La guerra e dopoguerra. Terenzio De Cicco
La guerra fu preceduta da elezioni politiche che, sebbene con una partecipazione elettorale del 20% della popolazione calabrese, avviarono intense discussioni e agitazioni.
Nel 1913, in Calabria si effettuarono una serie di manifestazioni spontanee spesso violente, che, caratterizzeranno gli anni del prima e dell’immediato dopoguerra. Gli assalti ai Municipi, gli amministratori impauriti o costretti a sottostare alle indicazioni del popolo, moti senza guida politica e senza ideologia, portavano gli sfruttati ad agire in funzione di immediati bisogni.
Tutti questi fatti però a Grimaldi, ammesso che fossero conosciuti, costituiranno solo episodi di cronaca.
Più discussione nella zona suscitò la formazione, ultima della Regione, della Camera del Lavoro di Cosenza, che alla fine del ‘13 comprendeva 1715 iscritti.
Non interessò il V Congresso Operaio calabrese in cui furono rappresentate 400 Società Operaie e agricole, poiché la Società Operaia di Grimaldi non degnò una partecipazione.
Questo “rifiuto della politica” divenne per Grimaldi una caratteristica e, in uno spirito localistico mai sopito, preparò gli animi del dopoguerra. Il rifiuto della politica è un atteggiamento giustificabile, se significa, in alcuni precisi momenti, lotta risolutiva ai politicanti, allo stato borghese, al parlamentarismo. È estremamente grave quando è sintomo dell’incapacità a comprendere e a rapportarsi con la realtà extrapaesana e con le lotte di più vasti territori. In questo caso significa accettare lo stato di cose esistenti e nel caso della Società Operaia di Grimaldi il preannuncio della degenerazione e della disfatta.
La prova si ebbe allorquando scoppiò quella che è detta la Prima guerra mondiale. Questo massacro infame, negatore, come tutte le guerre, della vita e del lavoro, trovò e spronò un insano interventismo.
Nella Calabria poche individualità come il socialista Enrico Mastracchi, don Carlo de Cardona e sparuti gruppi anarchici dichiararono la loro ostilità alla guerra. Certamente dovette avere eco l’episodio in cui gli anarchici Sergio Saverio e Fraia Annunziato di Bova Marina, in una pubblica adunanza di 700 interventisti, loro due, si levarono a parlare contro la guerra.
In generale, al di là dei fatti isolati, la gente istupidita dalla propaganda e distrutta dallo sfruttamento, abbandonata dalla defezione dei pochi esponenti socialisti, si schierò per la guerra. Oltre a Michele Bianchi, nativo della vicina Malito, e che divenne uno dei quadrumviri della Marcia su Roma, se ne fecero promotori vari vescovi della provincia, circoli giovanili quali il “Francesco Acri” di Reggio, la maggior parte dei socialisti[1].
A Grimaldi e nei paesi limitrofi, l’interventismo fu sostenuto in maniera violenta da Filippo Amantea e ad esso si legò la più parte dei confratelli preparando in questo frangente quella situazione di riappacificazione con gli sciammergari.
L’interventismo, all’interno della Società Operaia, non fu solo un prodotto di condizionamento. Lo stesso Fortunato Colistro, in precedenza, riferendosi alla guerra di Libia, aveva detto dei confratelli impegnati contro gli sciammergari: “Siamo come i soldati libici che in nome d’Italia versano il sangue vermiglio”.
In questa situazione nessuna eco ebbero i fatti della “settimana rossa” ad Ancona. Il meridione restava non solo estraneo, quanto ignaro e indifferente.
In questo stato, molti grimaldesi, come molti poveri cristi di ogni parte, andarono al macello[2] e in ricompensa la lunga lista di loro non più ritornati ottenne un barbaro e retorico monumento, “tra la chiesa ove Dio” e “arengo” ove il popolo” nel linguaggio di don Filippo.
Se Fortunato Colistro dal ‘15 fino al fascismo rappresentò l’anima di quei confratelli che non volevano arrendersi al potere sciammergaro, Terenzio De Cicco rappresentò la subordinazione ad esso nello spirito di una presunta concordia paesana dettata dal difficile momento.
Questa, dal ‘15 in poi, volle significare il progressivo riaffacciarsi di una classe dominante, ancora una volta espressione delle famiglie dei galantuomini, rafforzata da una leva di confratelli arricchita e senza più ideali, ben degna di sostituire i “benestanti” di una volta, con l’aggravante che un tempo costoro rappresentavano le poche famiglie che volevano inserirsi tra i galantuomini, ora invece questi confratelli pentiti rappresentavano un vero e proprio strato sociale che accettava puramente le regole e la logica degli sciammergari.
In Terenzio De Cicco, dopo essere stato accanito oppositore degli Amantea, era subentrata la sete di potere, che in lui aveva sempre sonnecchiato, insieme ad una palese decadenza critica. Di lui circolava, tra le facezie dei galantuomini, una frase che aveva pronunciato nel consiglio comunale: “Non capisco ma mi adeguo”.
Eletto spesso presidente della Società Operaia, per la sua indubbia capacità pratica, aveva manovrato, sotto dettatura, i problemi amministrativi nella sua qualità d’insostituibile consigliere.
Se il potere corrompe, ciò avviene perché il potere seduce. Terenzio De Cicco cominciò a credere che il potere fosse effettivamente per pochi; per i più istruiti, i più ricchi, per coloro i quali sapevano imporre rispetto alla gente. Per questo, “la classe operaia” doveva essere rappresentata da chi da essa fosse riuscito a evadere. Che possa configurasi la fine di ogni potere ai vari Terenzio De Cicco di ogni epoca appare follia.
I Terenzio De Cicco sono disposti a credere tutt’al più questo: c’è un potere che va occupato degnamente. Quando esso è corrotto, deve essere sostituito con persone più degne e capaci, ma di esso non se ne può fare a meno, perché è necessario. I Terenziani non considerano che anche i governi corrotti si sentono necessari.
Man mano che gli anni passavano e Terenzio De Cicco si riempiva di cariche formali, si convinceva che la partita si giocava nel magma dei soliti personalismi e inganni. Egli diverrà negli anni a venire nient’altro che un portatore d’acqua del fascismo e in particolare di don Luigi Silvagni.
Ora, nel ‘15, si apprestava a seminare la sua “pace sociale” nella Società Operaia e nel paese, in un terreno reso fertile dalle circostanze.
La più parte dei seguaci di Fortunato Colistro si erano intanto sparsi per il mondo, proprio per emanciparsi economicamente e per non voler sottostare,
I Terenziani, vale a dire i confratelli che avevano fatto fortuna e per questo cambiato casacca, insieme ai galantuomini entrati in massa come soci onorari, furono in grado egemonizzare le attività della Società Operaia.
L’avvio della normalizzazione fu dato dalla candidatura a consigliere provinciale di don Filippo Amantea. Costui il 19 maggio 1914, dimenticando i suoi trascorsi, pubblicizzato ampiamente dai terenziani, invio una richiesta di appoggio indirizzato ai Soci “già edotti del carattere democratico della stessa, secondo le mie pubbliche dichiarazioni nella sede sociale, che pienamente riconfermo”.
La sottolineatura del “democratico” e la piena “riconferma” dimostrano come molti confratelli non avessero tanta fiducia nell’avvocato. Come in ogni questione elettorale, prevalse anche il localismo, la possibilità di mandare avanti un candidato grimaldese, che qualcosa avrebbe potuto fare per il paese. Così alla richiesta (“spero […] di poter contare sul validissimo ausilio di così imponente fascio popolare”), si diede un consenso generale. Da questo primo fatto si arrivò al dicembre dello stesso anno in cui l’opera d’integrazione sembrò prendere forza quando “tutta” la società ricevette il seguente invito:
“lll.mo Signor Presidente della Società Operaia di M.S. – Grimaldi – Le famiglie Amantea e Anselmo si pregiano invitare la S.V. ad intervenire alle nozze della Sig.na Adele Amantea col Sig. Avv. Silvio Anselmo le quali si celebreranno il 19 corr. alle ore 14 e mezzo.
Tale invito è estensibile a tutti cotesti rispettabili Soci e la S.V. resta pregata di portarlo a loro conoscenza: di che le predette famiglie la ringraziano sentitamente.
Grimaldi 16 dicembre 1914”.
Fortunato Colistro, allora presidente da poco arrivato dalI’America, frastornato dal democraticismo socialisteggiante di don Filippo Amantea, inorgoglito dell’adesione popolare alla Società 0peraia, non si rese pienamente conto di quanto succedeva.
Pensò che ormai i tempi fossero cambiati, che tanti comportamenti erano migliorati e che in fondo questo fosse un momento di vitalità e di vittoria. In altre parole, visse tutto questo periodo di compromesso, fino al fascismo, come in attesa, sia perché privo dell’appoggio di molti confratelli lontani, sia perché i fatti sembravano essere andati oltre il suo vecchio schema di contrapposizione frontale[3].
Alla degenerazione della gloriosa Società Operaia, contribuì naturalmente la guerra. Morte, fame, paura accomodarono le cose. Tutti apparentemente subivano uno spaventoso evento. Di fatto però molti contadini partirono per il fronte e buona parte dei galantuomini restò a casa o partì da graduato o più semplicemente se ne stette debitamente imboscata.
Ma ciò che in un primo tempo portò molti confratelli ad avvicinarsi ai galantuomini, fu la possibilità per alcuni di evitare di andare direttamente al fronte, attraverso le conoscenze che gli sciammergari dicevano di avere.
Contò molto per il rafforzarsi del trasformismo anche la scarsa politicizzazione del conflitto. Non ci fu lotta tra interventisti e non interventisti: la guerra era la guerra per l’Italia e spesso era intesa come possibilità di superare l’emarginazione, la miseria, la fame.
Se l’avv. Luigi De Rosa, notaio, scriveva a Terenzio De Cicco, partito militare: “seguiamo anche noi col cuore e nell’ansia impazientissima di una grande vittoria delle nostre armi, lo svolgersi per noi assai glorioso delle vicende della più immane guerra”, meno retoricamente e senza troppo rancore sociale, molti partirono convinti di fare semplicemente il proprio dovere.
E anche quando non sublimavano in questo dovere la loro soggezione al potere, pochi trovavano il coraggio di disertare. L’abitudine a considerare niente la propria vita, nata dallo sfruttamento; l’accondiscendenza potenziata dalle angherie quotidiane, malattie e lutti, aggravata da antiche condizioni d’ignoranza e di retorica patriottarda, non potevano che condurre all’accettazione passiva di un evento a cui non ci si poteva sottrarre che con un diverso tipo di morte.
In quella vita di miseria, una scommessa con la morte poteva pur sembrare un gesto di sfida contro una condizione infame.
Il conflitto, criminale e immorale, fu compreso sotto quest’aspetto molto più tardi e da chi possedeva un sano sentire[4].
La parte più povera della popolazione grimaldese non lo comprese concettualmente ma lo comprese inevitabilmente col proprio sacrificio.
- a) Il monumento ai caduti
Quando nel1927 fu innalzato un monumento ai caduti, dei ventiquattro nomi iscritti, ben diciannove erano di contadini, tre della media povertà[5] e solo due del ceto dei galantuomini.
È bene raccontare la storia di questo monumento perché non solo dà il senso della nefandezza del periodo, in pieno regime fascista, ma anche dell’immaturità che pervase gli animi dei confratelli del compromesso.
La demagogia, una volta che gli eventi della guerra avevano distrutto il localismo grimaldese, era il pane quotidiano dei capi d’allora e stranamente anche per i poveri era un modo di lenire e dare un senso alle sofferenze sofferte. Così, se di retorica si deve parlare, maestro grimaldese non poteva che essere Filippo Amantea, il quale proprio al monumento dedicò un opuscoletto[6] e l’impegno personale alla sua realizzazione.
L’idea di erigere il monumento fu avanzata subito dopo la guerra, ad opera di comitati americani di ex combattenti o parenti di combattenti[7]. Filippo Amantea promise il suo interessamento presso l’amico scultore Duilio Cambellotti e intravvede la possibilità di celebrare il ricordo di suo fratello Rosario “morto a casa per malattia contratta in guerra”.
Il progetto dovette restare a lungo fermo e finalmente nel ‘27 trovò attuazione.
Tra la progettazione e la realizzazione, il clima grimaldese dei “politicanti” fu arroventato da viscerali contrasti e da pesanti dicerie. I galantuomini, per vizio antico, si erano divisi in tante cricche e questa volta, dato lo stato di degenerazione della Società Operaia, avevano coinvolto gli esponenti della Società.
La polemica partì alla larga: si cominciò sul tema dell’interventismo. Filippo Amantea che da interventista in pantofole aveva dedicato molte conferenze all’argomento nel periodo bellico, pubblicando anche un insulso opuscolo (Discorso al popolo di Cosenza sulla necessità e le ragioni ideali della guerra), aprì le ostilità con coloro che non lo affiancavano nella questione della sistemazione dei nomi dei caduti.
“Or l’imboscatume, salvata la pancia ai fichi, se la passeggia al sole; e, in barba ai cacciatori d’austriaci, riformato poniamo perché sciancato, va con gambe lestissime, cane, cartucciera e fucile a caccia”. “La vittoria se la giuocarono poi a pari e caffo le fazioni e il politicantume tra lo schiamazzare e il putrido rifermentare di tutto il vigliaccume rimasto già dentro a marcire”.
La Società Operaia alla sua base era divisa in generale tra il residuo astio antisciammergaro e tra la difesa dei propri aderenti caduti. Il popolo parteggiava per chi attaccava gli imboscati e non tanto per ideali “interventisti”.
La miccia innescata fece scoppiare le dicerie e ovviamente tutto girò intorno agli unici due galantuomini caduti nella guerra: il fratello di don Filippo e il tenente don Anselmo Emilio.
Il monumento, prossimo all’inaugurazione, prevedeva ai lati del gruppo scultoreo del Cambellotti, esempio di scultura sadomasochista di stampo nazionalista, l’iscrizione dei nomi dei caduti.
Filippo Amantea propose di iscriverli, democraticamente, in ordine alfabetico. Lo scopo era ovviamente un altro: in tale maniera il nome del fratello sarebbe stato il primo. Tutti gli avversari si opposero e alla fine, in funzione di compromesso, proposero una triplice distinzione dei caduti: caduti sul campo; dispersi; morti per malattia contratta al fronte. In questo modo i due galantuomini deceduti mantenevano una netta visibilità come primo e ultimo dei caduti.
Le polemiche e l’astio raggiunsero il massimo. Alla fine, il comitato promotore fu costretto a votare una decisione.
La tesi di don Filippo fu bocciata, sebbene dalla sua parte fosse schierato perfino il podestà[8] e, per quanto valesse, Terenzio De Cicco.
A don Filippo restò la possibilità di scrivere:
“Un borghese, un valoroso ufficiale di carriera il primo ad eroicamente cadere in uno dei primissimi assalti, apre la lista di Grimaldi; un borghese, l’ultimo a morire dopo un lungo patire, la chiude”. “A me venne poi affidato il dettare l’epigrafe dedicatoria” scrisse don Filippo ed essa suona così:
“Ai figli di Grimaldi/ per la Patria/ nella grande guerra caduti/ questo ricordo/ i grimaldesi/ d’Italia e delle Americhe/ sacrarono/ tra la chiesa ove Dio/ e l’arengo ove il popolo”.
Nessuno scrisse “Questi contadini di Grimaldi concimarono altrove la bestialità dei padroni. A ricordo questo monumento”.
Se la Società Operaia fosse stata nel ‘27 quella di Fortunato Colistro, avrebbe attaccato al muro i ritratti dei diciannove martiri del popolo lavoratore[9].
[1] Anche Pietro Mancini, allora professore straordinario di filosofia nel regio Liceo B. Telesio e delegato erariale, secondo quanto comunicò il prefetto di Cosenza al Ministro, durante la domenica dell’11 aprile 1915, promosse “un tentativo di dimostrazione a favore dell’intervento dell’Italia nel conflitto europeo” cambiando repentinamente opinione in seguito al dibattito interno al Partito Socialista di Cosenza.
[2] La guerra si concluse per la Calabria con 20.046 morti quasi tutti di contadini.
[3] Nel novembre dei 1914 scrivendo dal Colorado il vecchio confratello Gregorio Torchia scrisse: “A quanto mi dite a riguardo della nuova società impiantata per i loro scopi io dirò che lo scopo sarà inutile…”.
[4] Nel dopoguerra si ebbero in Calabria numerose sommosse contro il carovita. Vicino a Grimaldi, ad Aiello ci fu perfino una sommossa che si chiuse con alcuni morti.
Tra il ‘19 e il 22 avvennero occupazioni delle terre, a cui ad esempio parteciparono i contadini di Malito e della fascia presilana. A tutto questo la cittadinanza grimaldese e la 5OMS restarono estranee.
[5] Parisio, artigiano; Achille Notti, artigiano; Benincasa, muratore.
[6] Filippo Amantea Mannelli, Inaugurandosi ecc., op. cit.
[7] ”La santa necessità di eternare in un segno tangibile la memoria dei grimaldesi morti per la Patria venne dapprima espressa in Grimaldi, appena conchiusa la pace, dal Tenente Vincenzo Veltri che per la Patria sofferse un polmone forato e in premio del suo valore ebbe la medaglia d’argento. Benché validamente sostenuta dal Capitano Raffaele Anselmo di Francesco, grande mutilato ed anch’ei medaglia d’argento, tra il plauso e l’indifferenza, in quel periodo di assestamento, la proposta cadde. Ma l’idea dal Veltri lanciata in paese venne poco dopo, più che raccolta, spontaneamente a risorgere tra il fior fiore della forte colonia grimaldese sparsa nell’America del Nord. Il Sig. Michele lachetta aprì nel suo giornale, Il Vindice di Pueblo, una pubblica sottoscrizione per la raccolta dei fondi allo scopo; dagli Stati Uniti e dal Canada le offerte affluirono e in breve tempo si raccolse una buona somma che, dal sullodato Direttore del giornale trasmessa a suo fratello Antonio, allora in Grimaldi, costituì la parte maggiore, dei fondi occorrenti a ricordare degnamente i Caduti” (Filippo Amantea Mannelli, Inaugurandosi, op. cit.).
[8] Per le classifiche votarono: Amantea Bruno, dott. Amantea Ortensio, Anselmo don Alberto, avv. cav. Anselmo Silvio, ins. Del Vecchio Carlo, avv. Del Vecchio Vincenzo, De Simone Gabriele, dott. Giardino Ernesto, cav. Nigro Moisè, Silvagni Armando.
Si astennero: cav. Amantea Luigi, ins. Anselmo Pietro, mar. Notti Doroteo
Votarono contro: cav. Spadafora Salvatore, podestà, cav. prof. Aselmo don Michele, Iachetta Gaetano, Terenzio De Cicco, presidente della S.O., Filippo Amantea Mannelli.
[9] Naccarato Pietro fu Francesco, Saccomanno Giuseppe di Giovanni, Bruno Bossio Antonio Maria fu Pietro, Fiorino Antonio di Salvatore, Fiorino Luigi fu Pasquale, Filice Pasquale di Giovanni, Filippelli Pasquale di Vincenzo, Bruno Giuseppe di Angelo, Albo Vincenzo fu Antonio, Fiorino Pietro fu Pasquale, Bruno Luigi di Antonio Maria, Notarianni Francesco di Giuseppe, Pietramala Raffaele di Vincenzo, Fata Pietro fu Rosario, Ferraro Flavio Ottavio di Antonio, Rollo Raffaele fu Antonio, Bruno Bossio Pasquale di Geniale, Bruno Michele di Angelo, Vercillo Giuseppe di Pasquale; e con essi il Notti e il Parisio e il muratore Benincasa.
06-03-2011
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