Storia della Società Operaia di Grimaldi: Capitolo VIII – Altre battaglie e il ritiro di don Enrico

Capitolo VIII – Altre battaglie e il ritiro di don Enrico

 

Insieme agli atti amministrativi appena visti non è possibile dimenticare una grande battaglia politica, da anni tenuta sopita e che si era determinata in seguito alla richiesta da parte di alcuni cittadini di Maione di aggregare il loro piccolo borgo al comune di Grimaldi, distaccandolo da Altilia.
Questa richiesta, datando dal lontano gennaio 1907, era stata una delle grandi manovre di don Luigi Amantea. Costui resosi conto che l’aggregazione dei 500 abitanti di Maione, in pratica feudo degli Amantea, poteva costituire un rafforzamento del proprio partito, aveva spinto 21 cittadini a far pervenire la petizione di aggregazione. Già nel 1907 contro la proposta si era immediatamente schierato l’allora dissenziente don Antonio Del Vecchio, portando valide ragioni contro l’aggregazione, ma non convincendo più di non Luigi Amantea, il quale senza argomenti ma con dovizia di retorica portò tutti ad accettare la richiesta, col solo voto contrario di don Antonio.
Ora toccava sciogliere il nodo alla nuova amministrazione. La seduta consigliare fu memorabile. Don Enrico affrontò la questione senza mezzi termini. Dichiarò apertamente che tale richiesta era frutta di “vili discordie insidiatrici del pubblico bene”, “dettata da miserevoli ripicchi” e da calcoli elettorali:
“Insano proposito, che trovò purtroppo, compiacente e complice, in un momentaneo oscuramento della coscienza, la rappresentanza comunale di Grimaldi, rappresentanza però di nome e non di diritto, venuta su da una elezione disertata nel 1907 dall’immensa maggioranza degli elettori, travolta poca più tardi col peso dei suoi errori dall’impeto della pubblica coscienza ridesta”.
A questo punto chiari tutti i motivi d’inopportunità dell’aggregazione, d’ordine economico e politico e soprattutto d’ordine sociale e storico:
Maione è tradizionalmente frazione d’Altilia, a cui è sempre stata legata in vicende anche gloriose nelle lotte risorgimentali e per le quali Grimaldi ha anche rafforzato antichi vincoli di amicizia e solidarietà.
Così il 13 febbraio 1911, a conclusione di uno splendido intervento, con delibera per acclamazione, fu archiviata la trappola, creata e mantenuta dal partito degli Amantea. Di don Luigi, infatti, a Grimaldi non si terrà più conto.
A questo punto, in questo clima di euforia democratica, accaddero quasi improvvisamente per don Enrico fatti familiari sconvolgenti e irreparabili, a causa dei quali, dopo varia resistenza, il ‘14, alla fine di ottobre egli si dimise irrevocabilmente. Le prove di affetto e di gratitudine non gli erano mai mancate. Ad esempio, quando il 17 marzo del 1912, aveva presentato le proprie dimissioni per fugare le dicerie di mancata democraticità e per dimostrare che non amava il potere per il potere, tutta la popolazione era insorta e il ritiro delle sue dimissioni si era trasformato in una grandiosa manifestazione per le vie del paese. A distanza di anni questo affetto e questa ammirazione gli venne rinnovata quando lo salutarono nel momento di lasciare forzatamente la battaglia.
I fatti del resto erano ampiamente conosciuti. Don Enrico, da giovane si era innamorato della giovane figlia di don Peppino Silvagni, donna Carolina. Ma questo affetto per tanti motivi era stato ostacolato dalla famiglia della ragazza: lei venne tenuta sotto stretta sorveglianza.
Ad un certo punto, però, le cose cambiarono radicalmente e nessuno ostacolò il matrimonio. La ragazza dava evidenti segni di squilibrio mentale, che ad alcuni parvero indipendenti dalle vicende amorose, ma che era ben lecito credere che avessero potuto regredire dando alla ragazza la possibilità di amare chi amava. Tutti i parenti di don Enrico erano insorti perché non volevano che si desse, ora, solo perché era un partito senza più pretese, chi invece era stata a lungo rifiutata. Ma don Enrico le decisioni le prese, allora come sempre, da solo: nel 1904, lui ventinovenne e lei ventunenne si unirono in matrimonio.
Disgraziatamente né la nuova situazione, né il tempo, migliorarono le condizioni di donna Carolina, anzi ben presto si trasformarono in una serie di azioni maniacali, che, in ogni caso, vennero sopportate con grande abnegazione e affetto da don Enrico.
Né è forse azzardato pensare che la grande intelligenza e la grande umanità di don Enrico venissero affinate da questi casi. Dopo circa dieci anni di amara convivenza la situazione si rese insostenibile, specialmente sul piano della malattia.
Altri fatti aggravarono la situazione. Per motivi d’ordine economico e di antico astio, i parenti di don Enrico, fratello in testa, iniziarono a perseguitarlo e arrivarono a tanta bassezza e ingratitudine da sparargli addosso mentre era in campagna, tanto che fu a stento salvato da un confratello.
Fu allora che decise di lasciare tutto; di lasciare completamente quel luogo che per lui non poteva essere più la sua casa.
Diede in vendita per quattro soldi la casa e le proprietà; salutò gli amici e partì per Roma, dove almeno sperava, appena quarantenne, di aiutare la moglie a ritrovare la serenità, trovando anche migliori e fattive possibilità per la sua intelligenza. Non riuscì né nell’una né nell’altra, lui restò in assoluta solitudine nel lavoro burocratico che ottenne, con l’unica figlia confinatasi nell’ascesi religiosa.
A Roma lo spirito combattivo di don Enrico, sradicato dalla sua terra, isolato, schiacciato dalla durezza dei casi familiari, venne meno. Di tanto in tanto, quasi a rincuorare se stesso, inviava bigliettini di saluto e incitamento alla sua Società Operaia.
Intanto i fatti nazionali si aggravavano con la criminale strategia padronale di intervento nella guerra mondiale e tutto, come vedremo, a Grimaldi e altrove, venne scompaginato, così come voleva la classe dominante.
Anche a Roma a don Enrico si rese evidente che un’epoca era chiusa perfino a Grimaldi: l’epoca della rottura col parassitismo dei galantuomini aveva ceduto al compromesso e di conseguenza al ritorno dell’antico potere. L’animo suo stimò giunta l’ora della rassegnazione, secondo cui anche la viltà per conservare il posto di lavoro è poca cosa rispetto al crollo del grande sogno umanitario che si porta dentro e l’amara constatazione che è difficile se non impossibile sperare un destino diverso.
Enrico Del Vecchio ritornò a Grimaldi per morirvi nella casa di campagna dei Silvagni nell’agosto del 1927. La vedova ricevette decine e decine di telegrammi, dalla “galantomeria” locale riconciliata, da Bonaventura Tommaso Zumbini e dal personale del Ministero dell’Aeronautica presso cui era caposezione. Scrisse anche il direttore generale Carboni, sempre dello stesso ministero, esprimendo cordoglio per “una dei più distinti, colti ed apprezzati funzionari di questa amministrazione”. Al Podestà, tanto a nome del Ministero stesso, del direttore generale, del capo gabinetto dell’Aeronautica Pellegrini, venne chiesta di “deporre sulla salma corone, fiori, indicandone poi spesa”.
Allo stesso podestà giunse anche questo telegramma: “Pregola nome associazione fascista impiegati aeronautica porgere condoglianze famiglia defunta dottore Del Vecchio nostra camerata rappresentandoci funerali. Segretario nazionale Morino”.
Morì dunque Enrico Del Vecchio da fascista, casi come ero tenuto ogni funzionario statale, lui che fascista non ero e non ero mai stato. La sua adesione formale è però il simbolo d’un decadimento non altrettanto formale a cui la S.0. non seppe e non volle sottrarsi.
Pietra Mancini lo ricordò giustamente solo come il capo onesto, coraggioso, indulgente e democratica della S.0. che avevo sconfitta l’arroganza dei galantuomini di Grimaldi.
“Aveva conquistato il comune debellando il dominio di alcune famiglie ricche ed influenti per censo e per relazioni parentali”, “uomo di austera vita democratica, professionista di eccezionale valore, immaturamente scomparso”.

 

06-03-2011

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