Lev Tolstoj: La colpa e la fuga
L’illusione, nella produzione scritta e predicata, di Tolstoj, non ha particolare rilievo. Al suo posto c’è la delusione e il rancore. È un dato costante.
L’anarchismo cristiano, che non pochi tacciarono di utopismo, non poggia alcuna fiducia sulla speranza. È la sua vita, per come non seppe o non poté vivere, che gli fu maestra.
Al dolore della vita, non si risponde con la promessa di una vita gioiosa in cielo. A chi soffre la miseria non si può promettere ricchezza in chissà quale al di là. La vita, nel contorcersi nella sofferenza, deve trovare sulla terra la serenità e la pace. Il Dio di Tolstoj vive tra gli uomini, perché è il Dio della vita e della morte.
Ma Tolstoj non è ingenuo. Conosce i suoi simili e, ancor di più conosce se stesso. Nella storia si vuol far convivere la povertà e il lusso, i padroni e i servi, la proprietà e la servitù. Sa che l’uomo ama avere ed aggiungere avere all’avere. Ha sperimentato la violenza che si annida nella profondità della nostra anima. Ha descritto e testimoniato l’inganno dell’uomo con l’uomo.
Vive tutte le infinite contraddizioni dell’esistenza nella sua arida e spoglia cameretta del primo piano della sua grande casa, avendo nei piani superiori il lusso familiare e il perdurare del lassismo feudale. Non sa come liberarsi. Resta a scrivere e a sopravvivere con le stesse persone che diventano, giorno dopo giorno, il suo profondo martirio. I suoi occhi, nei tanti ritratti che gli vengono fatti, esprimono la ferocia della più totale solitudine.
Non fa che ripetere che la vita, così come tutti la vivono, è suicidio; che la vita, se ci si converte, è solidarietà, amicizia, piacere. Cristo non è dolore, è felicità. Bisogna che la storia Gli ubbidisca. Ma è un vezzo da letterato.
Intanto, i giorni passano come sempre, con la coscienza, ormai consolidata e tremenda, di sprecarli, di svuotarli di significato, vuoti giorni di peccato, vissuti in una terra di morte. Tolstoj è braccato da se stesso. Il “movimento” che finisce per crearglisi intorno non lo soddisfa se non nella sua perdurante vanità. Egli è solo, solo come non mai ed è per giunta l’eterno individualista. Ancora una volta capisce che davanti a Lui può stare solo Dio. Ma adesso che parla come Cristo ed è visibile sotto le spoglie lacere dei servi, come può colloquiare? È una finzione mantenere una casacca se contemporaneamente resta legato a pensieri aristocratici, se perfino il suo modo di scrivere, portato a linguaggio popolare resta sempre lontano da milioni di poveri cristi totalmente analfabeti.
Tolstoj potrebbe insegnare con l’esempio, come Francesco d’Assisi, ma le ragnatele infinite che da sé ha elevato intorno al suo essere, per mezzo secolo, sono diventate tante sbarre dorate.
A volte si sente come un fenomeno da baraccone. Quando la disperazione supera ogni limite, si sente un pazzo. Non si contano le volte che pensò di suicidarsi: un vezzo che aveva nutrito dalla giovinezza. Ma è la moglie, che si sente tradita e incompresa, che più volte lo fa, in modo sempre ridicolo. E Lui pensa che deve assumersene la colpa, anche se continua a credere, per la forte razionalità che non riesce a buttare, che la moglie è Satana, la disgrazia di tutte le sue disgrazie.
Fuggire, deve fuggire. Si vede senza più energie e capisce che davanti a sé c’è solo il Dio che abbandona. Se deve fuggire, il suo gesto deve essere una breve, ma dolorosissima contraddizione. Intanto il suo Dio tace e Tolstoj coltiva il silenzio come se fosse già nella tomba.
È un bambino viziato e un vecchio che non vive più tra i suoi simili, ammesso che qualche volta avesse portato se stesso tra gli altri. Non è segno di contraddizione: è una contraddizione e non lo ignora.
03-11-2011
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