Il pericolo del nichilismo
(Saggio del Meriggio)
1 -Talvolta si determinano tempi di decadenza dello spirito in misura che è posta come immediatamente dimostrata l’asserzione che la vita e l’esistenza siano nulla.
A livello teorico tale pretesa nasce dal fatto di eguagliare discorsivamente “niente” e “nulla”, che sono, viceversa, due connotazioni profondamente diverse di stati mentali e di condizioni esistenziali.
Nel prosieguo, si vedrà come queste categorie abbiano riferimenti e significato totalmente dissimili, per cui, in prima istanza, è bene dire che “niente” è riferito al tempo, così come abitualmente lo concepiamo, e “Nulla”, metaforicamente e teleologicamente, al Tutto, di modo che è un grave e terribile errore della mente ritenerli sinonimi. Più precisamente, il niente, proprio perché geneticamente empirico, è contenuto nel Nulla e ciò si può comprendere, da subito, se si mantiene, nello stesso tempo fermi e diversificati i tre piani dell’ente, dell’essere, del Logos al cospetto dell’Assoluto. (La vecchia lezione di Eraclito)
In verità, mai come per la nostra epoca, i tempi ricorrenti del niente dimostrano che, nella storia, sono in atto soltanto condizioni che spingono il pensiero ad operare nell’ambito di pure disgrazie personali e provinciali, ossia stati di fatto che vogliono misurarsi con la vita e contemporaneamente la negano ovvero non sono in grado di affrontarla e di modificarla.
Si afferma, abusando dell’incertezza concettuale, che l’esistenza (nella pura accezione di essere “tra” e “con”) sia un provenire ed un andare verso un generico nulla, ossia che l’esistere è un progetto destinato alla nientificazione.
Questa falsa individuazione viene volgarizzata nella proposizione che niente è, niente è stato, niente sarà, (il vecchio mito della vanitas).
È questo un presunto argomentare che va, perfino, oltre la piattezza delle cose, per cui, almeno la mia “singolarità” è, in questo momento, hic et nunc, in una contemporaneità altrettanto identica alla vita, cioè inevitabilmente predisposta alla negazione della morte. D’altra parte, anche se l’intelletto uguagliasse Niente e Nulla, a livello teleologico ciò non comporterebbe assolutamente l’inutilità del “mio” esistere e del “mio” mondo.
Nel corretto porsi dell’ente e dell’Essere non possiamo che accettare le conclusioni eleatiche: “che l’Essere nasca dal niente è impossibile dirlo e pensarlo” (Parmenide).
Consegue che il nichilismo, almeno fino a dimostrazione contraria, è la presupposizione di un modo di filosofare per cui ogni Ente è semplicemente fainomai, il semplice apparire che, per una strana diavoleria, è non solo “fuori”, ma contemporaneamente “dentro” l’Essere. Ciò implica, arbitrariamente, un’affermazione, che appare concretissima, ma è esistenzialmente un equivoco “idealistico”, ossia che il niente sia l’univoca espressione del significato del singolo e della Totalità.
2 – Chi diffonde il nichilismo? Chi è che si nasconde, storicamente. dietro il nichilismo, magari sotto la presunzione di un vivere eroico? Ossia, quali sono le connotazioni ambientali ed istituzionali del Male? Quale pensiero sostiene la parvenza del Male? Chi ne è il portatore?
Certo il niente è la comoda e banale irrisolutezza di chi è soffocato dalla povertà del vivere alienato. Da questo punto di vista, queste vaghezze di cosmico pessimismo piacciono prevalentemente ai letterati, i quali si esaltano, in variegato stile, a sembrare lacrimevoli e suscitare solidarietà ad ogni costo. Quanti, al contrario, conoscono il peso della vita, quanti vogliono essere perché si deve essere, costoro sanno di valere e non rinunciano, proprio per questo, al variare della vita. Intendono affermare che se la morte fosse nella vita, la vita stessa non potrebbe “svolgersi” e noi, fino a prova contraria, “siamo”.
Il niente, in quanto riferimento promiscuo, è sempre stato una potente sirena e per scorgere questa afflizione è vitale temprare l’aquilinità dei propri valori, contro chi razzola e rumina, convinto sempre che il vivere, è sterro, portato qua e là, per impedire una produttiva e qualificante prosecuzione dei lavori.
E poiché, per forza maggiore, si è tenuti ad annientare le trappole nientificatrici del sociale, nessuno negherà che la rivolta-che-rende-eretici, anche se ciclicamente battuta dal livore ricorrente della restaurazione, è la linfa dell’età più salubre per un destino che voglia dirsi coerentemente umano. Intanto, i padri anonimi desiderano convivere con figli battuti, per non riconoscere la propria resa ad una diffusa condizione di mediocrità di massa. E i figli “obbedienti” non sono da meno.
In questa paternità, che viene tradotta nel non dare e non fare conoscere il Vero, “in-siste” il sottile operato delle innumerevoli Chiese, quelle della sordida spiritualità formale, che suonano, nei riti, il proprio mortorio, e, sostenute dal dolore e dalla miseria, mai scampanellano a gloria.
Né si coglie la base del rovesciamento per cui lo Stato-profitto, l’altro Grande Nemico, diventa soggetto e non nasconde, ma esalta il suo “rappresentarsi” nel potere dei mediocri. Né si “disvela” la sublimazione per cui il vero dio degli uomini, il Capitale, diventa la maiuscola d’ogni mente e situazione stravolta.
In breve, la rivoluzione, quando la rivolta non può più essere contenuta, è semplicemente grandiosa, perché, senza equivoci, dimostra che da questo Dio, da questo Stato, dal Capitale, questa fetida trinità, discendono le forme più brutali della permanente estraneità a se stessi e, di conseguenza, al mondo. Essa dà occhi per individuare la malefica ragnatela che annulla ogni mattino, il progetto vivificatore del nostro diritto d’esistere.
In tal modo l’ “insorgere” respinge come “inumani” il matrimonio, la legge, l’uguaglianza, il partito, l’educazione, i sentimenti, la libertà, l’onore, la patria, la normalità ossia tutti i “valori” nelle forme attualmente costituite, usati antilogicamente a un presunto niente (la perfida e secolare antilogia utilitaristica!), che s’adeguano a questa esistenza manipolata.
Attraverso la lotta sperimentiamo che la “ratio vitae” del nichilismo, attraverso l’esternarsi del proprio dominio, è effettivamente “pre-disposta” a divenire la proprietaria di ogni singola esistenza, attuale e futura.
La rivoluzione insegna a ciascuno, attraverso la separazione tra gli uomini, che chi rispetta parenti e amici ammorbati è “un essere sprecato”, manifestamente nato morto. Perciò è conseguenza indispensabile che ognuno si difenda, in special modo per la sua specificità.
Infatti, in questo infame labirinto di fantasmi, principalmente “l’uomo connotato”, crocifisso, “l’uomo giusto”, pretende, deve pretendere, caparbiamente, di portare un proprio nome e cognome e in tal modo ascoltare e assolvere compiti “altri”.
È ironica la rivoluzione: annichila i nichilisti!
3 – Affinché si possa costruire una sede inviolabile da cui “ascoltare” l’Assoluto, “il Signore” che abita l’ente, è opportuno che il Logos, “il progetto divino”, possa presentarsi come «naturalmente dato» e sicuramente «atteso». È, allora, non solo possibile, ma necessario, di-scernere, nel contesto dell’Apparire Totale, il mascherarsi dei nichilisti.
Ecco: uno dei nemici più pericolosi per la vita è il mediocre.
Il mediocre, proprio perché contrario all’umile e al povero di spirito, è il comico fatto aguzzino. Il mondo lo fa pieno e convinto del suo «insapere», in misura che il «deficiente» trova tutto il suo «da farsi» eccellente nella “operosità secondaria” del quotidiano, nelle piccole faccende che gli danno l’illusione di presumere di esistere. Nessuno gli «di-spiega» la sua negatività ontica. È praticamente impossibile che capisca che è “dall’altra parte”, nella palude, dove programma su idiozie, espresse con frasi scadenti e parassitarie.
L’inetto, perciò, diventa il tutore della legalità, in quanto la legalità non è l’espressione di un accordo, di un contratto sociale o di una convenienza per la vita, ma la “sua” stessa coscienza. Infatti, il mediocre ha scelto, per statuto cromosomico, di statalizzarsi, per interferire e appesantire le faccende ordinarie degli uomini.
L’esempio più noto è reclutato tra la sottospecie ruminante, i maestri di scuola. Costoro, dalla scuola materna all’università, leggono e ripetono, e pretendono, nella loro meschinità, che tutto venga, ancora ripetuto come lezione.
Teso ad ideologizzare tutte le varianti del profitto, il mediocre può trovare onore solo tra coloro che determinano l’infuriare delle manie del momento: quelli che vestono, parlano e guardano così come è di moda.
Poi, se cambia tutto, per calcoli di mercato, il mediocre s’allerta e coordina affinché ogni cosa ritorni dalla parte della “sana e antica” riverenza: il suo scopo è custodire l’immagine di Qualunque Potere, sempre preparato a futura memoria.
Ecco perché la coscienza deve incrudelire e non consentire alcuna inaccettabile forma di accomodamento e di pietà civile. Altrimenti si amerebbe il male e l’anima degraderebbe nel baratro. Il “senza senso” diverrebbe l’unica soluzione, spingendo l’esistenza al suicidio morale e intellettivo, nella truppa del Potere, che vuole sempre riprodursi come processo reale di mondializzazione.
Ma c’è un punto che bisogna chiarire bene, affinché il mediocre non possa portare avanti il suo estremo inganno. Si ricordi sempre che il mediocre ha la sua forza nella morte: ne è l’apostolo.
E non si passi sotto silenzio mai che il miserabile raggiunge la sua più grande gratificazione quando la procura.
Egli ha fatto tesoro dell’esperienza millenaria che, non solo un’umanità ammalata gode a seviziare, in forme e in opere, la vita, ma che per l’uomo la morte fisica è un evento cruciale. Ciò che sopravvive, nel mondo, è una lapide. Con la morte si consuma l’ultimo dolore e il momentaneo lamento degli altri. In concreto la vita continua e la morte è ferma, nei casi più benevoli, nelle parti più solitarie della memoria. In questa ambivalenza il nichilista introduce la follia della resurrezione, l’Aldilà.
La sua smania di grandezza (ovvero la sua condizione di servo infido) gli fa trasformare il suo desiderio di essere sempre, nella predicazione di una perenne umanità ultramondana, in cui lui e i suoi valori siano una costituzione eterna.
Lasciare e pensare che tutto di questo mondo sopravviva? In verità, nessuno l’ha mai degnamente spiegato. Se tutto si risolve in una replica, ovvero, se replica non è, per ritrovarsi con chi? E per compiere, in ultima analisi, che cosa? Per essere chi? Perciò, la propaganda sull’eternità dell’uomo è ciò che rende la religione degli uomini ingannevole e spregevole, il male dei mali.
Tutte le prediche hanno, infatti, una sola premessa: che la vita è soltanto per “la vita del dopo”. Un oltraggio per l’esperienza e per l’Assoluto. Il tutto s’aggrava, quando a questi falsari s’aggregano intelligenze di poca metafisica, dal cui disegno emerge la credenza che l’Uno è il dio-antropomorfico, la più grave bestemmia contro l’Assoluto e il Logos! Noi penseremo correttamente quando avremo lanciato un monito: Che nessuno possa più affermare che questo dio delle religioni è Colui che è!
Il religioso-fariseo, è, quindi, colui che contraddice e manipola il Sacro, con perfidia. Insegna a mendicare aiuto, ad amare la propria piccolezza, ad essere un gioiello falso. Rende santa l’alienazione. Egli, vita mancata, intende associare tutte le altre vite mancate, creandone delle nuove. Ha, infatti, capito il meccanismo della perdizione: chi soffre, ama soffrire di più.
La sua tesi fondamentale è la sua stessa condanna. Egli afferma, un po’ come è volgarmente detto dall’animismo in poi, “ama il prossimo tuo come te stesso”. Ma, date queste condizioni storiche, se uno non ama se stesso, come può amare gli altri? Come potrebbe amare se stesso, se, in varia misura, gli viene insegnato che il bene è forzatamente «al di là»? Se egli soffre “per natura”, come può amarsi? In quale misura” si presta” agli altri?
Contro i farisei, bisogna evidenziare sempre che, quando ti aiutano, in te vedono, in un momento di inconscia lucidità, solo il loro dolore, la dimostrazione, la più perfetta, dell’inevitabilità della solitudine maligna, quella che nasce non per il desiderio di restare con sé stessi, ma perché, guardandosi, ognuno non possa trovare nient’altro che se stesso.
Alcuni di essi, dimostrano che, in quest’ordine di dolore, può rientrare solo il suicidio, che è effettivamente l’espressione compiuta di questa secolare e falsa religiosità.
La vita deve essere vissuta come è vissuta da ogni altra specie: un avvicendarsi di stagioni, di cui padrone è il tempo, il contadino per cui quello che nasce, poi germoglia, matura e cade. Ma questa parte “animale” deve essere solo l’inizio, giacché nella storia l’uomo crea veramente e concretamente l’Aldilà.
Filosofi, religiosi e letterati sono identici: poveri giocolieri della parola.
Preserviamoci sempre dal reliquiario religioso-farisaico. Guardiamoci sempre le spalle da questi maniaci intrufolati ovunque, con quest’aria di carità pelosa, con questa tolleranza intollerante, con questo benedire il maledetto, vino diventato aceto già nel grappolo. Non possono dare ebbrezza. Sono le parole svuotate di umanità. Poiché sono lo sterco della coscienza, non a caso hanno Idoli e Libri Sacri.
Una parola sui filosofi: sono la stupidità che si crede capace di creare. Basti solo pensare che hanno sempre giustificato e sistematizzato, per l’uomo, la più irrazionale delle categorie: quell’eterno di cui si è detto.
Senza questa presunzione “d’essere senza tempo”, non potevano altrimenti fondare tutti gli equivoci ragionamenti sull’io, sul tempo, lo spazio, la rappresentazione, la coscienza e così via. Ogni filosofo, almeno nel suo privato, ha avvertito che tutti gli edifici speculativi si reggono su questo povero fondamento: la staticità che pretende di conservare un suo divenire; un divenire che, malinteso, viene stritolato nella staticità di quello che si è. Non a caso la possibilità di rapportarsi all’Assoluto, data dai filosofi, è la stessa povera cosa del dio della religione.
I letterati, poi, hanno utilizzato queste duplici volgarità per tenere il pensiero lontano dal reale, in misura che questa corte servile abbia, in ogni epoca, la possibilità di volgarizzare la cognizione dell’ente, ritenuto “un produttore di sé”.
4 – Noi, invece, contro questa cornice generale del Male, intendiamo credere nella vita e nell’immortalità (si badi, l’immortalità).
In tal senso, il problema che si intende discutere è la tragedia di Colui che gli uomini chiamano Dio e in che misura differisca dal Vero Eterno.
La ragione primaria può percorrere, già nella vita, orizzonti che ci portino lontano dai mediocri, dalle credenze, dalle futilità e ci faccia diventare spettatori di una scena di grande silenzio, in un ritrovarsi totale in quello, che i religiosi pronunciano senza capire, e che su noi si espande come Spirito Santo.
Egli è il solo Soggetto-Oggetto del pensiero che impone, per pura legittima comunione, di pensare in termini assoluti.
Ma sul progredire dello Spirito bisogna intendersi in totale chiarezza.
Lo Spirito, nel presentarsi attraverso le sue ipostasi, senza di me sarebbe solo. Sarebbe chiaramente privo di «ex-sistentia». Infatti, non sono io ad affermare l’esistenza dell’Uno, ma è davanti all’Uno che posso, unico nell’universo, confermare le sue ipostasi, ossia la vita e l’esistenza (l’Essere e l’esserci). Quella presunta trattazione di Aristotele, secondo cui l’Assoluto, identificato con Dio, pensa puramente se stesso, dimostra ancora di più come i filosofi si muovano malamente quando si avventurano oltre l’empiria.
Infatti, un Assoluto che pensa se stesso non è “mai” tale. Avrebbe, come prima cosa, necessità di giustificare l’inizio della sua autocoscienza e poiché ciò è incoerente, si autodescriverebbe pensiero dei pensieri ab eterno. Ma, in tal modo, è come affermare che non si pensa affatto.
Pensarsi tutto e fin dall’inizio è l’equivalente dell’inerzia stessa del pensiero. Aggrava il tutto, il fatto che l’Assoluto aristotelico è in dualità col mondo: il che comporta una lacerazione improponibile oltre che un insulto per la logica.
La verità che deve invece essere posta come premessa alla comprensione dell’Essere è che le categorie dello Spirito hanno bisogno del mio esistere. Altro che nichilismo!! Senza, la «coscienza umana per esse», sono, di fatto, inesistenti e spacciate.
Senza di me, l’Essere-tutto-pieno, sarebbe vuoto. Io sono la sua bestemmia e il suo cantico.
Perciò, l’Assoluto è costretto a rendersi umano e non è sorprendente che urli con me, soffra la mia sofferenza, combatta la mia temporalità, vestendosi, pur nella sua eternità, di tempo. Io sono la gloria e l’assassino dell’Eterno. Egli è la mia vita e il mio giudice. È il mio pastore che non trova pascolo per saziarmi; che non ha un giaciglio per farmi dormire; che non ha verità che riempiano l’animo; che non dona affetti che diano riposo.
In me Dio, ipostasi mai antropomorfica, è individuato nella sua creatività e storicità.
In me ingloba la tragedia del tempo, di tutti.
Accompagnandosi all’Uomo-Dio, non si abbrutisce; sa le mie mosse, le determina. Prepara sentieri attraverso cui incontro eventi solo nuovi per me. Mi esalta e mi abbassa per lasciarmi credere libero. Mi fa pregare sapendo ciò che voglio. Crea e sprigiona misteri perché si illude e si ama in me. Forse sarebbe letterariamente possibile scrivere: «Sappiate che Dio piange, se piango».
La ragione può adesso darsi finalmente una connotazione, essendo esaurite le sue illusioni.
Essa ci dice che l’ateismo non è un risultato a cui è giunto il pensiero. L’ateismo è fondato dallo stesso Assoluto, allorché si lascia presentare come dio. Si potrebbe dire che l’Assoluto ama principalmente gli atei, perché non consentono una visione antropomorfica e rituale dell’Eterno.
Gli atei dimostrano che l’Eterno, quando si presenta come il dio-religioso, appare come un accattone e un mendicante e, siccome raccoglie poco da questo presentarsi sotto false spoglie, lo si vede cadere ancora più in basso e, da ciarlatano, fare miracoli. Un operare che all’Assoluto è totalmente estraneo, per l’immediata e semplice evidenza che Dio non opera e non ha bisogno di operare, né tanto meno di creare condivinità.
Dunque, è il dio dei preti l’origine di tutte le bestemmie contro l’Assoluto. Gli uomini, infatti, nutrendogli affetto solo per paura, lo individuano nelle misere condizioni tanto da dargli persino un nome. Si scatenano ad innalzare inni ed altari i più blasfemi possibili. Nascono così i libri sacri, che sono la fonte prima e suprema dell’ateismo. In essi l’Assoluto è trattato come finitezza verso cui ogni tanto una mano e una candela si muovono a pietà, un “absconditus” (altra immensa bestemmia, perché niente è più certo e vero dell’Assoluto), a cui una banda di sacrileghi, per il solo fatto di vederlo estraniato ed emarginato dalla coscienza, organizza la messa più blasfema, di cui è capace tutta la malignità consegnataci dalla specie.
In questo funerale dell’Assoluto è forse il grado deteriore della specie umana. L’Assoluto, camuffato da dio, è in balìa degli uomini. Diventa dio degli eserciti; diventa padre di Davide; diventa l’apriacque degli ebrei. Insomma, la miseria giunta alla sua massima abiezione.
Non solo. Succede che quest’uomo, così inutile e senza ripari, scarichi proprio su Dio il proprio stato. In questo processo di identificazione accade che pensare Dio è il modo per individuare la peggiore forma di virtù, rinvenire l’uomo al massimo della sua crudeltà e, di conseguenza, del suo dolore.
La distruzione di “questo” dio è quindi, la distruzione della speranza mal riposta.
Nulla conosco sotto questo cielo
che quanto voi sia miserabile, o dei!
Meschinamente vi nutrite
agli altari delle offerte
e la vostra maestà solamente
è la preghiera, il fiato.
Morreste affamati
se fanciulli e disgraziati
non fossero folli
riempiti di speranza
(Goethe: Prometeo).
Ancora: quale speranza riporre in un dio, che è autolesionista: «Che cosa è questo Dio, che fa morire Dio per placare Dio?» (Diderot).
È la menzogna assoluta dei preti. Ma ci sarà sempre qualcuno che non si potrà “far tacere” e che si chiederà in forma coerente: l’Assoluto si è mai presentato come dio o è un certo “esserci d’uomo” che lo ha imposto come tale? Perciò dio è simile a chi lo ha creato, ovvero a malati dapprima paurosi e, infine, completamente sottomessi all’odio.
Obiettivo dei seguaci di questo dio è innanzi tutto distruggere il pensiero, “l’io ontologico”, quello che magnifica l’Assoluto e che perciò ha tempi più lunghi della vita stessa. Per questo l’uomo sano ha creato non la pretesa di un’anima eterna, l’offesa più grave verso l’Assoluto, ma il potersi presentare, avendo la grazia dell’immortalità, lungo i sentieri che vanno verso l’Immenso.
Viceversa, su questa anima eternizzata è poi organizzato tutto il fronte delle iniquità. I farisei attaccano la natura, svilendola in tutte le forme e, infine, proprio essa, che definisce, per l’uomo, la pienezza materiale di Dio, è ridotta ad oggetto della scienza matematizzante, alla pura descrizione meccanica e alla “copenicana-Kantiana” rappresentazione .
Per questa via si giunge alla teoria più idiota concepita dall’intelletto umano: la teoria dell’evoluzione della specie, il capolavoro dell’inosservanza.
Dopo, ma subitamente, attaccano il sesso, cioè il ruolo che consente all’Essere di presentarsi continuamente a se stesso come divenire. Fanno del piacere, un danno e un peccato; del godimento, una tristezza.
Ormai sappiamo chi è il criminale: è l’uomo-fariseo, l’uomo che fa delle sue fobie lo spettacolo più osceno contro la vita. Contro di esso, la prima azione sensata è esprimere una sentenza definitiva e senza appello: lasciarlo solo con gli strumenti di tortura costruiti per gli uomini, aspettando che la sua follia sadica lo porti a strangolarsi con le proprie mani.
5 – Pur non sapendolo, quando uno nasce, nasce in gioia e in compagnia. Ma è una falsa partenza. Durante il percorso e specialmente alla fine della strada ognuno finisce necessariamente solo: vero che c’è una certa età in cui ci si lamenta di questa solitudine. Sono gli anni del romanticismo. Ma la vita è altro che lamentela. Anzi, quando la solitudine è rettamente vissuta, è un bene senza pari. Infatti, solo con la solitudine ci si eleva verso mete infinite.
Tutto dice che non si può fare una cordata verso l’Assoluto. Infatti, se si accetta di perdere questo divenire e ci si carica di tanta insofferenza che perfino la «malattia» arretri, allora si vedrà gli altri non ai lati della strada.
Proprio adesso la solitudine pesa maggiormente, ma nello stesso tempo non nuoce. Vedi con occhi nuovi. Le pareti di una stanza si allargano; il cielo assume le sue proporzioni; i discorsi inutili diventano come le mosche; i libri sacri diventano ornamento e arredamento delle case dei parvenu.
Tu diventi l’essere che sfida. Perciò sta qui la vittoria: conquistare anime nobili.
Le anime morte devono restare nella loro melma, confusi, indecisi, senza senso. È il loro destino ed è giustizia. Infatti, li hai visti mai forzare il loro stato? Essi meritano ciò che hanno.
Non è una grande scoperta dire che tutto cambia. È invece importante dire che, quando ti sei individuato, non hai più niente da cambiare in te.
Deve essere distrutto ciò che ti sta davanti come oltraggioso. Parti dai più vicini, perché essi sono i maggiori colpevoli. Indica loro ciò che devono fare, poi lascia che si perdano. Non sono propensi al sacrificio. Vivano pure come credono. Però liberatene. Inflessibile deve essere la mente, altrimenti resta lontana dall’Assoluto.
Sappi che la tua opera è la tua eredità. L’opera è la tua solitudine e la tua sofferenza che si fanno testimoni oltre la morte. Gli altri saranno muti. Sentiranno che vivere è differenza. È detto: si può strisciare o si può diventare dei. Il termine è l’Assoluto.
Nessuno pensa che tutto passa: lo vive. Ma essendo la vita torbida, essa non può determinarsi come realtà. È essa la finzione che sembra regalarci un reale, mentre subdolamente ha già pronta la sera. Ciò dimostra che è sempre tardi il tempo di decidersi a scendere in lotta.
La vita ti dà da mangiare: ebbene non ingozzarti; essa ti dà lavoro, ma trasformalo in pensiero; essa ti rende, con gli anni, sempre più uomo e tu diventa altro. Snatùrati.
La morte è un pensiero degli adulti, dei sapienti. I bambini ignorano il mondo del niente: essi sono saggi per la loro freschezza, raggi dell’Assoluto. Essi vedono tutto grande, vedono non ciò che è, ma quello che loro vogliono che sia. Il mondo è il loro mondo: accanto a loro sentono una presenza, un Altro. Perciò si potrebbe dire che Dio acquieta il suo dramma quando si fa piccolo, perché questa è la condizione in cui l’immagine non nasce al mattino, ma è totalmente uno stato, un’età.
Però quanti potrebbero riuscire a vivere, essendo adulti, come fanciulli? Nessuno può ingannarsi fino a tale punto.
La vita è là e noi abbiamo un altro mezzo: la realtà diventa immagine e il compito è portarla oltre lo spazio e il tempo, nello STUPORE.
- Il fatto che si sia “parlato” dell’Assoluto non implica che l’Assoluto possa essere descritto. È ciò di cui si deve necessariamente tacere. Esso è interminabile e indescrivibile. Come si risolve allora la contraddizione di doverne tacere e di considerare la tragedia delle sue “categorie”? Si risolve nella maniera più logica: in due modi.
Il primo, è semplice. Ciò che noi possediamo in maniera umana e naturale, non può essere estraneo all’Assoluto. Perciò “le primalità” le possiamo intravedere nel massimo dei massimi gradi. E su questo si può e si deve parlare. Anzi, solo di questo si può e si deve parlare.
Secondo modo. Nel caso dell’Assoluto è la Ragione che utilizza il suo unico strumento per pensarLo: la deduzione. Infatti, quello che a noi sembra essere la più precisa e profonda connotazione dell’Assoluto è, di fatto, la sua semplice e umana concettualizzazione nel pensiero.
Le parole che noi produciamo intorno all’Assoluto non sono la rappresentazione dell’Assoluto, ma la pura deduzione che noi operiamo partendo dal suo concetto.
Per conseguenza, noi non conosciamo la logica dell’Assoluto, ma forziamo la logica fino alla sua possibilità assoluta. Chiamiamo perciò Assoluto, l’invalicabile, la vetta che non ha né sentieri né cime.
- Si sa che Aristotele definiva la tragedia «imitazione di vicende che suscitano pietà e terrore e che mettono capo alla purificazione di tali emozioni». È evidente che il tragico è individuato come particolare forma di arte. Da questo punto di vista, la definizione aristotelica ci aiuta poco. Acquista, viceversa, un capitale significato quando rinuncia a riferirsi a «imitazione di vicende» e diventa «la qualità» di ogni possibile vicenda, ossia quando diventa una definizione ontologica: si capisce che nella vita la grandezza è data dalla pietà e dal terrore.
E però, quando viene raggiunta la consapevolezza che chi recita e chi è spettatore sono la stessa persona, allora la pietà diventa lo stesso terrore, ossia il terrore che annulla in sé la pietà
Succede un po’ come nei terremoti. Essendo vicini all’epicentro e non essendo stati particolarmente colpiti, si sente il bisogno di soccorrere gli altri e contemporaneamente, di premunirsi per salvarsi dalla medesima calamità. Solo così, la pietà ed il terrore convivono e tutto diventa attesa. Tuttavia, quando il terremoto si scatena sulla nostra esistenza, ci sono solo terrore e panico di morte. Contro questa coscienza si innalzano tutte le finzioni possibili, ignorando che più si hanno illusioni, più feroce è la forza che ci annienta.
Solo a questo punto dobbiamo pensare il pensiero più insano: Dio ha terrore di restare senza uomo; noi di restare senza significato. Pensare in termini assoluti, significa pensare tutte le possibilità dell’«annientamento» e il modo come superarlo.
Siccome le parole complicano la chiarezza del discorso, in quanto esse stesse sono il principale esempio di finzione, è bene chiarire che il terrore non è affatto sinonimo di angoscia. Il terrore, proprio per essere ontologico, è naturale. È un’entità.
Altra cosa è l’angoscia. Questa è un atto semplicemente psicologico, senza alcun riscontro con il reale. Per essa il limite diventa più limite; l’aridità diventa la costanza di un agire vuoto e ripetitivo, la vita, per dirla in breve, si rivolta contro se stessa. Con essa il dolore che ci viene risparmiato, non solo è alimentato artificialmente, ma noi stessi lo facciamo diventare permanente e il corpo e l’anima si danneggiano a vicenda, al punto che la morte è preferita all’angoscia.
Il terrore è, invece, la trepidazione dell’essere, che è giustificata dal fatto stesso che l’essere vive. Il terrore è la vita che si placa e si difende. È un atto d’amore verso la vita, essendone l’umore. Al contrario dell’angoscia, che è prostituzione alla morte, il terrore è il mezzo attraverso cui viene verificata la qualità della vita.
L’uomo deve restare fermo a ciò che è immutabile. Ricordarsi sempre che la tragedia non ha creato Dio e l’uomo: ne è testimonianza.
L’angoscia ha creato il dio delle religioni storiche. Se uccidiamo dio non solo tutto è permesso, ma è permessa finalmente la maggior pausa di felicità. Non avremo più in dio la somma di tutte le potenze estranee e malefiche che opprimono l’uomo. Distruggeremo la nostra impotenza, rovesceremo i misteri e affronteremo le catastrofi col senso dell’Assoluto.
Guardiamo, allora, il terrore come positivo e vediamo di raccogliere i primi frutti.
Noi non siamo soli, ma abbiamo un senso e una radice; abbiamo un rapporto preferenziale con l’Assoluto e in questa condizione siamo unici fra tutte le specie esistenti.
La passione per l’Assoluto possiamo trasferirla nella vita che Dio governa.
Il raggiungimento di questa pienezza sia verso l’Alto che verso la Terra, ci inebria a tal punto da prospettare “gli intervalli del terrore”, cioè pace e felicità.
8 – Impariamo a capire la libertà. Se noi fossimo liberi, noi non avremmo presentimenti. Dice Kierkegaard: «ci si vede come portati da qualche cosa, da una catena logica di conseguenze su cui non si esercita alcun potere».
Questo è servito ad un’infinità di pensatori per fondare non cammini verso l’Assoluto, ma un pensiero di bassa lega, una scuola: il materialismo. In questo caso si vede come attraverso sentieri corrotti si possa arrivare ad intravedere il vero. Infatti, questa categoria di logici, che è poi l’insieme dei filosofi per eccellenza, trova il determinismo come pura constatazione empirica.
La loro forza è l’osservazione dell’oggetto. E qui è anche la loro povertà. Il loro autoinganno consiste nel fatto che hanno parlato senza prima avere spiegato come un pezzo di carne, di origine animale, possa prodursi o legarsi a questo sottile prodotto comunemente definito pensiero. Essi hanno scoperto che un pensiero malato produce conseguenze al “suo” corpo e che, parimenti, un corpo malato ostacola la logicità del pensare. Sono arrivati alla conclusione che la distinzione corpo-pensiero è puramente formale. Il determinismo è, di conseguenza, inevitabile.
Non hanno nemmeno compiuto una semplice osservazione, vale a dire quella per cui la nostra materiale diversità, palpabile e visibile, avrebbe dovuto portare all’assenza stessa di un pensiero comunicabile.
Allora è per una via maestra che va conquistato il determinismo. Esso va fondato sul fatto che l’azione che lavora per il corpo è un’azione diversa da quella che lavora per la mente.
Pensiero e corpo hanno un’autonoma e incomparabile legislazione. E questo a prescindere dalle giuste considerazioni che mente e corpo, dovendo convivere, si influenzano o, al limite, si distruggono reciprocamente.
Bisogna, perciò, dimostrare non l’esistenza di un determinismo “banale”, bensì due forme di produzione esistenziale. Una, difficile e composita, che “riguarda” la mente e che spesso la stessa mente pensa di aggirare; l’altra, semplice e sperimentabile, puramente induttiva, di natura scientifica.
Il processo si complica allorché, posto nei termini esatti, si noterà che, nella stessa persona, il corpo ha una “sua” mente e la mente un “suo” corpo. Cosa che, per dirla semplicemente, evidenza un fatto da tutti taciuto: che noi non siamo una persona, ma due entità distinte e separate per origine, fini e capacità. Il problema è di due esseri, due pozzi infiniti, che entrambi concorrono, in misura del tutto diversa, al problema dell’umano rapporto con l’Infinito.
9 – Ora occorre che si comprenda una verità capitale. Non si può peccare contro l’Assoluto. Il peccato comporta un piano di parità, implicante un insulto che deve presupporsi reciproco. L’Assoluto non può essere toccato da niente che pretenda di sminuirlo, giacché niente può esistere insieme e al di fuori di esso. Dunque, non c’è peccato. Ma al posto del peccato gli uomini dovranno badare all’offesa che fanno a se stessi e alla natura. E questa offesa giustamente non deve essere tollerata. Ancora una volta è la vita stessa che lo stabilisce.
Occorre capire che il rapporto è almeno in tre: io, Dio e l’Assoluto. Quello che si risolve in rapporti umani è puramente meschino. Gli uomini da soli non sono che un momento della natura: sono un ordine fisico.
E meglio essere tesi come un arco e sapere che da questa tensione scatta la freccia che centra l’Immortalità, piuttosto che essere tesi da mani plebee che nemmeno sanno stabilire un bersaglio. L’arciere è l’Essere che prendendoci diventa un tutt’uno con noi. Lamentarsi è non capire la grandezza: non badiamo a noi così curvati, guardiamo dove siamo spinti.
È utile ripetere che le cose non sono fatte per apparire sempre in un modo e che tutti non vediamo le stesse cose nella stessa maniera. L’occhio tragico è l’occhio stesso della cosa che si vede in maniera assoluta.
Se noi pensiamo che l’Assoluto è la Sola Verità, la verità non è una questione logica: è una condizione.
Di conseguenza, deve essere qui stabilito che la verità, dal punto di vista storico, non è altro che una ricerca riferita ad una serie di individui o fatti esemplari. Finalmente possiamo trattare con dei soggetti e le filosofie, ovvero le religioni, potranno trovare un posto solo in quanto le tramutiamo in fattori biografici.
In altre parole, come la verità assoluta è la stessa biografia dell’Uno, così il grado di verità a cui giunge l’uomo è il modo stesso in cui tra gli uomini si stabiliscono un ordine e una gerarchia spirituale. Senza questo presupposto non sarebbe possibile né pensare né stare insieme.
Dio si compiace di scegliersi i suoi eletti. In quest’opera è plausibile che abbiamo la migliore accettazione dell’Assoluto: Egli è la misura. L’Assoluto è il grado massimo che in quanto tale stabilisce il grado infimo. Pensiero ed esistenza si dispiegano secondo questa piramide.
L’Assoluto è l’autore e il garante della gerarchia e ciò che sta in basso esiste per compiacere un ordine. È inevitabile concludere che tutti possono agire e pensare secondo quanto per loro è stato stabilito.
Più vicino a Dio è chi è più gerarchicamente pieno di vero. Per dirla in concreto: l’uomo che ha il più alto tasso di solitudine e di diversità.
È stato detto che Gesù insegnasse la parità, l’uguaglianza e la fratellanza. È un’interpretazione cieca. “Chi mi ha toccato?” dice alla povera donna che, solo a sfiorarlo, spera la guarigione. È la vergogna sul volto di quella donna che lo porta a perdonare.
Comunque, se si crede ancora all’uguaglianza e non alla gerarchia, si ricordi un racconto evangelico, che pur pensato come favola, possiede una sua morale: che in un’ora di tempesta e di vento, Gesù dormiva e che, scandalo degli scandali si mise a camminare sulle acque. Vediamo chi sa camminare sulle acque!
La democrazia è la forma dell’espressione sociale degenerata. L’Assoluto è la fonte della diversità. L’esistenza bassa è adattamento. Non è vivere, è lasciarsi vivere. Ad essa, il mondo inorganico è contiguo.
Ogni volta che un’esistenza tragica si trova tale, si crea il mondo come originario. Ogni grande uomo è un’era. È il battito del cuore dell’Immortalità. Egli può diventare qualunque cosa: essenziale è che nel suo esistere raccolga il destino della sua epoca. Della sua era egli è la voce, l’ordine, lo scopo.
Il fatto è che (si riporta fino alla nausea) l’esistenza tragica, ossia l’esistenza gerarchica, spinta alla sua massima tensione, è il solo modo di porsi al di là della morte, dell’abitudine.
Siccome agisce al massimo della sua energia, «l’eroe» non solo pensa in primo luogo alla vita, ma, ammesso che pensi alla morte, la pensa poeticamente. Si potrebbe dire che per lui la morte resta inesplicabile. L’eroe non ha futuro: questa coscienza gli è sempre presente e, paradossalmente, gli consente di vivere solo in un modo grandioso.
L’esistenza tragica è per così dire, essenzialmente un progetto. Il passato è ciò che gli è servito ad essere quello che è; il suo presente è il fardello da cui, con azioni eclatanti, tenta immediatamente di liberarsi.
Egli, il genio, dimostra questo: dal momento che non si può essere eterni, l’obbligo è di vanificare il tempo. La vita è nel suo scopo.
10 – Che i sentimenti siano eventi accidentali è, si può dire, un’esperienza democratica. Quello che bisogna far capire, in tutta evidenza, è che sono una menzogna spudorata. L’immediata dimostrazione si potrebbe evincere dall’uso sproporzionato della parola «sempre», a cui la vita non ha mai saputo dare una benché minima testimonianza.
Ma i motivi legati a quest’ordine di effettualità sono altri. Il fatto è che i sentimenti nascono, muoiono e dipendono dalla volubilità di un oggetto esterno, che avrebbe dovuto negarsi come indipendente, nella misura in cui si è prospettato come dono per altri. Quando questa negazione è solo supposta, si determina la ben nota e nociva infatuazione.
In quest’ultima condizione, il giuramento eterno appare per quello che è: una sdolcinatura da adolescenti. Grave è che, contemporaneamente “il darsi” diventi servitù e questa viene per giunta esaltata e accettata per il solo fatto che, in questi primi approcci, si consumano puramente naturali bisogni carnali.
Ripensando questa fase, più o meno attraversata dalla maggioranza dell’umanità, si può ritrovare nella donna la fonte dei sentimenti, della vanità o di quella che col tempo si tramuta in perfidia e logoramento della tranquillità quotidiana. Si potrebbe dire che la donna è nel matrimonio, in cui viene santificato questo mondo volgare, ciò che il fariseo è nella società.
Che cosa rende, invece, l’uomo e la donna degni di reciproca affinità e godimento? È qualcosa che va al di là delle parole e dei sentimenti: è la passione. Essa è biologicamente fondata, scritta in maniera indelebile nel nostro codice genetico. È la «ragione» dell’uomo verso il mondo; è la base che rende ognuno necessariamente determinato a legarsi solo ed esclusivamente ad una particolare «donna».
La passione è la selezione perpetrata, fin dall’origine, fra quanto ci appaga oltre la giovinezza e quanto si tramuta nell’unico conforto dell’andare insieme. Essa è scandalo perché è follia ed è ciò che maggiormente la società, così come è fatta, abiura e teme. La tua donna è l’amica, la compagna, l’amante e, finalmente, moglie.
Questa condizione ha il modo di farsi riconoscere: la passione non nega mai niente; è il darsi incondizionatamente. Essa sancisce un’unione «stabilita».
Per essa il matrimonio è l’abominevole e la morte.
È evidente che il «sempre» pronunciato dalla passione non ha bisogno di testimoni. È l’Assoluto stesso che lo ha posto come nostra preistoria verso quel «particolare altro», quella sembianza stessa dell’Eterno.
11 – Accontentiamoci di capire alcune cose.
Quando uno si lega a determinati valori si rappresenta il mondo e lo giudica nello stesso modo determinato. E però quando crollano i valori non si può certamente credere che sia crollato l’Essere. Bisogna prendere atto che a morire sono le illusioni sulle proprie condizioni. Non solo: se l’evento della fine dei propri pensieri falsi si situa, per la stessa acutezza di vista che genera ogni perdita, nella prospettiva di qualcosa di più grande, allora bisogna convenire che più si perdono convinzioni, più si acquistano superiori conoscenze. L’aver raggiunto il risultato che si cambiano valori solo cambiando il proprio stato, si prova quando, solo nascendo di nuovo alla vita, si crea altra vita. Non si possono perciò fondare grandi valori senza diventare contemporaneamente grandi. La pura ricerca diventa vana se, sapendo di individuare il sacro, non si diventa sacri.
16-03-2011
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