Lev Tolstoj: L’aquila e la talpa
Tra uomo e uomo la distanza la fa la grandezza. La Natura pone la diversità e la protegge e ognuno fa la sua parte.
Tolstoj capì quanta distanza Dio avesse posto tra l’aquila e la talpa, tra il genio e l’uomo comune. Ma volle opporsi a Dio per restarne vittima.
La società è varia come è varia la natura che alcuni fa cavalli, altri leoni e altre gazzelle insieme agli asini ai gatti e alle oche e tutti hanno dignità se restano nel proprio ambito e nel proprio ruolo. Osservare e descrivere questa varietà fu il capolavoro di Tolstoj: in tutte le sue opere c’è questo multiforme pulsare di vita e di sembianze, che si muovono e agiscono secondo la propria intenzionalità, ognuna soggetta al proprio istinto e al proprio piacere e tornaconto. È lo stesso punto di vista di Dio. Tutto si muove armoniosamente nell’insieme; il piccolo, il grande, il grazioso e il mostruoso, il vile, il coraggioso, il sognatore e il realista. E niente è inutile.
Ma Tolstoj non costruì la sua esistenza come i suoi capolavori. Volle assoggettare la vita all’idea e ne fece scempio.
Certo era necessitato dagli abbagli che aveva preso riguardo a Sofija, ai contadini, ai piccoli analfabeti, ai suoi figli, a quelli che definiva genericamente cristiani. Fingeva su quanto aveva detto Cristo sul grano e sulla zizzania; tra chi aveva costruito sulla roccia o sulla sabbia; tra i figli delle tenebre e i figli della luce; tra quelli che possono e devono elevare lo sguardo al cielo e quelli che semplicemente devono essere buttati nella spazzatura. Questa visione evangelica che si ricapitolava giorno per giorno nella natura gli stava stretta, quasi a voler significare che Dio avesse concepito il mondo con tante manchevolezze e a lui era dato il compito di correggerle. Scriveva un vangelo a propria immaginazione lasciando ciò che gli stava bene e togliendo il resto come apocrifo. Invece, nella natura come nel vangelo è tutto al suo posto, sia l’illusione che il buon senso, sia la menzogna che la verità. Come nella natura ogni vita arranca nella propria sopravvivenza e nelle esigenze che prevalgono sulle convenienze. Vicende che descrive e che nega. Senza che gliene venga utilità, solo per ferirsi e mutilarsi, per gridare contro il cielo e contro i malnati e i malriusciti. Come se non se la fosse cercata.
Dio sa, Tolstoj pure, ma lui è più testardo. Non sopporta che, oltre a dare ragione a Dio gli deve essere riconoscente. Guarda il mondo nelle piccole e grandi vicissitudini, nelle miserie; nelle brutture come nelle solitudini; nelle alte sensazioni mirabili che dà l’armonia. Però vuole stonare. Deve annichilire Napoleone per contrapporli quell’ibrido di Anna Karenina, che assomma il nefasto agire di sé e della moglie, l’ibrido coniugale pieno di squallore, con quei tagli innaturali di situazioni e di acrimonia morale.
La natura non ha morale, non ha preferenze perché è Dio in terra, nella sua messinscena storica che è sempre una trama e un lungo mentire.
Il Tolstoj sincero è quello che descrive e vive il patimento e le gioie di tante esistenze lasciate al proprio destino. Mente, quando vorrebbe che le talpe non siano più talpe e le aquile non volino alte. Non solo: mente e non agisce con grandezza, anzi si rende meschino e succube della mediocrità.
Sa di questa questione e non prende alcuna decisione. Cosa corretta e giusta, se non fosse che la quiete non è dopo la tempesta. La preannuncia. L’ira di Dio giunge sempre, come le pestilenze, la guerra, le inondazioni. La sua si trasformò in fuga banale. Fuggire, fuggire, andare in un posto diverso, pur sapendo che non esistono posti diversi e nature diverse. Ogni posto ha la sua pena e sempre bisogna vincere le grandi battaglie.
Tolstoj non è Napoleone, che veramente sconvolge e riporta ordine nelle cose solo perché non cura le vicende personali. Napoleone sa che la ragione di Dio non si combatte ma si serve. Il compito è superiore alla morte, il progresso alle piccole esistenze del villaggio, il cielo alla palude e soffia per togliere la putredine così come farebbe Dio. Non scrive contro il papa, ma lo incarcera; non si lascia mettere la corona, se la pone sul capo; non si lascia irretire dall’idealismo di Robespierre, che in fondo fa cadere troppe poche teste sotto la ghigliottina, che è sempre un sistema pietoso. Porta gli uomini in guerra e sconvolge la vita di uomini e nazioni. Come Cesare, come Attila. E fa grandi esperimenti strategici come Alessandro e Annibale. Tolstoj resta ammutolito e stupito da tanto splendore così come davanti ai pensieri di Dio.
Tolstoj si veste da Savonarola, sapendo che le sue prediche sono false e contrarie allo spirito divino. Ma lo fa perché non sa fare altro. Nei suoi silenzi, quando ritorna nel suo intimo eracliteo e di Eraclito ripete la saggezza è veramente se stesso.
Tolstoj è come Nietzsche e Dostoevskij, letterato che vince e perde sulla carta; che è credibile solo quando non dà giudizi, non critica ma auspica che la spazzatura sia messa nella spazzatura e i figli del cielo ottemperino ai compiti loro assegnati. Ossia che serva e osservi la grandezza della storia e non della religione e del mito.
03-11-2011
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