Storia della Società Operaia di Grimaldi: La sconfitta di don Luigi Amantea

La sconfitta di don Luigi Amantea

 

La prima insolente pubblicità, il nucleo fondatore della Società Operaia, se la procurò il 20 ottobre del 1905 in quell’ambito particolare in cui il potere dei galantuomini sembrava più inattaccabile e tradizionale: l’amministrazione municipale[1].

La rappresentanza sciammergara[2] era in assoluta maggioranza formata da galantuomini, affiancati da alcuni benestanti, “familiari” della consorteria locale. Tutti questi personaggi, in un balletto di parentele e di ereditarietà di incarichi, rappresentavano la staticità della società nel suo insieme.

Nessuno di loro brillò oltre il dominio esercitato sulla cittadinanza di Grimaldi, fatta eccezione per don Filippo Amantea.

Della loro “emarginazione” è tipica la storiella su don Moisé Nigro, il galantuomo per eccellenza, il quale, avendo fatto un viaggio a Napoli, si vide trattato come uno sprovveduto bifolco, di modo che ritornando in paese, al primo che gli si scappellò col tradizionale: “Servo vostro, don Moisé!”, rispose sarcasticamente ad alta voce: “Don Moisé a Grimaldi! Fuori di qui nemmeno Moisé Nigro”. Vera o non vera, la storiella dà almeno ragione del fatto che nessuno ha ormai memoria di questa gente.

In ogni caso, il loro potere amministrativo, favorito dalla legge elettorale censitaria[3], era considerato così naturale come potevano esserlo i carabinieri e la pretura. Su quest’ordito la vita era continuata come d’abitudine e come d’abitudine i galantuomini mai si attendevano un pronunciamento.

L’unica opposizione legittima era ritenuta quella nell’ambito del consiglio comunale, poiché erano loro stessi che per contrasti familiari avevano bisogno di crearsi una dialettica interna, ben sapendo che i consiglieri dell’opposizione, critici prima di entrare nel consiglio, una volta imbrigliati, finivano per essere più realisti del re.

Don Filippo Amantea non era stato eletto come candidato d’opposizione? Il 29 settembre 1903, quando era stata insediata la nuova amministrazione, aveva fatto mettere a verbale:

Il neo consigliere avv. Filippo Amantea, anche a nome dei compagni ricambia […] il saluto al Presidente e dichiara che militando nel campo dell’opposizione, il gruppo, per l’elezione del Sindaco […] voterà per ora […] scheda bianca appunto per non approvare l’indirizzo tenuto nella passata amministrazione

facendo veramente indispettire don Pasquale Vetere, candidato a Sindaco, che ottenne soli 10 voti, contro 6 schede bianche. A due anni di distanza, venti eletti su venti, sotto la diligente guida di don Luigi Amantea, governavano in soddisfatta comunione.

Ecco perché l’episodio di un’opposizione “operaia” fu visto come assolutamente sovversivo, pur se questa sedicente Società Operaia era ritenuta una buffonata, un’associazione di corta durata.

Il modo nuovo in cui i confratelli, come cominciavano a definirsi, intendevano fare opposizione, era inaccettabile. Non solo chiedevano conto di un comportamento amministrativo da anni reputato insindacabile, ma mettevano in discussione la stessa onestà di chi aveva retto le sorti del paese.

I fatti accaddero così. Nel mese di maggio del 1905, in base alla circolare di prefettura, era stato rinnovato parzialmente il consiglio comunale. Si venne a creare una situazione nuova a causa di una duplice contestazione, che potremmo definire, per comodità, di destra e di sinistra. Entrambe le lagnanze si riferivano al modo con cui si era votato, poiché gli amministratori erano accusati di avere distribuito schede già segnate con indicazioni e segni di riconoscimento. Però, mentre la denuncia “di destra”, era perorata in un certo qual modo dalla stessa maggioranza[4], l’altra di “sinistra” intendeva mettere sotto accusa la palese gestione padronale della rappresentanza.[5]

Le due contestazioni furono naturalmente discusse in tono molto differente: all’istanza di destra fu perfino riconosciuto che, effettivamente, nell’elezione della minoranza si era attuata qualche irregolarità; quella di sinistra invece venne discussa con malcelato astio e subito accantonata perché non presentata nei termini di legge e, cosa strana per un’istanza non vagliata, perché “i fatti denunciati erano inesistenti”.

La questione non si dimostrò facilmente archiviabile, perché coloro che avevano prodotta l’istanza di sinistra, i confratelli, non si erano uniti sulla base della denuncia dei brogli elettorali, ma, al contrario, avevano fatto di quell’accaduto, l’occasione per annunciare la loro presenza a tutti i cittadini. Né erano soltanto cinque[6].

Di loro la personalità più vivace era senz’altro Terenzio de Cicco. Ventiquattrenne, imberbe, fornito di una certa cultura che gli derivava dallo zio prete, don Pelio, con una vaga conoscenza della storia grimaldese e principalmente dei capillari travagli delle famiglie importanti, avrebbe potuto inserirsi tra i fiancheggiatori dei galantuomini e quindi fra gli amministratori. Ma era estremamente pieno di sé e si era modellato un virulento odio per essi, alimentato dallo stesso zio. Nel segno dell’ambiguità.

Anche in lui era radicata l’idea di primeggiare, convinto di essere diverso e di aver capacità più degli altri, idea in sostanza salutare, ma che adottata da nature deboli finisce per portare lungo la strada dei vecchi poteri.

In ogni caso, nel 1905, Terenzio De Cicco era la bestia nera del potere sciammergaro, il quale intuitivamente lo accusò di aver soltanto odio e invidia. Per il De Cicco di allora, questa era la tacita dimostrazione dell’arroganza e dell’immobilismo sciammergaro.

Il “gesto” antiamministrativo dei confratelli produsse un immediato e ampio risuono in paese e divenne un annunciato temporale quando fu noto che alla Società Operaia avevano dato la loro adesione l’avvocato don Enrico Del Vecchio e, più tiepidamente, don Francesco Tartaro.

Gli sciammergari tirarono a campare per altri mesi, finché il 1909, con l’inaugurazione proprio in piazza della sede della Società Operaia, terminò la loro gestione amministrativa.

Gli amministratori, come detto, rappresentavano le famiglie più potenti del paese, ma il potere della rappresentanza è ben diverso dal potere reale, che spesso s’incarna in un’oligarchia o perfino in una sola persona.

A Grimaldi il potere s’incarnava in don Luigi Amantea. Costui, nello stesso portamento, nell’eloquio vanaglorioso e retorico, nel ruolo di capo dei galantuomini, aveva sempre legittimato il suo dominio, padroneggiando tutte le situazioni burocratiche e amministrative, rimediando a tutto, aggirando con le parole i problemi della comunità, con accortezza, usando di preferenza la persuasione, vincendo battaglie date per perse o quelle che vedevano solo lui quale promotore mentre gli altri attendevano dubbiosi.

Fin quando Grimaldi restò un paese sperduto, autarchico e arretrato, la logica di don Luigi Amantea sarebbe stata la stessa vita della cittadinanza. Ecco perché don Moisé Nigro gli si era affidato pienamente, disimpegnandosi dalla partecipazione diretta, nella misura in cui i Saccomanno Fortunato o i Vincenzo Falcone, pur lontani da gentilizi natali, essendo benestanti, trovavano anch’essi in don Luigi, colui che li legittimava tra i galantuomini, difendendone subdolamente la “laboriosità”.

Quando un uomo assurge a tale ruolo, anche in un ambito ristretto, c’è una sola spiegazione: egli è il più lucido e conseguente difensore degli interessi della sua classe. Infatti, mentre gli altri, spesso e volentieri si dividevano per basso personalismo, per liti preordinate, per meschinerie e basso guadagno, don Luigi tenne sempre fermo l’occhio al sistema, sul modo di preservarlo e potenziarlo o perfino rifondarlo, usando proprio il piccolo mondo degli altri. Così non poteva non dominare, nel nome, tra l’altro, della sua famiglia.

Per questo ruolo don Luigi, più di tutta la sua consorteria, odiò profondamente fin dal suo nascere la Società Operaia e in particolare Terenzio De Cicco, ma dimostrando indirettamente che il suo potere era ormai in declino, volendo nascondere a se stesso che tanti avevano aperto gli occhi su un’esistenza che si trascinava come una lunga bestemmia. L’abitudine più che decennale a non avere avversari, lo poneva in condizioni di compiere azioni dettate dalla fine.

L’11 giugno 1910 fu il venerdì di passione per il dominio sciammergaro.

Quel giorno quattro nemici andarono a prendere posto fra i consiglieri e questo dopo che, da almeno due anni, la Società Operaia aveva reso il paese una fucina di malcontento. Dalle prime avvisaglie don Luigi aveva creduto di poter padroneggiare il dissenso popolare con la noncuranza e il disprezzo, ma ora che i nemici erano penetrati nella “sua” cittadella, avvertiva qualcosa di molto simile alla rabbia e alla paura.

I quattro confratelli che sedevano in consiglio erano il contadino Anselmo Antonio Micarello, il contadino Nigro Francesco, il calzolaio Saccomanno Raffaele Paolo, l’orologiaio Terenzio De Cicco.

La loro elezione era stata preceduta da una burrascosa polemica. La Società Operaia, nel suo proponimento antisciammergaro, si era fatta portavoce di un vago mazzinianesimo, permeato di generiche “frasi” socialiste. Questa ideologizzazione era sorta per alcuni contatti stabiliti con Federico Adami di Cosenza, uomo d’indubbia moralità, combattente politico assai noto oltre la stessa città, dove operava come tipografo[7].

Il suo giornale La parola Repubblicana dava voce a buona parte dei pochi “democratici” dell’epoca.[8] Essendo amico di Pietro Mancini, riferimento di molti confratelli grimaldesi, accettò di dare spazio sul suo giornale alla loro battaglia.

Su La Parola Repubblicana uscirono attacchi spietati contro i galantuomini grimaldesi[9], con un’elevata risonanza nei paesi vicini. Dopo la denuncia dei brogli elettorali del 1905, questo fu il colpo più assestato agli sciammergari.

La popolazione di Grimaldi apertamente, o tacitamente per paura di ritorsioni, si schierò con i figli del lavoro.

La lotta s’incarnò e fu guidata da don Enrico Del Vecchio, che sfruttò la sua grande capacità oratoria unita ad una certa goliardia[10]. Pietro Mancini, ricordando proprio questi avvenimenti, così scriveva di lui:

A Grimaldi la Società Operaia, degna allora della lotta che in altri tempi[11] la classe contadina di Grimaldi aveva combattuto contro il galantomismo paesano, era guidata dall’avv. Enrico Del Vecchio, uomo di austera vita democratica, professionista di eccezionale valore…”.

Nel mentre uscivano gli articoli su La Parola Repubblicana, don Enrico andava organizzando comizi per ogni rione, su improvvisati palchetti o spesso aspettando in piazza l’uscita della Messa. Gli sciammergari, in seduta permanente nel salotto degli Amantea, avevano in un primo tempo scelto la via della polemica e del pettegolezzo.

Don Luigi Amantea, troppo vigile e intelligente per non capire il mutamento dei tempi, osservò che il popolo sembrava non prendere posizione, ma tacitamente “godeva”. Così decise di affrontare la questione in pieno consiglio comunale e, dopo un duro attacco, fece deliberare una risposta pubblica agli articoli de La Parola, nell’imminenza del rinnovo parziale del consiglio comunale[12].

Le argomentazioni del libello sono il chiaro esempio della ciarlataneria degli amministratori. Esse per un verso partono dalle stesse denunce degli avversari, ritenendo di minimizzarle o di renderle poco credibili; dall’altro, reputando innata l’incapacità popolare di pensare criticamente, si affidano al sentimentalismo, al senso comune, per presentare gli amministratori come “vittime” che, nell’affrontare i problemi, hanno fatto tutto quello che era umanamente possibile.

Si è detto che si sono tenute le scuole in locali indecenti e per ciò gli alunni le hanno disertate, che si sono lasciate in completo abbandono le strade interne ed esterne, lo spazzamento, l’illuminazione; che la guardia municipale ed il portalettere non fanno il loro dovere; che le condizioni igieniche sono pessime. Ora sentite…”. “Nel 1907, di fronte all’impossibilità di trovare altri locali, essendo stati anche dall’autorità scolastica riconosciuti inadatti quelli che si avevano in fitto, l’amministrazione fu costretta a trasferirle nell’ex convento, adattando all’uopo, come si potette meglio, due vani di quel fabbricato. Ma, oltre che quei locali non rispondevano perfettamente al bisogno, presentavano l’inconveniente grave della eccentricità […] ed appunto a rimuoverlo si continuò nella ricerca di altri locali che, per fortunata […] combinazione, si potettero avere in località centrale e più rispondenti allo scopo, come ha poi dovuto riconoscere lo stesso accusatore. Ciononostante, questa dei locali scolastici, non cessare dall’essere questione sempre viva e da risolvere in modo completo […], mediante la costruzione di apposito edificio. Come far fronte alla spesa occorrente dirò in seguito; intanto rimane fermo che non solo ci si è addebitata una colpa insussistente […], ma si è rivolto contro di noi lo stesso nostro zelo […], rinfacciandoci come sprecata la somma spesa per alloggiare provvisoriamente le due scuole nell’ex convento. Eppure in paese tutti sanno […] che altri locali disponibili non c’erano, e che quelli ora […] ottenuti è stata fortuna […] se si sono potuti avere. D’altra parte del denaro speso si è anche giovato […] non poco quel fabbricato che è pure parte del patrimonio comunale… Ora se questo si chiama sprecare denaro, io, francamente, sono per lo spreco […]”.

Il culmine di questa sciatteria si raggiunge in quella parte dell’opuscolo, dove è discusso il caso della guardia municipale:

La guardia municipale è oramai avanti negli anni, e serve il Comune da oltre un ventennio. Essa, come tutti voi sapete, né giova nasconderlo, pecca di soverchia debolezza […], ragione per cui la Giunta ebbe cura di sorvegliarla, di richiamarla, ammonirla sospenderla anche; ma metterla sulla strada non ha creduto… Che se ad altri piace per darsi semplicemente il gusto di muovere attacchi all’Amministrazione, bistrattare […] dei poveri salariati invecchiati al servizio del Comune, noi non possiamo, al solo scopo di compiacerli o di evitarci noie, sacrificarli […]”.

Il disprezzo dell’intelligenza di chi legge è compiuto poi in questo passo meschino e sgrammaticato:

Quando […] all’illuminazione pubblica, dato il sistema adottato, e non da oggi, d’illuminazione a petrolio, e dato il fondo stanziato ad hoc in bilancio […], non si potrebbe davvero pretendere […] che funzioni meglio”.

Come se il fondo “ad hoc” fosse stabilito dal popolo. Non cito il resto dell’opuscolo, giacché intende attribuire la colpa della mortalità epidemica al destino, nello stesso tempo in cui è riconosciuto il fatto delle gravissime condizioni igieniche dell’abitato e la mancata assistenza alle famiglie più povere. Con lo stesso andamento sono trattati i rimanenti problemi.

C’è da dire una cosa: l’effetto stesso che produsse la distribuzione dell’opuscolo è la misura di quanto fosse considerato ignobile. Il popolo di Grimaldi in aperta risposta promosse la vittoria amministrativa della Società Operaia in quel rinnovo parziale del consiglio, quel fatto che non avrebbe mai dovuto verificarsi.

Quando i quattro confratelli andarono a sedersi tra i consiglieri, la bile degli avversari sciammergari fu il primo punto all’ordine del giorno. Aperta la seduta, iniziarono le operazioni per l’elezione del Sindaco. Presiedeva il vecchio sciammergaro Gennaro Amantea, perché il suo omonimo, Sindaco uscente, non aveva inteso presentarsi a un Consiglio dove era presente la Società Operaia e si era fatto dichiarare “momentaneamente impedito”.

Quando Terenzio De Cicco, a nome del gruppo della Società Operaia dichiarò di votare scheda bianca “in segno di protesta”, poiché chiunque fosse stato il Sindaco, proprio perché espressione di parte nemica “non poteva godere la fiducia del gruppo”, scoppiò l’ira di don Luigi Amantea.

Le votazioni fecero convergere sul Sindaco assente, don Gennarino Amantea, dieci voti mentre quattro furono le schede bianche, con l’astensione dello stesso don Luigi, giacché, il Sindaco era suo fratello.

Letti i risultati, don Luigi, che aveva cercato di mantenere il suo solito atteggiamento di disprezzo verso i quattro confratelli, annunciò, dimostrando come tutta la farsa fosse stata preparata, che il fratello “non poteva più assolutamente mantenere oltre la carica” e poiché si accorse che parecchi tra il pubblico in sala sembravano tacitamente congratularsi con i confratelli, ritenuti a torto o a ragione, causa del fatto, mandando al diavolo la falsa calma, iniziò un furibondo attacco contro la Società Operaia e i suoi rappresentanti in aula. Disse che la Società Operaia era al servizio di “meschine competizioni di persona”, un’organizzazione che si prefigge una “fittizia agitazione”, il cui fine non è “un vero e ben inteso interesse cittadino”. Rovesciando tutto quello che aveva in corpo, richiamò l’attacco de La Parola Repubblicana esprimendo pubblicamente lo sdegno per l’esito sortito dalla distribuzione del suo famoso opuscolo:

quella relazione non bastò allo scopo, che un certo pubblico è poco atto a leggere e a pensare e qualcheduno, cui non manca né intelligenza né cultura, ma solo buona fede, si è adoperato in tutti i modi come evitare la luce”.

La bile di don Luigi Amantea andò crescendo e, tra urla e reciproche invettive, propose le dimissioni in massa, iniziando con le proprie. L’aria si era fatta incandescente, alcuni anche tra il pubblico erano al limite dello scontro fisico. Fu così che quel memorabile Consiglio dell’11 giugno 1910 si chiuse con l’aggiornamento della seduta e la non accettazione della proposta di dimissioni in massa, comprese quelle di don Luigi.

Si giunse alla seduta del 23 giugno, senza che la situazione avesse potuto trovare soluzione, ma, al contrario, con maggiore veemenza. La seduta si aprì con la presentazione delle dimissioni del Sindaco don Gennarino Amantea e don Luigi ripropose ancora le dimissioni in massa.

A questo punto il vecchio sciammergaro, don Francesco Funari, cercò di calmare gli animi con un discorso logico ma piuttosto minimizzante. Disse che, con l’ultimo rinnovo parziale, le cose stavano in parte come prima, e che, se era cambiata l’opposizione, non era cambiata la forza della maggioranza. Tale discorso quantitativo calmò per poco gli animi. Ciò servì a far continuare la seduta con l’elezione a Sindaco di don Antonio Anselmo di Samuele e della giunta nelle persone di don Gennarino Amantea fu Francesco, di don Giovanni Anselmo fu Raffaele, di don Francesco Funari e di Vincenzo Falcone.

La situazione era però irrimediabilmente compromessa. Non solo il nuovo Sindaco non accettò, ma anche nelle sedute successive non si trovò alcun appianamento. Tranne il breve periodo di tregua in cui fu finalmente votata all’unanimità l’accettazione come medico condotto […] del dott. Domenico Milano di Scigliano[13], si arrivò al 10 dicembre dello stesso anno, in cui, a risolvere la questione fu mandato il commissario prefettizio, dott. Bartolotta Marcello.

Questa venuta fu salutata con favore dalla Società Operaia, che vide allontanati i vecchi amministratori e ritenne di buon auspicio il fatto che il commissario, tra i primi provvedimenti, autorizzasse a procedere contro gli eredi di don Raffaele Anselmo, contro don Alberico De Rosa e don Antonio Del Vecchio, tutti ex tesorieri, debitori col comune di cifre spesso rilevanti. Analoga autorizzazione fu determinata contro don Francesco Vetere, per mancato pagamento dei canoni demaniali.

Contemporaneamente furono riparati la via Ognisanti e il ponticello Prato.

Alla Società Operaia a questo punto sembrò opportuno attenuare l’opposizione, ritenendo, a verbale, che l’opera del commissario Bartolotta si era dimostrata “illuminata, zelante e coscienziosa”. Del resto la gestione commissariale durò solo pochi giorni, poi furono indette nuove elezioni amministrative e venne il fatidico 10 gennaio 1911, quando la Società Operaia vinse le elezioni, tra la rabbia sciammergara.

Scese in piazza a festeggiare un sacco di gente, perché questa volta anche i paurosi, vedendo i galantuomini abbattuti, chiusi in casa con le loro famiglie, salutarono l’insediamento dell’amministrazione della Società Operaia, speranza di rinnovamento e di giustizia.

 

 

 

[1] ”Le elezioni, sia politiche che amministrative, si svolgevano sotto l’influenza degli opposti gruppi di clientela (formati dai possidenti, dai medici, dai grandi impiegati dell’Amministrazione, i quali controllavano un largo numero di impiegati minori), divisi In due liste, la democratica e la moderata. Questi partiti tradizionali non potevano considerarsi partiti nel senso moderno della parola, ma solo gruppi o fazioni clientelistiche che ad ogni elezione aumentavano di numero”. (G. Masi, Il movimento socialista a Cosenza negli anni 1892-1900 in Historica, O. XXIII, n. 1, Reggio Cal. 1970).

[2] Questi sono i loro nomi:

1) Amantea cav. don Luigi

2) Amantea don Giuseppe

3) Amantea avv. don Filippo

4) Amantea don Gennarino

5) Amantea don Gennaro

6) Albi don Giovanni, farmacista

7) Anselmo don Giovanbattista

8) Anselmo don Giovanni di Raffaele

9) Anselmo don Antonio di Samuele

10) Anselmo don Antonio di Gaetano

11) Del Vecchio don Antonio

12) Funari don Francesco

13) Mauro don Raffaele

14) Nigro don Moisé

15) Silvagni avv. don Giuseppe

16) Vetere dott. don Pasquale

17) Falcone Michele

18) lacino Gennaro

19) Rose Raffaele

20) Saccomanno Fortunato.

[3] La legge elettorale universale maschile fu introdotta nel 1912 e in base ad essa vennero tenute le elezioni dell’anno successive.

[4] La mozione di destra era firmata da Falcone Vincenzo, Genovese Rosario, Anselmo don Zaccaria e Anselmo don Raffaele.

[5] Essa era firmata da Anselmo Antonio Micarello, contadino; da De Cicco Terenzio, artigiano, da Albo Achille, calzolaio, da Vetere Francesco, falegname, da Tartaro don Francesco, orologiaio.

[6] Il direttivo “clandestino” sulla scia delle società segrete allora in voga, era costituito da De Cicco Terenzio, Nigro Francesco fu Giovanni, Anselmo Antonio Micarello, Saccomanno Paolo Raffaele (che seguiva i fatti dall’America, dove era emigrato nel febbraio); Rollo Raffaele fu Francesco.

Essi furono ritenuti “i fondatori” della Società Operaia, coloro che si volevano assumere più responsabilità e il compito difficilissimo di trasformare quella che era inizialmente una “setta” in un organismo di massa. Tale azione fu così democratica che molti confratelli ritennero, come data di fondazione della Società Operaia, l’anno 1909, quando la Società poté offrirsi pubblicamente al contributo di qualunque cittadino.

[7] Federico Adami si fece promotore di una politica unitaria tra repubblicani e internazionalisti.

[8] ”Pochi individui isolati professano idee repubblicane o socialiste, senza organizzazione, senza seguito, senza mezzi”. “Pochissimi si ispirano alle idee di socialismo e dl anarchia… non esercitano nessuna influenza, non sono punto temibili per l’ordine pubblico”. “Vivono sparsi In questo o in quel paese della provincia, innocui dottrinari” (A.S., Gab. Pref. Inv. 34 Relazione al Ministero; op. clt.).

[9] Sui numeri 1 e 2, 6 e 7, 8 e 9, 15 e 16 del giornale.

[10] Ai comizi don Enrico accomunava spesso degli improvvisati concerti musicali.

[11] Il riferimento è alla “rivolta delle purcine” del 1848.

Ho trattato i fatti in una relazione tenuta al Centro Studi di S. Stefano di Rogliano (CS) nel 150° Anniversario dei Moti Risorgimentali in Calabria – Seminario 31 maggio – 7 giugno 1998.

[12][12] Di quest’opuscolo furono stampate centinaia di esemplari, venendo a costare la non piccola cifra di lire 86,10[12].

[13] I confratelli chiesero di “estendere alla generalità degli abitanti la condotta medica”.

 

28-02-2011

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *