunciò ad essere quello che avrebbe potuto largamente rappresentare. Partendo da una lotta aperta contro i galantuomini del luogo, finì per ricreare una presunta pace sociale, il cui risultato fu un ricambio e un modestissimo allargamento dell’oligarchia dominante.
Perciò la Società Operaia, contrabbandando la sua degenerazione per un progresso di tutta la comunità grimaldese, esaurì la sua funzione nella rifondazione dell’ingiustizia sociale. Essa, nel piccolo mondo dei servi e dei padroni grimaldesi, ridusse la sua opera al richiamo all’antica nemesi banale, secondo cui i ruoli del dominio devono essere occupati a turno.
Divenne così, come le consimili ramificazioni nazionali, una macchina del consenso al servizio di chi, alla fine, poté sbarazzarsene senza suscitare scalpore.
La Società Operaia, nella sua parabola, riportò alla memoria storica un’altra antica esperienza: quando si opera o si tenta di operare, come fecero questi uomini che vollero dirsi confratelli, col metro di progettazione già usato dal mondo esistente, non può che verificarsi, in maniera rimodernata, nient’altro che un vecchio stato di cose. Questo procedere, infatti, non può nutrire speranza contro le figure del servo e del padrone.
In una società, basata sull’ingiustizia sociale, prima o poi, per necessità, sorgono delle organizzazioni che intendono riparare torti e miserie. Ma quando coloro che si ribellano hanno la mente formata dallo stesso fango di coloro contro cui combattono, la variazione reale, storicamente prodotta, è un semplice cambio di comparse e si parlerà di un progresso che è solo apparente.
Se la coscienza storica è, secondo l’affermazione di Hegel, come “l’uccello di Minerva che vola al calar della notte”, facendosi beffe di ogni dover essere, è anche come l’occhio di Dio, che non certo contempla, ma prepara, nel tempo che è stabilito, diluvi e redenzioni.
Perciò la storia è anche storia dei vinti e chi scrive non è mai un testimone: fa parte delle schiere in battaglia.
28-02-2011
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