Storia della Società Operaia di Grimaldi: Capitolo VI – La prima apparizione

Capitolo VI – La prima apparizione

 

Il 1909 fu l’ultimo anno tranquillo per il potere sciammergaro. Fu infatti in questo periodo che venne a concludersi tutta un’antica gestione amministrativa e l’opposizione nel paese, ormai aperta e organizzata, sotto quel nome sinistro di Società Operaia, giungeva a chiedere spudoratamente conto di almeno quindici anni di potere pubblico.
Abbiamo visto i nomi degli amministratori e da essi è ben desumibile che le famiglie allora più potenti fossero ben rappresentate. Ma il potere della rappresentanza è ben diverso dal potere reale di classe, che spesso s’incarna in una oligarchia o perfino in una sola persona. Proprio per questo a Grimaldi il potere nobiliare era la persona stessa di don Luigi Amantea.
Costui, nello stesso portamento, nel tipo di eloquio vanaglorioso e retorico, nel presentarsi come il capo naturale dei galantuomini, aveva sempre legittimato la sua posizione, padroneggiando tutte le situazioni burocratiche e amministrative, rimediando a tutto e aggirando tutti i vari problemi della comunità, con accortezza, usando di preferenza la persuasione, vincendo battaglie date per perse o che vedevano solo lui come promotore e gli altri dubbiosi o contrari.
Egli, sia dirigendo in prima persona, sia indirettamente, fu colui che dominò e determinò politicamente e socialmente la vita del paese. Ma quando un uomo assurge a tale ruolo, anche in un ambito ristretto, c’è una sola spiegazione: egli è il più lucido e conseguente difensore degli interessi della sua classe. Mentre gli altri, spesso e volentieri si dividevano per basso personalismo, per liti preordinate per piccoli intrallazzi, per meschinerie e basso guadagno, lui tenne sempre fermo l’occhio sul sistema sul modo di preservarlo e potenziarlo o perfino rifondarlo, usando proprio il piccolo mondo degli altri. Così non poteva non dominare e non aver sempre ragione, nel nome, tra l’altro, della sua famiglia.
Fin quando Grimaldi restava un paese sperduto, autarchico e arretrato, la logica di don Luigi Amantea sarebbe stata la stessa vita di questo popolo di succubi. Ecco perché don Moisé Nigro gli si era affidato pienamente, disimpegnandosi ben presto dalla partecipazione diretta all’amministrazione, nella misura in cui Saccomanno Fortunato o la famiglia Falcone, pur lontani da nobili natali, ma economicamente benestanti, trovavano anch’essi in don Luigi, colui che li legittimava tra i galantuomini, difendendone retoricamente la “laboriosità”.
Per questo ruolo don Luigi Amantea, più di tutta la sua consorteria, odiò profondamente fin dal suo nascere la Società Operaia e in special modo Terenzio De Cicco, dimostrando, però, che il suo potere era apertamente in declino, se è vero che preferì minimizzare la presenza degli avversari, volendosi nascondere, nello stesso tempo, che tanti avevano aperto gli occhi su una esistenza che si trascinava come una lunga bestemmia e che un nuovo sistema stava distruggendo i vecchi rapporti di classe. L’abitudine più che decennale a non avere avversari, lo poneva in condizioni di compiere azioni ormai incontrollate e dettate dalla fine.
L’11 giugno 1910 fu per il dominio sciammergaro il venerdì di passione della propria storia. Quel giorno quattro nemici andarono a prendere posto fra i consiglieri e questo dopo che, da almeno due anni, la Società Operaia aveva reso il paese una fucina di malcontento. Dalle prime avvisaglie don Luigi aveva creduto di poter padroneggiare il dissenso e l’opposizione con la noncuranza e il disprezzo, ma ora che i nemici erano penetrati nella “sua” cittadella avvertiva qualcosa di molto simile alla paura.
I quattro confratelli erano il contadino Anselmo Antonio Micarello, il contadino Nigro Francesco, il calzolaio Saccomanno Raffaele Paolo, l’orologiaio Terenzio De Cicco.
La loro elezione era stata preceduta da una burrascosa polemica. I fatti, per sommi capi, andarono così. La Società Operaia, nel suo evidente proponimento antisciammergaro e per la sua stessa composizione di classe, si era fatta portavoce, a livello ideologico di un mazzinianesimo, che proprio per la sua genericità era largamente permeato di ampie istanze socialiste. Del resto, anche a livello provinciale e regionale, le avanguardie dell’opposizione meridionale al governo presentavano le stesse caratteristiche. Proprio con alcune di queste personalità i confratelli, nel pieno della lotta locale, si erano messi in contatto, per darsi più tono e colpire più forte. La pietra angolare di riferimento fu Federico Adami, combattente politico assai noto oltre la stessa città di Cosenza, dove agiva, uomo di indubbia moralità, come tipografo. Il suo giornale “La parola Repubblicana” raccoglieva, nella sua azione politico-amministrativa, buona parte dei pochi “democratici” dell’epoca. (1) Federico Adami, promotore di una politica unitaria con gli internazionalisti, amico del socialista Pietro Mancini, a cui molti confratelli erano legati da stretta amicizia, accettò di dare spazio sul suo giornale alla battaglia “antisciammergara” dei confratelli grimaldesi. Sui numeri 1 e 2, 6 e 7, 8 e 9, 15 e 16, de La Parola Repubblicana uscirono attacchi spietati contro i galantuomini grimaldesi, con una elevata risonanza nei paesi vicini. Dopo la denuncia dei brogli elettorali del 1905, questo fu il colpo più assestato agli sciammergari, tale da rendere assolutamente popolare la Società Operaia: la popolazione di Grimaldi apertamente, o tacitamente per paura di ritorsioni, si schierò con chi attaccava il potere in nome dei “figli del lavoro”. In più, il fuoco della lotta ben si incarnava in don Enrico Del Vecchio, che da anni su posizioni democratiche e progressiste, era sceso apertamente in campo e senza mezzi termini, forte della sua grande capacità oratoria. Pietro Mancini, in un suo bel libro di memorie, ricordando proprio questi fatti, così ricordava don Enrico Del Vecchio: “A Grimaldi la Società Operaia, degna allora della lotta che in altri tempi la classe contadina di Grimaldi aveva combattuto contro il galantomismo paesano, era guidata dall’avv. Enrico Del Vecchio, uomo di austera vita democratica, professionista di eccezionale valore, immaturamente scomparso…”.
Don Enrico Del Vecchio nel mentre uscivano gli articoli su La Parola Repubblicana, andava organizzando comizi per ogni rione, su improvvisati palchetti o più spesso aspettava l’uscita della Messa, momento di concentrazione popolare, per attaccare a piena voce i galantuomini del Comune. Gli sciammergari, in seduta permanente nel salotto degli Amantea, avevano in un primo tempo scelto la via della polemica e del pettegolezzo, contro ciò che si diceva e si pubblicava.
Ma questo inasprimento del personalismo e della provocazione dovette sembrare ben presto impraticabile. Don Luigi Amantea era troppo vigile ed intelligente per non capire che i tempi erano diversi e che il popolo sembrava non prendere posizione, ma tacitamente godeva per l’azione aperta e incurante della Società Operaia. Così decise di affrontare la questione in pieno consiglio comunale e dopo un duro attacco fece deliberare una risposta pubblica agli articoli della Società Operaia. La mossa sembrò più azzeccata, coincidendo la pubblicazione con l’imminenza del rinnovo parziale del consiglio comunale.
Di questo opuscolo vennero stampati centinaia di esemplari, distribuiti in maniera capillare, venendo a costare la non piccola cifra di lire -86,10. L’opuscolo porta la data del 16 aprile 1910 e venne stampato dalla tipografia La lotta di Cosenza. L’argomentazione è il più chiaro esempio delle intenzioni subdole degli amministratori: per un verso partono dalle stesse denunce degli avversari, ma solo per minimizzarle e al limite renderle poco credibili; dall’altro, reputando innata la incapacità popolare di pensare criticamente, si affidano al sentimentalismo, al più basso senso comune, per presentarsi come vittime e nello stesso tempo come oneste persone che, nell’affrontare i problemi, hanno fatto tutto quello che era umanamente possibile. “Si è detto che si sono tenute le scuole in locali indecenti e perciò gli alunni le hanno disertate, che si sono lasciate in completo abbandono le strade interne ed esterne, lo spazzamento, l’illuminazione; che la guardia municipale ed il portalettere non fanno il loro dovere; che le condizioni igieniche sono pessime. Ora sentite…”. “Nel 1907, di fronte all’impossibilità di trovare altri locali, essendo stati anche dall’autorità scolastica riconosciuti inadatti quelli che si avevano in fitto, l’amministrazione fu costretta a trasferirle nell’ex convento, adattando all’uopo, come si potette meglio, due vani di quel fabbricato. Ma, oltre che quei locali non rispondevano perfettamente al bisogno, presentavano l’inconveniente grave della eccentricità (…) ed appunto a rimuoverlo si continuò nella ricerca di altri locali che, per fortunata (…) combinazione, si potettero avere in località centrale e più rispondenti allo scopo, come ha poi dovuto riconoscere lo stesso accusatore. Ciononostante, questa dei locali scolastici, non cessa dall’essere questione sempre viva e da risolvere in modo completo (…), mediante la costruzione di apposito edificio. Come far fronte alla spesa occorrente dirò in seguito; intanto rimane fermo che non solo ci si è addebitata una colpa insussistente (…), ma si è rivolto contro di noi lo stesso nostro zelo (…), rinfacciandoci come sprecata la somma spesa per alloggiare (…) provvisoriamente le due scuole nell’ex convento. Eppure in paese tutti sanno (…) che altri locali disponibili non c’erano, e che quelli ora (…) ottenuti è stata fortuna (…) se si sono potuti avere. D’altra parte del denaro speso si è anche giovato (…) non poco quel fabbricato che è pure parte del patrimonio comunale… Ora se questo si chiama sprecare denaro, io, francamente, sono per lo spreco (…)”.
Ma il culmine di questa cialtroneria padronale lo si raggiunge in quella parte dell’opuscolo dove è discusso il caso della guardia municipale. “La guardia municipale è oramai avanti negli anni, e serve il Comune da oltre un ventennio. Essa, come tutti voi sapete, né giova nasconderlo, pecca di soverchia debolezza, ragione per cui la Giunta ebbe cura di sorvegliarla, di richiamarla, ammonirla sospenderla anche; ma metterla sulla strada non ha creduto… Che se ad altri piace per darsi semplicemente il gusto di muovere attacchi all’Amministrazione, bistrattare (…) dei poveri salariati invecchiati al servizio del Comune, noi non possiamo, al solo scopo di compiacerli o di evitarci noie, sacrificarli (…)”.
Il disprezzo dell’intelligenza di chi legge viene poi compiuto apertamente in questo passo assolutamente meschino:
“Quando all’illuminazione pubblica, dato il sistema adottato, e non da oggi, d’illuminazione a petrolio, e dato il fondo stanziato ad hoc in bilancio (…), non si potrebbe davvero pretendere che funzioni meglio”.
Come se il fondo ad hoc fosse stato stabilito dal popolo. Non cito il resto dell’opuscolo che è ancor più stomachevole nel voler dar colpa al destino della mortalità epidemica, nello stesso tempo in cui si riconosce le gravissime condizioni igieniche dell’abitato e la mancata assistenza alle famiglie più povere. Né le pretese risposte agli altri problemi. Infatti c’è da dire solo una cosa: l’effetto stesso che produsse la distribuzione di massa dell’opuscolo è la misura di quanto fosse considerato ignobile e falso. Il popolo di Grimaldi in aperta risposta osannò la successiva vittoria amministrativa della Società Operaia nel rinnovo parziale del consiglio; appunto quel fatto che nelle pretese e nell’arroganza di don Luigi Amantea, non avrebbe mai dovuto verificarsi.
Quando i quattro confratelli andarono a sedersi tra i consiglieri, il clima era perciò di aperta dissidenza e di scontro. La bile degli avversari sciammergari era il primo punto all’ordine del giorno.
Iniziarono, aperta la seduta, le operazioni per l’elezione del sindaco. Presiede il vecchio sciammergaro Gennaro Amantea, perché il suo omonimo, sindaco uscente, non aveva voluto presentarsi ad un consiglio dove era presente la Società Operaia e si era fatto dichiarare “momentaneamente impedito”. Già da questo momento scoppia l’ira di don Luigi Amantea, ben lontano dai tempi in cui, sicuro del suo potere, faceva risuonare la sala della sua retorica nulla facente e paternalistica. Infatti quando Terenzio De Cicco, a nome del gruppo della Società Operaia dichiarò di votare scheda bianca “in segno di protesta”, poiché chiunque fosse stato il sindaco, proprio perché espressione di parte nemica “non poteva godere la fiducia del gruppo”, lo scontro fu ufficialmente dichiarato.
Le votazioni fecero convergere sul sindaco assente, don Gennarino Amantea, n. 10 voti mentre 4 furono le schede bianche, con l’astensione dello stesso don Luigi, in quanto, essendo il sindaco suo fratello, non voleva dare l’impressione di forzare la volontà altrui. Letti i risultati, don Luigi, che aveva cercato di mantenere il suo solito atteggiamento di disprezzo verso i quattro confratelli, annunciò, dimostrando come tutto fosse già stato preparato, che il fratello “non poteva più assolutamente mantenere oltre la carica” e poiché si accorse che parecchi tra il pubblico in sala sembravano tacitamente congratularsi con i confratelli, ritenuti a torto o a ragione causa del fatto, mandando al diavolo la falsa calma, iniziò un furibondo attacco contro la Società Operaia e i suoi rappresentanti in aula.
Disse secondo il resoconto a noi pervenuto, che la Società Operaia era al servizio di “meschine competizioni di persona”, una organizzazione che si prefigge una “fittizia agitazione”, il cui fine non è “un vero e ben inteso interesse cittadino”. Rovesciando tutto quanto aveva in corpo, richiamò l’attacco su La Parola Repubblicana esprimendo pubblicamente lo sdegno per l’esito sortito dalla distribuzione del famoso opuscolo:
“quella relazione non bastò allo scopo, che un certo pubblico è poco atto a leggere e a pensare e qualcheduno, cui non manca né intelligenza né cultura, ma solo buona fede, si è adoperato in tutti i modi come evitare la luce”.
Perdurando in questo tono, la bile reazionaria di don Luigi Amantea andò crescendo e tra urla e reciproche invettive, propose le dimissioni in massa, iniziando appunto con l’annunciare le proprie.
L’aria si era fatta incandescente, alcuni anche tra il pubblico erano al limite dello scontro fisico. Fu per questo che quel memorabile Consiglio dell’11 giugno 1910 si chiuse con l’aggiornamento della seduta e la non accettazione della proposta di dimissioni in massa e neanche di quelle personali di don Luigi.
Si giunse così alla seduta del 23 giugno, senza che la situazione avesse potuto trovare sbocco, ma, al contrario, con un maggior antagonismo. La seduta si aprì con la presentazione delle dimissioni del sindaco don Gennarino Amantea e dopo non molto don Luigi ripropose le dimissioni in massa. A questo punto il vecchio sciammergaro, don Francesco Funari, cercò di calmare gli animi con un discorso logico ma alquanto minimizzante. Disse che, con l’ultimo rinnovo parziale con cui erano stati nominati quelli della Società Operaia come minoranza, le cose stavano più o meno come prima, e che, se era cambiata l’opposizione, non era cambiata sostanzialmente la forza della maggioranza. Ma questo discorso quantitativo calmò per poco gli animi. In ogni caso ciò servì a continuare la seduta con l’elezione a sindaco di don Antonio Anselmo di Samuele e della giunta nelle persone di don Gennarino Amantea fu Francesco, di don Giovanni Anselmo fu Raffaele, di don Francesco Funari e del benestante Vincenzo Falcone.
La situazione si dimostrò comunque irrimediabilmente compromessa. Non solo il nuovo sindaco non accettò, ma anche nelle sedute successive non si trovò più una soluzione. Così tranne il breve periodo di tregua in cui venne finalmente discussa l’accettazione come medico condotto (…) del dott. Domenico Milano di Scigliano (anche col contributo dei quattro consiglieri operai che tra l’altro chiesero di “estendere alla generalità degli abitanti la condotta medica”), si arrivò al 10 dicembre dello stesso anno, in cui, a risolvere la questione venne mandato il commissario prefettizio, dott. Bartolotta Marcello.
Questa venuta fu salutata con favore dalla Società Operaia, che vide allontanati i vecchi amministratori e, come buon auspicio il fatto che il commissario, tra i primi provvedimenti, autorizzasse a procedere contro gli eredi di don Raffaele Anselmo, contro don Alberico De Rosa e don Antonio Del Vecchio, tutti ex tesorieri, debitori col comune di cifre spesso abbastanza forti. Analoga autorizzazione venne contro don Francesco Vetere, per mancato pagamento dei canoni demaniali.
Contemporaneamente venne riparata la via Donnisanti e il ponticello Prato. Sembrò pertanto alla Società Operaia di attenuare opportunamente la propria opposizione e, l’opera del commissario Bartolotta fu ritenuta “illuminata, zelante e coscienziosa”. Del resto la gestione commissariale durò solo pochi giorni, poi furono indette nuove elezioni amministrative e venne il fatidico 10 gennaio 1911, quando la Società Operaia vinse, tra la rabbia sciammergara, le elezioni.
Fu un tripudio di gente, perché questa volta anche i paurosi, vedendo i galantuomini abbattuti, chiusi in casa con le loro famiglie, rinunciarono alla doppiezza, cosicché si può dire che tutta la Grimaldi operosa salutasse l’instaurarsi dell’amministrazione della Società Operaia, come speranza di rinnovamento e di giustizia.

 

 

 

NOTE

(1) “Pochi individui isolati professano idee repubblicane o socialiste, senza organizzazione, senza seguito, senza mezzi”. “Pochissimi si ispirano alle idee di socialismo e dl anarchia… non esercitano nessuna influenza, non sono punto temibili per l’ordine pubblico”. “Vivono sparsi In questo o in quel paese della provincia, innocui dottrinari”
(A.S. Re, Gab. Perf. Inv. 34 Relazione al Ministero; op. clt.).

 

28-02-2011

 

 

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