Lev Tolstoj: L’anarchico onnipotente
I disgraziati hanno diritto, già sulla terra, di essere felici, quindi, per pura e semplicissima deduzione, devono entrare in guerra contro coloro che li fanno essere infelici.
Tolstoj elabora per loro una strategia micidiale: la non violenza. Pensa che, essendo i poveri la quasi totalità della Santa Russia, basta la disubbidienza perché i padroni non possano più respirare. Un movimento di massa, enorme e senza pietà, eliminerà tanto i servi che i padroni, tanto lo stato che la Chiesa.
Intanto scrive allo Zar e si circonda di zelanti quanto ingenui seguaci.
E il movimento sembra che effettivamente s’innalzi con una furia tempestosa e, a questo punto, Tolstoj deve fare i conti con se stesso, ossia con la propria famiglia, quel carcere che non gli ha fatto mai capire l’amore e che ora sembra il suo vero padrone.
Il suo individualismo, alimentato da anni di gloria letteraria, il fatto di essere un intoccabile, un genio senza pari, gli fanno contemporaneamente incontrare il vecchio sprezzante Dio del Vecchio Testamento e il Dio del perdono e della Croce.
Così è sempre Tolstoj che osserva con gelida follia e condanna con tanta inesorabilità, con quell’astio che lo ha portato alla vecchiaia senza avergli dato un giorno veramente felice.
È ancora la vendetta che lo guida, una vendetta armata, perché lui possiede l’arma più temibile: la parola.
Le colpe, le sue ma specialmente degli altri, le conserva nella mente. Rimescola continuamente ciò che non doveva essere fatto ed è stato fatto. Tolstoj, imitando Rousseau, scriverà le sue confessioni, ma il suo “autoritarismo libertario” è pretendere che così facciano tutti.
Non si può essere liberi davanti alla Verità, anche la propria verità.
Ecco perché, come prima azione, farà morire in se stesso Anna Karenina ed individuerà “la donna” come il soggetto principe della menzogna e del dolore. Anzi Tolstoj non concepisce nemmeno la donna come “umana”.
Gli uomini sono abituati al potere che hanno sempre esercitato, sono sprezzantemente pronti a dichiarare le proprie colpe. Tolstoj, con la grandezza della sua genialità, capisce che le donne non possono emanciparsi imitando e, di fatto, rendendo più esplicito il lato più grottesco ed odioso della prevaricazione maschile. Tolstoj crede che le donne potrebbero effettivamente essere la forza del contropotere, ma sono ignoranti, pedanti, piccole anime, incapaci di arrivare al più ristretto orizzonte.
Tolstoj deluso condanna e si crea quel popolo generico che soffre perché, evangelicamente, è povero di spirito.
Soffrire è il cammino attraverso cui l’umanità può giungere alla resurrezione. In tal modo, non deve più parlare di uomini e donne. Parla di “categorie”, di contrapposizioni, che più di altre esaltano il suo rancore. Esistono i sofferenti, esistono gli indifferenti; esistono i poveri, esistono i ricchi; in breve, esiste la schiera di coloro che Gesù ha elencato nel discorso della montagna e i figli delle tenebre.
Tolstoj, come Gesù, come i grandi rinnovatori è un manicheo. E dal suo trono decide ciò che deve continuare e ciò che deve irrimediabilmente essere ritenuta una vicenda finita.
Succede un caso epocale: Tolstoj non salva nessuno. Si conferma in Lui l’innata potenza della fuga, la sofferta certezza di poter esser ascoltato, ma non seguìto. Se avesse conosciuto Francesco d’Assisi, uno dei due avrebbe dovuto soccombere e, siccome Tolstoj riconosceva chiaramente la gerarchia, probabilmente avrebbe lottato per difendere la regola originaria del povero d’Assisi. Ma avrebbe voluto amare Chiara in maniera tutta diversa da Francesco.
Tolstoj è stato un fratello dei santi e il peccatore, il più cattivo, che ha voluttuosamente ceduto al demonio per sentirne l’odore e saltargli alla gola.
Così, più si comprende la sua anima, più non è possibile darle un predicato.
03-11-2011
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