I danni della teoria
1 – Dare risposte
Quando la filosofia non riesce ad assolvere il compito di mettersi al servizio della vita, a produrre cambiamenti reali e positivi, allora inizia la sua agonia.
Le frasi sostituiscono la realtà, la teoria si contorce su se stessa, la vita sta nella condizione di violenta precarietà e la ricerca si fa autoinganno.
La filosofia perde semplicemente la sua importanza perché, nel migliore dei casi, si rivolge alla coscienza e il discorrersi addosso fa perdere il senso dell’essere, fa smarrire perfino la stessa consapevolezza di vivere.
In maniera più rigorosa questa crisi consiste nel fatto che la filosofia non dà più indicazioni all’uomo, semplicemente perché non ha trovato le risposte che era tenuta a dare.
Il nesso tra Dio e Logos è restato nell’ambiguità originaria e l’unità del tutto è stata veramente interpretata “come la notte oscura dove tutte le vacche sembrano nere”, proprio a partire dallo stesso autore di questo pesante giudizio, contro le premesse stesse del procedere dialettico. Il “particolare” non ha mantenuto la concretezza che gli spetta e “lo spirito” è ritornato nella nebbia da cui sembrava volersi liberare. La ragione ha di nuovo travalicato i suoi limiti e le sue possibilità poiché si è ancora occupata senza criteri di mondi assoluti.
In questo prevaricare, la ragione ha trascinato la scienza che è diventata simile alla religione e ha costruito accanto alla “casa dell’esperienza” vasti pascoli per puri spiriti di ragione.
In questa condizione, l’uomo ancora senza Dio è ritornato all’uomo comune, che s’arrabatta con le semplici opinioni e tira a campare con etiche relativistiche e quasi nessun senso del bello.
Due millenni di ricerca hanno prodotto risultati scadenti e ininfluenti, cosicché la società si è riprodotta senza nuove prospettive statuali, col grave problema di assemblare l’arretratezza dello spirito con vasti orizzonti di vita.
Tutto si è immiserito nell’individualismo impotente, quello che subisce la vita, non più educato dal sapere, quel sapere che, abbandonata la saggezza empirica e affidandosi al parossismo d’una ragione dommatica, non ha dato all’uomo la saggezza matura e creativa che riposa in Dio.
A questo punto di massima impotenza per la coscienza sembra che si stiano rivoltando contro se stesse proprio le modalità oscure della vita. Nel dominio incontrastato della rapina universale e pervasiva, gli accadimenti quotidiani si susseguono inconsulti: i fatti bruti diventano non cronaca quotidiana, ma eventi; i più strani protagonisti fanno valere i loro intrighi oltre la mera decenza; l’immagine della società diventa quella dei mediocri e dei servi, che arrivano a occupare lo Stato stesso, a corromperlo e a piegarlo ai propri interessi.
2 – La ragione storica
Per impulso della degenerazione, non più il puro pensiero, ma la “ragione storica” è costretta a diventare azione, imponendo a tutto la sua logica fattuale.
In questo drammatico rito nuziale di filosofia e storia, s’impone il superamento che ponga entrambe sul retto cammino dialettico verso un’unica conoscenza: un sapere antropologico.
3 – Antropologia analitica e struttura
Semanticamente il termine antropologia dà esattamente il senso e la prospettiva di questo sapere. Esso mantiene in inscindibile relazione uomo (antropos) e ragione (logos), non più figure formali, ma “attività” che hanno operato e continuano ad operare in precise strutture di vita, che per tante ragioni, si richiamano continuamente. Proprio uno dei compiti dell’antropologia è quello di capire la logica del loro sorgere, del loro sviluppo e del loro declino.
Per questa via, l’antropologia non coglie più, la giustizia come data dal logos, ma come conquista storica. Essa non ha più bisogno di partire da un “qualcosa” posto a priori, bensì dall’uomo stesso, dai suoi percorsi e dalle sue vicende. In questo procedere la storia giudica se stessa attraverso il solo protagonista individuabile: il fatto.
Si capisce che, come l’uomo giudica se stesso, così è nella sua essenza. La “sua” giustizia è il suo intimo espresso. Il ruolo della giustizia nell’Antropologia è analogo al ruolo di Dio nella religione: svelamento dei valori fondativi.
4 – L’esperienza
Compete all’antropologia proporre oggi una storia dell’uomo, in cui si analizzino attività e presunzioni d’essere e in cui, in particolare, sia valutato come e perché l’uomo si è dotato di alcune forme di Stato, piuttosto che di altre.
Ciò comporta la conseguenza che oggetto d’indagine, non sia l’uomo come dovrebbe essere, ma l’uomo qual è stato e qual è. Né essa ne propone uno diverso perché questo compito è proprio dell’agire stesso dell’uomo. In questa analisi della realtà effettuale potrà considerare “anche” le utopie, ma proprio in quanto “sperimentano” la loro impotenza.
5 – Quale logos
E se questo è fare indagine dell’uomo storicamente dato, cosa resta del Logos di cui abbiamo cominciato a discutere nella Storia critica della filosofia? (cfr. pagine antecedenti)
Se il Logos è stato qui volutamente “evitato” nella sua forma teoretica ciò è dovuto al fatto che deve essere conquistato per vie che non siano quelle già percorse. Se esso è, come abbiamo scritto, Ragione-che-si-dà-alla-ragione attraverso la realtà, dobbiamo pensarlo qui essenzialmente come realtà che, non solo non è stata ricercata, ma praticamente negata. Il che significa che la via della ragione che delinea l’antropologia è diversa da quella della filosofia non per l’oggetto e per i fini, ma per lo scopo che deve evitare l’esito sterile su cui si è arenata la coscienza. Ed è indubbio che l’esito “mancato” contiene in sé un procedere impreciso, che è conseguente al fatto che la filosofia non poteva non arrivare a queste secche, una volta persa la sua funzione di “madre” dei saperi, a cui i saperi stessi non sono più tornati e a cui la filosofia non è saputa andare incontro.
Comunque sia, nell’antropologia analitica il Logos ancor di più “si-dà”, “si impone” al cammino dell’uomo, proprio in quanto l’essere dell’uomo è l’essere storico: l’Uomo che si fa Stato e lo Stato che diviene detentore unico della Giustizia.
L’antropologia analitica, per eredità, si oppone ad ogni dualismo, che pretenda di far operare essere e pensiero in antitesi. Nello stesso tempo non pensa assolutamente di risolvere l’incontro dell’uno e dell’altro senza il progetto che giustifichi entrambi e che dia conto del loro destino.
6 – Potere, Autorità e gradi sociali
Il problema della Giustizia, dunque dello Stato, poggia sulla distinzione di Potere ed Autorità. In particolare, analizza “come” l’individuo, accettando lo Stato, ad esso partecipa secondo vari “gradi” di appartenenza, di condizione e di ruolo.
“La mia libertà finisce dove inizia la tua libertà”, diventa “la mia libertà comincia nello stesso momento in cui inizia la tua libertà”. Infatti, ciò che conta è l’essere di ognuno che coincide con la capacità di ciascuno.
Pensare non serve a nulla se non è un pensare alla vita e per la vita. Ma pensare de rerum, pro-rerum è un obiettivo ridotto a genericità, se non si chiarisce “cosa è una vita giusta” e “che cosa è giusto”.
Ma non basta. Occorre rispondere contemporaneamente all’estremo problema che è: “come si realizza questa giustizia per il mio bene”? “camminerà sulle gambe di chi” dentro quali particolari “strutture”?
Queste due serie di domande trovano risposta considerando, in tutti gli aspetti:
- a) la formazione, l’affermazione e la decadenza dei “gradi” sociali;
- b) la comprensione di come le caste, in assenza di ruoli socialmente utili, manipolano la più generale dialettica delle classi.
Dunque, dobbiamo ripercorrere e ripensare un processo che ponga “diversità, gerarchia e ordine” contro parole e valori, di marca liberale, rinnegate, per necessità, dai suoi stessi propugnatori.
19-04-2011
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