Le Società Operaie nel Meridione e in Italia
Le società Operaie, in Italia, raramente riuscirono a presentarsi come vere e proprie organizzazioni politiche e perciò finirono per essere una semplice rete di organizzazioni assistenziali e folcloristiche al servizio del governo.
Tutto ha origine dalle istanze politiche di Giuseppe Mazzini (1805-1872), che, partendo dal presupposto che una missione e un dovere fossero stati affidati da Dio a ogni uomo e a ogni popolo, pensava di realizzare una “repubblica italiana” interclassista, democratica e unitaria. Per questo compito educava molte schiere di italiani all’unità di pensiero e azione attraverso una morale del dovere e del sacrificio. Sono risaputi i moti risorgimentali ispirati da questo romanticismo religioso, tutti falliti, non ultimo, per la risonanza che ebbe nelle nostre zone, quello dei fratelli Bandiera, fucilati nel Vallone di Rovito a Cosenza (1844), dopo essere stati braccati, né poteva essere diversamente, dai contadini del luogo.
Mazzini vide come protagonista della sua rivoluzione un uomo astratto, una specie di templare, che poteva sorgere in ogni classe, tra i galantuomini e tra gli intellettuali, tra i contadini e tra gli artigiani. Perciò non ritenne mai adeguata la tesi secondo cui l’emancipazione nasce come conseguenza inevitabile del mutamento delle condizioni di produzione, giacché per lui tutto è popolo, tutto è organico davanti all’avvenire mistico di una suprema quanto generica patria.
Quest’assurdità, osteggiata da Michele Bakunin (1814-1876)[1] e dalle prime organizzazioni operaie, fu criticata in concreto da Cavour (1810-1861), che agiva nel proprio interesse e in quello della monarchia sabauda e la usò, da statista, a proprio vantaggio.
A coronamento di questo sovversivismo romantico-rivoluzionario di Mazzini, si situò la fondazione del Partito di Azione, i cui principi sono i soliti proponimenti astratti e interclassisti. Come evidenziò Gramsci nelle sue Note sul Risorgimento[2], mancava tutto per fare di quest’agglomerato un partito. È esatto pertanto il giudizio secondo cui “storicamente il Partito d’Azione fu guidato dai moderati”, cioè dagli stessi avversari e che “ben poteva affermare Emanuele II di averlo in tasca”.
Dal fallimento politico mazziniano, dalla Giovane Italia fino al Partito di Azione, e dai moti ad essi connessi, sorge l’altro fallimento delle Società Operaie di Mutuo Soccorso.
Questi raggruppamenti furono ispirati da Mazzini come risposta all’Internazionale dei Lavoratori, della quale fu acerrimo nemico e nella quale vedeva “la negazione dell’ordine, di Dio e della proprietà privata”.
Rimarcando la solidarietà e il mutualismo, quasi nella stessa logica della carità cattolica, le Società Operaie divennero molto popolari, ottenendo il consenso di tanti ceti che mai avrebbero dato il loro appoggio a iniziative ispirate da Marx (1818-1883) o da Bakunin. Ciò avvenne specialmente tra gli sfruttati del Sud che non avvertirono minimamente il mutamento storico della Comune di Parigi (1871), che, sebbene repressa nel sangue, era uno spettro contro il quale Mazzini lanciava invariabilmente appelli ed invettive.
In linea con le altre iniziative mazziniane, le Società Operaie subirono l’identica integrazione nel sistema monarchico.
Ai primi del 900, quando esse si configurarono in 8.000 mutue, con più di un milione di aderenti, la monarchia sabauda attuando la piemontizzazione dell’Italia, le aveva inglobate nei suoi meccanismi assistenziali ed esse, proprio per essere istituzionalizzate, si erano diffuse a macchia d’olio.
La legge del 1886[3] dà appunto alle Società Operaie il pieno riconoscimento giuridico, stabilendo che dovessero
“assicurare ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza nel lavoro o di vecchiaia; di venire in aiuto alle famiglie dei soci defunti; dare aiuto ai soci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere; esercitare altri uffici, propri delle istituzioni di previdenza economica”,
essere insomma il surrogato del mancato intervento statale.
In questo milione di soci è necessario distinguere tre categorie politiche: la prima, più visibile, era quella filo istituzionale e che, per tale ragione, godeva di più prestigio e di maggior considerazione; la seconda, di molto inferiore, si atteggiava a repubblicana e tingeva la propria propaganda e la propria azione d’un afflato socialisteggiante; la terza, costituita da socialisti, anarchici e repubblicani radicali, operava nella sua marginalità, come un’avanguardia di infiltrati con progetti abbastanza fumosi[4].
Sulla base di questa schematica composizione ideologica, è opportuno valutare la situazione produttiva in cui si situa questo processo.
L’analisi deve dare per scontato non solo l’arretratezza economica e culturale del Sud, ma il fatto che esso costituiva concretamente “un’altra Italia”.
L’Italia meridionale del 1870, nella quasi totalità, è una società di contadini, i quali non avevano alcuna reale rappresentanza politica. Non molti anni prima, durante la spedizione dei Mille, “la plebaglia” era stata tacitata dagli episodi di Bronte e Randazzo, paesi in cui “i rivoltosi” erano stati giudicati sommariamente e massacrati dal generale garibaldino Nino Bixio (1821-1873)[5] e, per capire in che considerazione fossero tenuti gli emarginati, basti ricordare lo statuto della società segreta Esperia, fondata dai fratelli Bandiera:
“Non si facciano, se non con sommo riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché essa quasi sempre per natura è imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi […], ai forti […], e ai dotti […], negligendo i poveri, i deboli […], gli ignoranti”.
Ciò premesso, non mi è consentito dilungarmi sulla guerra civile che insanguinò il Meridione in seguito alla conquista regia[6] (1861) e che è conosciuta sotto il nome di brigantaggio. Esiste in merito un’enorme letteratura che dà conto della carneficina di contadini e di braccianti, che, se non sempre stavano dalla parte della ragione, furono tuttavia trattati e massacrati “come cani”.
In una lettera del 1868 ad Adelaide Cairoli, Giuseppe Garibaldi ebbe a scrivere:
[Le masse infelici del Meridione] “maledicono oggi coloro che li sottrassero al giogo di un dispotismo che almeno non li condannava all’inedia […] per rigettarli sopra un dispotismo più orrido assai […] più degradante e che li spinge a morire di fame … Non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate dai popoli che mi tengono complice della spregevole genia che disgraziatamente regge l’Italia”.
Nei primi del ‘900 la situazione dei contadini meridionali, e comprensibilmente della Valle del Savuto, è analoga a quella post-unitaria. La produzione agricola, nella maggioranza dei casi, è a carattere latifondistico, in mano a pochi proprietari, a cui un incontrovertibile e indiretto apporto aveva dato la stessa vicenda garibaldina[7].
Vegetava una feudalità intoccabile, per cui nella società si distinguevano nettamente due classi: i proprietari, spesso deleganti ai fattori l’immediato sfruttamento delle forze contadine che lavoravano le “loro” terre e, dall’altra, i contadini poveri, le cui condizioni di arretratezza e di sfruttamento possono essere comprese, tenendo presente che erano ben lontani da un rapporto di mezzadria e lontanissimi da qualsiasi garanzia contrattuale.
In effetti, nei primi decenni del secolo, questa vecchia classe gattopardesca stava diventando obiettivamente un ostacolo per l’altra Italia, quella dell’industria e dello sfruttamento agricolo razionale, quella che si avviava verso la modernità, anche se a piccoli passi.
Tutte le indagini conoscitive, condotte da borghesi illuminati, denunciano una feudalità meridionale arretrata e parassita, legata ad un modo di produrre e di operare non adeguato ai tempi.
Essa, incoraggiata e foraggiata nella prima fase unitaria, successivamente, per le stesse leggi dello sviluppo, era diventata una “palla al piede”[8] per la borghesia nordista. È la classica situazione verificatasi in tutti gli stati moderni nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo e che aveva fatto dire al grande economista Ricardo che “l’interesse del proprietario terriero è sempre in contrasto con quello di tutte le altri classi sociali”.
Per questo il padronato postunitario al governo mise in atto la strategia di liberare gradualmente i contadini dai vincoli servili, creandosi una grande riserva di manodopera, così com’era avvenuto negli altri paesi europei.
In questo percorso non sempre lineare si situa la legalizzazione delle Società Operaia, che, in un momento in cui si stavano formando le prime reti bancarie o anche le Casse Rurali, potevano assicurare l’esplicarsi di una piccola forma di risparmio e di attività di mercato.
Tuttavia questa strategia fu concretamente possibile per la nascita di un nuovo soggetto sociale: il ceto medio. Progredendo l’industrializzazione e la mentalità unitaria e statale, si era venuta a formare, in tutta l’Italia e con effetti devastanti nel meridione, una larga fascia di lavoratori che, proprio in questi primi anni del secolo, assunse larga consistenza: quella degli artigiani, dei braccianti, dei lavoratori in proprio, dei commercianti, dei piccoli proprietari terrieri e così di seguito.
Venne, man mano, a delinearsi in maniera specifica una classe piccolo borghese produttiva che aveva come principale scopo la propria autonomia economica e sociale, tale da renderla equidistante tanto dalla classe dominante borghese o agraria che dal cosiddetto proletariato, appena in formazione.
Quello che conta ancora rimarcare è che questi “ordini medi”, specialmente nel meridione, tennero fortemente a distinguersi dai contadini poveri, specialmente nelle piccole realtà paesane.
La borghesia del nord, quando questo fenomeno maturò, utilizzò la classe media produttiva e improduttiva (quella dei galantuomini declassati), per creare intorno al suo dominio le organizzazioni del consenso, per strutturare nuovi rapporti amministrativi, delegandole precipuamente compiti burocratici e clientelari, e, come nel caso specifico delle Società Operaie, la mutualità e il potere municipale.
Contestualmente a questi fenomeni, l’emigrazione dei “contadini senza speranza” diveniva sempre più pressante, sia verso il Nord dell’Italia che massicciamente verso l’estero.
Lungo questo percorso le Società Operaie unitamente ai partiti post unitari, compreso quello socialista, alla fine daranno i militanti al fascismo, quel movimento non improvviso, che, per la prima volta dimostrò in che misura la classe media possa fare storia[9], trasformandosi da strumento del dominio altrui a dominio per proprio interesse[10].
[1] Si veda il noto: M. Bakunin, Dio e lo Stato, tradotto e curato da Giuseppe Rose (1921-1975), nostro concittadino, anarchico, mio amico carissimo, Ed. RL, 1970.
In questo saggio Bakunin pone lucidamente la diversità tra autorità e potere, che resta una lezione permanente.
[2] Antonio Gramsci, Il Risorgimento, Torino 1966, pag. 70 e seg.
[3] È la legge del 15 aprile 1886, la n. 3818.
[4] Per quanto riguarda le Società Operaie in genere e la loro organizzazione, si rimanda come fonte di riferimento essenziale al noto e pionieristico lavoro di Nello Rosselli, Mazzini e Bakunin, ed. Einaudi.
Per quanto riguarda la Calabria e specialmente a riprova della funzione anti-internazionale delle Società Operaia di Mutuo Soccorso si rimanda a: Enrico Esposito, L’egemonia borghese, (1870 -1892), Cs 1977, Pellegrini ed. Per altro riferirsi alla bibliografia a fine volume.
[5] Scrive Cesare Abba, riferendosi a Bixio, nel libro popolarissimo Da Quarto a Volturno, “Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi, ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! ma niuno osò muoversi”.
[6] Gramsci, Il Risorgimento, op. cit.
[7] Si veda nella circostanza la figura di Donato Morelli (1824-1902) di Rogliano.
[8] Antonio Gramsci, Il Risorgimento, op.cit.
[9] La tesi è stata anticipata e dimostrata da Luigi Salvatorelli (1886-1974) in numerosi saggi.
[10] La storia del ceto medio è molto ampia e importante e solo per aver accettato acriticamente una valutazione sommaria di Karl Marx, non è stata considerata in tempo utile e nell’esatta funzione storica. Marx riducendo la lotta di classe allo scontro tra borghesia e proletariato, aveva creduto giusto affermare che la piccola borghesia sarebbe “precipitata nel proletariato” e che per premunirsi da questa evenienza, sarebbe stata, in alcuni momenti, solo in alcuni momenti, pronta a combattere la borghesia, per fini però puramente conservatori e reazionari, poiché cercava di ”far girare all’indietro la ruota della storia”. Di essa, in ogni caso, non si dava storia per la logica del tertium non datur.
Ancora più pesante il giudizio di Marx sul sottoproletariato, che viveva ai margini della società. Non è qui opportuno ampliare il problema, ma occorre rilevare che la borghesia italiana si regolò per considerazioni opposte: pensò di fare della classe media un proprio strumento, salvandola in cambio dalla distruzione.
28-02-2011
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