La coscienza e il suo cammino
1 – Coscienza e sistemi di riferimento
Nell’ambito dell’intima equivalenza di sum, cogito e opero il problema centrale è dato dall’intendere esattamente cos’è la coscienza.
Non si può, infatti, giungere ad alcun risultato se non avendo l’esatta coscienza di ciò che si è e come si è, di quanto si pensa e come si pensa, di ciò che si compie e come e perché si determinano particolari azioni. La coscienza deve chiarire se stessa ed è questo il problema di ogni epoca e di ogni individuo.
Un certo ottimismo ci dice che l’uomo, nel corso della storia, attraverso piccoli passi nel miglioramento di sé e nell’ampliamento del sapere, è giunto a non essere più quello che era un tempo.
2 – La coscienza come totalità
La coscienza è tutto ciò che agisce come mente; è la mente che si presenta nella sua primigenia attività e si rapporta a tutte le esperienze possibili; è la storia di tutte le storie. In questa azione totalizzante essa non è una facoltà piuttosto che un’altra o che ingloba le altre: essa è contemporaneamente intelletto, ragione, sentimento e volontà. Se poi intelletto e ragione esprimono il pensiero vero e proprio, ciò è dovuto al fatto che queste due facoltà hanno più correlazione e reciproco bisogno nel loro specifico compito gnoseologico. Infatti, il pensiero, (l’antico Io penso, il cogito-sum), dovrà rivolgersi alla coniugazione di intelletto e ragione allorché vorrà ragionare con mente pura, non perturbata da sentimentalismi e da voglie troppo umane. E tuttavia il pensiero, se non conservasse parte del sentimento e della volontà, sarebbe un calcolo animale, un meccanicistico procedere di cose.
La coscienza è sempre coscienza di qualcosa, per cui il suo procedere è quello della comprensione e dell’elaborazione di fatti. Nel corso di questo procedere, essa sempre più si rende conto che non è tanto la sua intima unità che dà unità al mondo esterno, ma è il mondo esterno che dà unità al pensiero. Cosicché nelle condizioni in cui l’ordine e la connessione del pensiero ricapitolano l’ordine e la connessione dei fatti la coscienza deve prendere atto che quest’ordine e questa connessione sono dovuti non al pensiero né tanto meno alle cose, ma ad Altro che precede sia l’uno sia le altre.
Questo Logos è, ancora una volta, tanto il senso del pensiero che delle cose. È il divenire di sé e delle cose, il fondamento per cui le cose hanno una trama che offrono alla coscienza, che perciò le accoglie. Ma è soprattutto il discorso che precede le cose, il messaggio che promana dall’ordine infinito delle cose. È il senso di meraviglia che coglie la mente nello stare al centro di un quadro di pensiero sofisticato che si fa bellezza e armonia. È un Logos che proprio per essere Armonia e Bellezza è Verità.
3 – Il Dio dell’uomo
L’uomo ha cercato Dio tra le nubi e nei fulmini oppure nel fuoco di improbabili inferni mentre Dio gli stava accanto nel dispiegarsi della vita e nell’intimità della sua esistenza. E pur essendo ovunque, Dio è stato cercato e ciò che si guardava, non era visto.
Dio è l’essere che sostiene l’ordine e la connessione del pensiero e delle cose, è il Soggetto che garantisce la comprensibilità della realtà e che dà coerenza al pensiero. Questo spiega perché a noi si presenta nell’identità Dio-Logos, poiché è nella sua natura darsi indistintamente. Perciò è dovunque, è dunque nel pensiero e nelle cose senza essere né nel pensiero né nelle cose. Questo ci ha insegnato la filosofia, ma questo non basta all’Antropologia Analitica. Infatti, la rappresentazione concettuale del Logos è limitativa nello stesso modo in cui è limitativa la semplice affermazione dell’esistenza pensante. Analogamente all’io penso, il Logos si ritrova realmente solo quando si rappresenta come operante.
Restando nell’ambito della filosofia esso si arresta all’ineffabilità e al non dire teologico (Cusano, Meister Eckhart) o si ricorre in un ideale cammino panlogistico (Hegel). Al contrario il Logos è tale in quanto, in un unico atto, stabilisce e agisce. In tal senso non basta il creazionismo delle religioni, poiché esaurisce la questione del senso, dello scopo e del significato del suo operare in semplice trascendenza.
È dunque necessario chiarire davanti al tribunale della storia, non la semplice narrazione, ma la triplice giustificazione dell’uomo davanti all’uomo, dell’uomo davanti a Dio e di Dio rispetto a ogni fine.
È evidente che poco ci aiuta l’antropomorfizzazione di Dio operata dalla religione. Essa si dimostra un semplice espediente per superare le difficoltà che il problema della giustizia e della responsabilità impongono alla coscienza.
Il Logos solo “dichiarandosi” alla nostra coscienza può di nuovo lasciarsi chiamare Dio ossia farsi conoscere come “ciò” che può stare totalmente trascendente in quanto totalmente immanente.
Per porre il problema in forma coerente è innanzi tutto logico chiedersi quale rapporto esiste tra il Logos e lo spazio-tempo, tenuto conto che la vita ha divenire solo in riferimento ad un contesto dato. Per questo, il Logos non può essere estraneo al “nostro” mondo, ma non può esaurire il suo operare e se stesso in questo mondo. Questo è l’errore del panteismo. Così troviamo giusto pensare che tutto ciò che è, è frutto di una libera creatività. Ma è fuor di dubbio che l’impronta dell’autore su un’opera presuppone la realtà autonoma dell’artefice. Dunque Dio è nell’opera ed è completamente per se stante. E si ritorna al problema: può lasciare il Logos la sua opera fuori dal legame creativo che stringe un artefice a quanto si è compiaciuto di portare alla luce? Il no che si dà ha bisogno di molte considerazioni e di nuovo porta a ripensare l’unico cammino su cui può avventurarsi la coscienza: il cammino della storia del mondo, dell’uomo e di Dio.
La religione ancora una volta non ci aiuta poiché pone il rapporto storico uomo-Dio dalla prospettiva del bene e del male, categorie inservibili in quanto assolutamente relative. Bene e male sono condizioni esistenziali che provengono dalla vita stessa e non dal Logos e se pure il Logos deve proprio dar conto della vita, questa ha un sistema in divenire che è la sua sola possibilità di esistere.
Dobbiamo perciò ricorrere a quella categoria che si addice alla specialissima forma che è l’uomo: lo scopo ossia il senso del percorso che lo porta a essere sempre più vicino alla fonte. È qui è impossibile andare oltre senza avere chiara l’idea di progresso, di cammino verso una dimensione superiore. Se ciò non fosse, non sapremmo spiegare le nostre conquiste e le nostre cadute, il senso del pensare e del fare.
Sappiamo bene che questo avvicinarsi non sarà mai un giungere definitivamente, altrimenti diverremmo noi stessi Logos, ma proprio l’infinita distanza di Dio dall’uomo ci garantisce un percorso senza limiti in cui ogni tappa dà sempre grande soddisfazione e stupore.
Avvicinarsi a Dio è sempre cercare l’impossibile e questo impossibile è il motore della storia. Basta porre attenzione a ciò che abbiamo fatto. Tant’è che questa fatticità impossibile è l’unica dimostrazione del nostro essere ad immagine e somiglianza di Dio. Ciò che creiamo è ciò che ci porta meno lontani dal Logos e l’immagine del Logos è la grandezza che si esprime nella nostra opera. È vero che ogni opera è in sé divina, ma, come quella di Dio, è più divina se sfida adeguatamente il tempo.
4 – Il Logos come a priori assoluto
Senza Logos non si dà conoscenza, perché senza Logos non si comprende la vita e, della vita, il divenire e ciò che è il suo apice naturale, la coscienza.
L’esperienza ci ha insegnato quali sono le grandi illusioni ed i sentieri che non portano a nulla. Per essi abbiamo sperimentato le possenti architetture logiche e le infinite enfasi del discorso lasciato a se stesso. Non è lecito anticipare l’esistenza al progetto, ossia affermare che l’esistenza si dia il progetto a posteriori poiché non è possibile stabilire un compito senza avere uno scopo e senza dare agli scopi senso e significato. Un ente aspira a ciò che non ha, ma questa aspirazione è di per sé un progetto. Così il divenire può essere compreso solo in quanto c’è un ente che diviene. Non può esistere un vuoto divenire che anticipa la vita né la vita si compone da sé, perché è come dire che viene dal nulla e per puro caso.
E quest’insieme di falsificazioni metodologiche e sperimentali non solo appartiene alla filosofia, ma alla stessa scienza quando si attarda a spiegare la vita con la vita.
5 – L’inconscio nella coscienza
Con l’individuazione del Logos in se stessa, la coscienza attiva pienamente le tre funzioni o attività fondamentali: intellettive, passionali e volitive. Ad esse assegna compiti particolari e le fa concorrere all’opera che, attraverso il risultato, le specifica.
Tuttavia, nei primi del secolo scorso, Freud ha posto la questione dell’energia sottintesa a questi processi, alla formazione di simboli e di meccanismi perversi che a questa si associano quando viene repressa. Tale repressione, sperimentalmente, comporta gravi danni alla stessa esistenza e pertanto ha ripercussione nella storia dell’uomo.
Questo vizio assurdo della coscienza non è però una funzione, ma è la malattia delle funzioni, di modo che la psicopatologia deve trovare un ampio spazio e assumere un rilievo sociale non più trascurabile. Se il nostro pensiero, i nostri sentimenti e la nostra volontà si lasciano ingannare, è umano, ma se sono spinti a deviare dal loro compito, ponendosi contro la stessa esistenza, dobbiamo porre gli argini della normalità contro quanto perturba e compromette la vita. Né si combatte questa battaglia teoricamente. Ancora una volta è necessario trovare nei fatti sia la diagnosi che la cura. Ciò è delicato oltre misura, giacché è dietro la conquista e l’affermazione della normalità che si costruisce ogni violenza sociale.
D’altra parte, come si concilia questa normalità della coscienza con la necessità che la stessa coscienza ha necessità di proiettarsi, come si è detto, verso l’impossibile?
Nel porre la questione, si può già dare un’indicazione: la coazione a ripetere, che Freud indicava come meccanismo di difesa, è invece una struttura portante del processo degenerativo. In essa consiste il perdurare in una situazione esistenziale regressiva ed è essa che ponendosi proprio come normalità impedisce il progresso. All’interno della coazione a ripetere si spiegano tutte quelle questioni mal poste dalla stessa psicoanalisi. La coazione a ripetere è l’ostacolo maggiore che hanno l’esistenza e la coscienza verso il naturale sviluppo e il loro compito produttivo.
6 – Le pulsioni originarie
Per descrivere la storia della coscienza è necessario specificare la sua “attiva pienezza” non appena inizia l’esistenza stessa. Infatti, se la coscienza non è mai vuota, come si presenta nell’atto della vita?
L’esperienza e l’analisi della genesi di ogni ente portano ad affermare che la coscienza ha delle pulsioni originarie, che sono espresse nei tre modi della diversità, della precarietà e della proprietà. Queste modalità vogliono indicare che ogni ente ha immediatamente consapevolezza di sé in quanto distinto da altro (pulsione della diversità), che avverte immediatamente di dipendere da circostanze esterne (pulsione della precarietà) e che difende questo mondo circostante come “suo” (pulsione della proprietà).
Queste tre pulsioni non si danno come concettualmente proponibili perché quando appaiono, con l’inizio stesso dell’esistenza, la coscienza è in tutta la sua interezza, proprio in quanto è strutturata prima della distinzione tra facoltà e attività.
21-02-2011
Lascia un commento