Lev Tolstoj: L’eremita e la corte

Lev Tolstoj: L’eremita e la corte

 

Gli scritti di Tolstoj su se stesso lasciano esterrefatti. Sono il più stupefacente e voluto inganno verso la propria esistenza.

In essi, a volte con puntigliosità, vengono descritte e analizzate perfino le vicende più banali. Tutto con una bonarietà impietosa, che è una ricercata ipocrisia.

Prima di esaminare La confessione, bisogna osservare da vicino lo stato mentale di Tolstoj.

Al culmine della sua fama di scrittore, Tolstoj, che era anche a capo di un movimento anarco-pacifista, cominciò a fare una serie di pellegrinaggi e ad incontrare tanti monaci, che pazientemente subivano i suoi interminabili progetti di riforma sociale ovvero di richiamo ad un cristianesimo più genuino ed originario. Poi abbandonò questo peregrinare: aspettò, come un albero al vento, che la tempesta stessa parlasse.

Nel silenzio di Tolstoj, quando ascoltava se stesso c’era un profondo e contrastato progetto: diventare eremita. Ma non volle riconoscerlo apertamente e, come sempre lo camuffò con la sua potenza letteraria.

L’eremita è una situazione specialissima di porsi dinanzi alla vita. È ben diversa dal volersi fare monaco. Monaco vuol dire stare da solo, avere un profondo contatto con un’Identità Assoluta, che ricompensa il ritiro dal mondo.

L’eremita è uno stato di totale solitudine, perché si hanno contatti e, per giunta conflittuali, solo con la propria esistenza. Per descrivere questa condizione si badi a questo esempio. Se un uomo dicesse: “questo piatto è vuoto”, l’espressione fa pensare che nel piatto qualcosa prima c’era, oppure che qualcosa avrebbe dovuto esserci, ma momentaneamente non c’è.

Se questo stesso uomo dice: “in questo piatto non c’è niente”, dice qualcosa di più. Quel piatto non è stato mai riempito e non sarà mai riempito. Non ci sono preghiere e lamenti da fare. Il piatto resterà vuoto perché deve restare vuoto ed è chiamato “piatto” in funzione di altro che è semplicemente finzione o pura fantasia. In fondo un piatto è vuoto se c’è stato cibo o ce ne sarà. Ma chiamare “piatto” un oggetto che non hai mai contenuto niente è parlare di qualcosa osservata in altri: una analogia ancora più penosa.

Se i due casi sono compresi, si comprenderà chiaramente la differenza tra monaco ed eremita.
Giovanissimo, Tolstoj, ascoltando di nascosto le lezioni di filosofia impartite da un precettore ai fratelli maggiori, scrisse: “Mi immaginavo che a parte me nulla e nessuno esistesse al mondo; che gli oggetti non fossero oggetti, ma solo forme che apparivano quando vi prestavo attenzione e sparivano non appena cessavo di pensarvi. Vi furono momenti in cui, sotto l’influsso di questa idea fissa, arrivavo a un tale grado di stravaganza che mi voltavo di scatto, nella speranza di sorprendere all’improvviso il vuoto (le néant) là dove io non ero”.

È l’unica volta che Tolstoj è totalmente sincero e a questo pensiero si mantenne fedele per tutta la vita.

 

03-11-2011

 

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