Storia della Società Operaia di Grimaldi: Le vicende di don Enrico Del Vecchio

Le vicende di don Enrico Del Vecchio

 

Questi sono i nomi degli amministratori che il 10 gennaio 1911 s’insediarono al Comune:

– Albo Achille, fu Francesco, calzolaio

– Albo Nicola, fu Domenico, falegname

– Anselmo don Giovanni di Gaetano, proprietario

– Anselmo Antonio Micarello, contadino

– Anselmo don Giovanni fu Pietrantonio, ass. farmacista

– De Cicco Terenzio, orologiaio

– De Rosa don Amedeo, farmacista

– Giardino Giovanni, negoziante

– Del Vecchio don Enrico, avvocato

– Iacino Giovanni fu Francesco, calzolaio

– Nigro Francesco, contadino

– Pagliusi don Saverio, benestante

– Rollo Raffaele, cantiniere

– Saccomanno Raffaele Paolo, calzolaio

– Silvagni don Francesco, avvocato

– Tartaro don Francesco fu Gabriele, orologiaio

– Vetere don Raffaele fu Pasquale

– Anselmo don Giovanbattista

– De Rosa don Luigi, notaio

– Funari don Francesco

 

Com’è numericamente facile notare, nella lista sono compresi i consiglieri della minoranza, ma ad onor del vero, durante la gestione amministrativa di don Enrico del Vecchio, Sindaco e capo della Società Operaia, non ci fu mai alcuna voce di dissenso e il più delle volte i provvedimenti furono votati per acclamazione[1], essendo in toto, condizionati dal clima di cambiamento che ormai la Società Operaia aveva imposto nel paese.

Cito uno dei tanti episodi per fare capire la situazione. Spesso don Enrico Del Vecchio si recava a discutere in una farmacia, prossima alla piazza e non molto distante dal palazzotto di don Luigi, il quale per l’appunto inviava i suoi bravi a tentare di ascoltare. Le discussioni il più delle volte duravano fino a notte fonda, trasferendosi poi al piano superiore, nella casa del consigliere don Giovanni Anselmo, assistente della farmacia e intimo di don Enrico. Erano periodi in cui il Sindaco era minacciato di morte con varie lettere anonime, cosa possibilissima a quell’ora tarda, data la totale oscurità in cui a sera piombava il paese. Ebbene, alle prime ombre, due confratelli piantonavano la farmacia e aspettavano il compimento della discussione per scortarlo fino a casa, nel vicolo sopra la Pietra di Franco.

In questo clima teso, don Enrico denunciò, in un pubblico comizio tenuto davanti alla sede della Società Operaia i vari episodi in cui un potente galantuomo, con l’altisonante titolo di cavaliere, aveva profittato, in comunella con banchieri cosentini, tanto dei prestiti agli operai in partenza per cercare lavoro altrove, che dell’acquisto e della trasformazione dei dollari in titoli.

In poco tempo la Società Operaia divenne “un partito” e legò alle sue sorti la parte più accondiscendente dell’intellettualità sciammergara, accogliendoli e “usandoli”, tenuto presente la bassa scolarizzazione dei confratelli e l’esigenza di affrontare pratiche burocratiche e simili.

Don Enrico Del Vecchio, nella prima seduta, comunicò il programma dell’amministrazione.

Il paese doveva necessariamente essere fornito di una rete di fognatura e di acqua potabile, fattori evidenti delle periodiche epidemie e della mortalità infantile, che da anni ciclicamente si abbattevano sulla cittadinanza. Doveva essere potenziata l’assistenza sanitaria e la condotta medica da poco affidata al dott. Milano di Scigliano.

A proposito, don Enrico richiamò in causa l’operato di un noto medico da lui pubblicamente definito “il cavaliere della morte”. Costui aveva volutamente rinunciato al suo compito di medico condotto, esercitandolo gratuitamente per un paio di anni. Per questo aveva ricevuto vari encomi. Il Sindaco chiarì che, rinunciando a fare il medico condotto, costui colpiva direttamente la povera gente e non certo i galantuomini, che il medico avevano in casa; evidenziò che esercitava gratuitamente la sua opera solo sulla carta, se è vero che è tradizione ricevere sotto forma di regalie quello che per lui diventava superfluo, mentre altri lo toglievano alla fame dei loro figli. Ma la cosa che denunciò duramente è che il medico galantuomo era stato uno strumento per le sorti amministrative e politiche del paese, “medico del partito degli Amantea”, tanto che gli avversari nemmeno lo chiamavano in caso di malattia avendo timore di essere eufemisticamente “mal curati” (ecco perché definito “il cavaliere della morte”).

Continuando nell’enunciazione del programma, il Sindaco affermò che i progetti riguardanti le opere pubbliche non dovevano restare sulla carta, come in precedenza, a cominciare dalla viabilità esterna e interna, all’edificio scolastico, la cui realizzazione era anche la possibilità di dare a tutti la capacità di apprendere e farsi rispettare. Perciò da subito sarebbe stata aperta la scuola rurale San Lorenzo–Cancello, sottolineando che la vecchia amministrazione aveva rifiutato di “impiantarla”.

Di pari passo andava compiuto il risanamento dell’abitato e l’affidamento dei pubblici servizi a persone capaci e responsabili.

Per colpire il privilegio e l’arbitrio, che avevano portato i galantuomini a fare e a disfare atti, in funzione dei propri interessi, l’amministratore prometteva l’estensione a tutti i cittadini dei regolamenti locali, che perciò dovevano avere una “scrupolosa e completa esecuzione”. L’ossequio della legge, messo in risalto con vigore, voleva rappresentare l’ormai raggiunta uguaglianza di tutti: chi sbaglia, chiunque sia, deve soggiacere alle pene previste, senza alcuna eccezione.

Unitamente a queste misure, ad una politica di rigida economia sarebbe stata associata una politica di sgravio fiscale nei confronti delle famiglie più disagiate.

Con tali intenzioni la Società Operaia, com’è facile constatare, non compiva niente di eccezionale, giacché questo programma sarebbe stato ben realizzabile da una politica padronale più intelligente. Tuttavia, proprio questa grettezza, perdurante da anni nel paese, faceva di tali propositi un impegno fortemente innovatore e progressivo.

È chiaro che occorreva far seguire i fatti e i fatti vennero.

Fino al 31 ottobre 1914, data in cui si dimise, Enrico Del Vecchio fece conoscere al paese un attivismo incredibile, coinvolgendo spesso anche le amministrazioni dei paesi vicini.

Il programma annunciato fu portato avanti gradualmente, ma senza interruzioni. Furono rispolverati anche tutti i progetti, che erano stati approvati dai vecchi amministratori “per gettare fumo negli occhi”, profumatamente pagati e, come disse don Enrico in consiglio, “dimenticati negli archivi”. Nuove pratiche e progetti furono inoltrati, mentre i confratelli della Società Operaia autogestivano un progetto minimo di approvvigionamento idrico e di difesa igienica.

Furono migliorate, con questo stesso spirito, le condizioni della viabilità e, insieme agli altri comuni, fu riproposta la costruzione della statale 62 bis, che, come risulta a verbale, “non poté avvenire per inerzia e colpe di uomini e funesti intrighi che poterono prevalere fino a quanto le ragioni della verità e della giustizia non ebbero a trionfare”. Analogamente ci s’interessò dell’edificio scolastico.

È evidente che la realizzazione di queste opere non era tutta a discrezione dell’amministrazione, poiché occorrevano il nulla osta e i contributi dello stato, unitamente alla ricerca di ditte e cooperative in grado di realizzarle. L’amministrazione a questo proposito non mancò mai di sollecitare e interessare gli organi amministrativi superiori. Tale spirito non solo è evidenziato dalla documentazione comunale, ma dal fatto che tutto quello che l’amministrazione poté compiere senza ostacoli lo fece subito e prontamente.

I servizi pubblici ebbero una regolarità e una maggiore responsabilizzazione. Fu nominato un portalettere rurale. I servizi di spazzatura furono dati a cottimo e sorvegliati. L’illuminazione a petrolio potenziata. Furono iniziati lavori di rimboschimento. Le scuole rurali ebbero presto un rilevante numero di allievi. Fu sistemato il cimitero con nuove cripte e una migliore manutenzione. Fu assicurata l’assistenza ai poveri con l’attribuzione gratuita di medicine e, in alcuni casi, con il pagamento della cassa da morto. Si cercò di sistemare gli animali in porcili pubblici distanti dall’abitato. Fu data, per asta, la gestione dell’esattoria, antico feudo e fonte di guadagno di alcune famiglie di galantuomini, il fratello di don Enrico compreso, del partito degli Amantea e suo acerrimo nemico. Fu difeso a più riprese il fondo della Sila, da cui si cercò di ottenere miglior rendimento, portando la questione in parlamento con l’interessamento dell’on. Fera, del collegio di Rogliano. Si deliberò contro l’usurpazione di terre demaniali e la tassazione a ciò relativa.

Affiancato a tale attivismo, si creò una serie di commissioni per un più democratico funzionamento dell’amministrazione: commissione edilizia, commissione scolastica, commissione per reclami avverso le tasse del focatico e sul bestiame.

A tutti insomma apparve chiaro che si respirava aria nuova.

Insieme agli atti considerati non è possibile dimenticare una grande battaglia politica, da anni tenuta sopita e che si era determinata in seguito alla richiesta da parte di alcuni cittadini di Maione di aggregare il loro borgo al comune di Grimaldi, distaccandolo da Altilia.

Questa richiesta, datando dal lontano gennaio 1907, era stata una delle grandi manovre di don Luigi Amantea. Costui resosi conto che l’aggregazione degli abitanti di Maione, da tempo “feudo” degli Amantea[2] potesse costituire un rafforzamento del proprio partito, aveva spinto 21 cittadini a far pervenire una petizione. Già nel 1907, contro la proposta si era immediatamente schierato l’allora dissenziente don Antonio Del Vecchio, portando valide ragioni, ma non convincendo più di don Luigi Amantea, il quale, con dovizia di retorica, portò tutti ad accettare la richiesta, col solo voto contrario di don Antonio.

Don Enrico dichiarò apertamente che tale richiesta era frutto di “vili discordie insidiatrici del pubblico bene”, “dettata da miserevoli ripicchi” e da calcoli elettorali:

Insano proposito, che trovò purtroppo, compiacente e complice, in un momentaneo oscuramento della coscienza, la rappresentanza comunale di Grimaldi, rappresentanza però di nome e non di diritto, venuta su da una elezione disertata nel 1907 dall’immensa maggioranza degli elettori, travolta poca più tardi col peso dei suoi errori dall’impeto della pubblica coscienza ridesta”.

Chiarì tutti i motivi dell’inopportunità dell’atto in ordine economico, politico e soprattutto sociale e storico, ricordando che con Altilia e Maione, Grimaldi mantiene da tempo immemorabile ottimi e antichi vincoli di amicizia e solidarietà. Così il 13 febbraio 1911, con delibera per acclamazione, fu archiviata l’unione di Maione a Grimaldi.

Di don Luigi, ormai vecchio e sconfitto, nel paese non si terrà più conto.

A questo punto, in questo clima di euforia democratica, accaddero per don Enrico dei fatti familiari molto gravi, a causa dei quali, dopo varia resistenza, il ‘14, alla fine di ottobre egli si dimise irrevocabilmente.

Le prove di affetto e di gratitudine non gli erano mai mancate. Ad esempio, quando il 17 marzo del 1912, aveva presentato le proprie dimissioni per fugare le dicerie di poca democraticità e per dimostrare che non amava il potere per il potere, tutta la popolazione era insorta e il ritiro delle sue dimissioni si era trasformato in una grandiosa manifestazione per le vie del paese. A distanza di due anni questo affetto gli fu rinnovato quando lo salutarono nel momento di lasciare forzatamente la battaglia per curare la moglie irrimediabilmente malata[3].

Altri fatti, di altro genere, aggravarono la penosa situazione di don Enrico. Per motivi di beni ereditati e di antico astio, i suoi parenti, fratello in testa, iniziarono a perseguitarlo e arrivarono a tanta bassezza e ingratitudine da sparargli addosso mentre era in campagna, tanto che fu a stento salvato da un confratello.

Fu allora che, disperato, decise di lasciare tutto, allontanarsi completamente da quel luogo che per lui non poteva essere più la sua casa.

Diede in vendita per quattro soldi abitazione e terreni di proprietà, salutò gli amici e partì per Roma, dove almeno sperava, appena quarantenne, di aiutare la moglie a ritrovare la serenità, desiderando anche migliori possibilità professionali. Non riuscì in pratica né nell’una né nell’altra, restando in assoluta solitudine, affrontando coscienziosamente il suo lavoro, con l’unica figlia confinatasi nell’ascesi religiosa.

Di tanto in tanto, quasi a rincuorare se stesso, inviava bigliettini di saluto e incitamento alla “sua” Società Operaia.

A Roma lo spirito combattivo di don Enrico, sradicato dalla sua terra, isolato, schiacciato dalla durezza dei casi familiari, era definitivamente venuto meno.

Intanto i fatti nazionali si aggravavano con la tragedia immane della Prima guerra mondiale e tutto, anche a Grimaldi, fu scompaginato.

A don Enrico apparve evidente che un’epoca si era chiusa perfino nell’avito paese. L’epoca della rottura col parassitismo dei galantuomini aveva ceduto al trasformismo e al ritorno ad un nuovo potere, brutale come l’antico.

L’animo suo stimò che era giunta l’ora della rassegnazione, e, nel dopoguerra, anche la “viltà” per conservare il posto di lavoro è poca cosa rispetto al crollo del grande sogno umanitario per cui aveva combattuto, vinto dalla sorte e con l’amara constatazione che è difficile se non impossibile sperare un destino diverso.

Enrico Del Vecchio ritornò a Grimaldi per morirvi nella casa di campagna dei Silvagni, alla Foce, nell’agosto del 1927. La vedova ricevette decine di telegrammi, dalla “galantomeria” locale riconciliata, da Bonaventura T. Zumbini, dal Ministero dell’Aeronautica presso cui don Enrico era caposezione.

Scrisse il direttore generale Carboni, esprimendo personale cordoglio per “uno dei più distinti, colti e apprezzati funzionari di questa amministrazione”.

Al Podestà, per conto del Ministero, del direttore generale, del capo gabinetto dell’Aeronautica Pellegrini, fu chiesto di “deporre sulla salma corone, fiori, indicandone poi spesa”[4].

Morì dunque Enrico Del Vecchio da fascista, com’era tenuto a diventare ogni funzionario statale, lui che fascista non era mai stato.

Pietro Mancini lo ricordò giustamente solo come il capo onesto, che aveva sconfitto l’arroganza dei galantuomini di Grimaldi, che “aveva conquistato il comune debellando il dominio di alcune famiglie ricche ed influenti per censo e per relazioni parentali”, essendo sempre un ”uomo di austera vita democratica, professionista di eccezionale valore, immaturamente scomparso[5].

 

 

 

[1] Come è facile notare, parte della lista è composta di galantuomini: tutta l’opposizione, cosa inevitabile, e alcuni in maggioranza. La presenza in maggioranza si spiega con la ragione principale che alcuni galantuomini odiavano da tempo quello che definivano “il partito” degli Amantea, che li aveva emarginati e contro cui avevano voluto prendersi una rivalsa affiancando la Società Operaia, alla quale non erano iscritti.

[2] Il possedimento di parte del territorio di Maione era stato concesso dal re Ferdinando di Borbone al dott. Bruno Amantea a seguito delle sue benemerenze professionali e sociali.

[3] I fatti erano conosciuti e raccontati con particolari fantasiosi. Don Enrico, da giovane si era innamorato della giovane donna Carolina Silvagni. Quest’affetto era stato ostacolato dalla famiglia della ragazza, che fu tenuta sotto stretta sorveglianza. A un certo punto, però, le cose cambiarono radicalmente e nessuno ostacolò il matrimonio. La ragazza dava evidenti segni di squilibrio mentale, che ad alcuni parvero indipendenti dalle vicende amorose. I parenti di don Enrico erano insorti perché non volevano che si desse ora, solo perché era un partito senza più pretese, chi invece era stata a lungo rifiutata. Don Enrico le decisioni le prese, allora come sempre, da solo: nel 1904, lui ventinovenne e lei ventunenne si unirono in matrimonio.

Disgraziatamente né la nuova situazione, né il tempo, migliorarono le condizioni della donna, anzi successero ben presto delle azioni maniacali che, sebbene sopportate con grande affetto da don Enrico, comportavano necessariamente delle cure specialistiche. Dopo circa dieci anni di amara convivenza la situazione si era resa insostenibile.

[4] Allo stesso podestà giunse anche questo telegramma: “Pregola nome associazione fascista impiegati aeronautica porgere condoglianze famiglia defunto dottore Del Vecchio nostra camerata rappresentandoci funerali. Segretario nazionale Morino”.

[5] Pietro Mancini, Il Partito Socialista, op. cit.

 

28-02-2011

 

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