Le vie del vento: Presentazione di F. E. Albi

Presentazione di

  1. E. Albi

 

LA BUONA SEMENZA

Non presumerei di presentare un poeta senza il confort di sillogismi pirandelliani. Lo faccio con modestia, auspicando che il mio abbozzo somigli almeno un poco all’originale. La poesia di Raffaele Paolo Saccomanno riflette molto da vicino il carattere dell’uomo, come a me piace ricordarlo: amico amabile, colto, riservato, spontaneo e solidale; intellettuale svisceratamente umano, legato per temperamento e preferenza all’umana condizione, all’underdog in particolare, d’una coerenza integrale fra pensiero ed azione, ideologia e vita quotidiana.

Non saprei esattamente cos’è che costringe l’autore ad esprimersi in versi, ma ritengo che, pur cantando per se stesso, senta forte il desiderio di comunicare sensazioni, esperienze, mentre, quasi di soppiatto, consegna una visione del mondo, che aspira a poter condividere con altri. A parte l’occasionale invettiva contro gli inevitabili peripatetici e supposti eruditi, spaesati e privi di bussola, la lirica del Saccomanno rifugge dai luoghi comuni, e si eleva a spazi eterei, insalubri per sdolcinature romantiche e banalità di vene meno ispirate.

La prima raccolta, Te nel cuore[1], s’apre con un lamento di civetta (Per noi), gravido di mistero e di spontanee correspondences: amore e dolore transitano fugacemente fra vita e morte; “l’infinito / vento … il silenzio confinano con un cielo di stelle in cui felice / annega / il dolore.” Ovviamente mi è caro spezzare un pane casalingo e dissetarmi ad un medesimo calice culturale: l’assimilazione diventa istintiva. In rapida escursione, La Rupe mi rimane indelebile: la “conca / di cielo,” la vergine valle; ne avverto pur dalla Rive Gauche del lontano Columbia il profumo risonante “d’immenso e di luce,” mentre l’infinito fugge dal cimitero e dal baratro, per inoltrarsi aldilà di impercettibili dimensioni. Agile si spiega il pensiero su ali dorate, ma si astenga chi teme si squagli la cera. Raffaele stesso confessa che è una delle liriche che più ama e considera tra le più valide delle sue composizioni.

Andrebbe subito detto che il poeta preferisce il verso libero, sottoposto al crogiuolo analitico ancor prima della levigatura. Di classico metro, si vedrà, solo un sonetto, debitamente rimato (Rami secchi in Le vie del vento)[2], quasi una sfida (che pretenderebbe essere muta) agli assassini di turno. Al poeta non mancano risorse e accorgimenti per coltivare il suo estro: selezione lessicale, disposizione alla sinestesia (a volte spinta al limite), felicità di metafora, originalità di concetto, e soprattutto duttilità inventiva dei costrutti linguistici.

Il 1967 è il primo periodo di attività creativa, ma non mi pare che la cronologia abbia eccessiva importanza – ritengo che in questo caso le composizioni siano attimi cristallizzati, sospesi fuori del tempo. Sono intimamente convinto che, in generale, la poesia non andrebbe chiosata, e tanto meno amputata[3].

Una vista dal treno: “case distrutte / eremite / sui monti e sventrate; / altre case agghindate / bagliori di fiori / mostravano al sole: / pietose / contro i ruderi calmi.” (Case) Bontà della lirica, l’istantanea si trasforma immediatamente in emozione, immaginando il poeta che, suo malgrado, si allontana. Similmente, in Paesaggio, un susseguirsi di pennellate veloci: una schiera di pini, la valle solatìa, case screpolate, odore di fieno. “Sete d’immenso / brulichio di canti / mistica pace” corrotta infine, di nuovo, dall’intrusione dell’umano: “Turbano i pensieri la voce / dei ruscelli / tra le umide / viole.” In febbraio, la natura resta immobile: “Non c’è vento / che sferzi” la monotonia, “ma un latrare / di cane (confuso) / per la luna. // Non c’è pioggia / ch’inabissi i ricordi – indistruttibili! – ma un cipresso / violento / contro / il sole.” (Contro il sole) Ricordare è ricreare, riessere, eludendo la presente stagione. Sconsigliata dallo psicologo moderno, l’evasione è preferita dai poeti, consacrati alla Musa della Nostalgia. Il rimpianto dei grilli, nella lirica omonima, diventa la favola antica della propria tenera età: “Sui muri del vecchio mulino” soleva osservare “ragni beffardi, / lunghe colonne … di sagge formiche” credute “fossero in lutto.” Tempi andati! “Ora non si spiano più / i buchi / delle stanche / lucertole.” Si schiude un idillio di gusto orientale: “Perché piange l’assiolo / nel rimpianto / dei grilli?” L’interrogativo, s’intende, è retorico. Esaurita all’improvviso la lieta stagione, Raffaele continua a nutrirsi in seno alla famiglia di affetti teneri e tenaci, che sono alla base della solidarietà proletaria del suo carattere[4]. Il precoce adolescente commette l’eresia originale di pensare per proprio conto, e diventa adulto anzitempo. Subentra il ciclo dell’introspezione e della consapevolezza; si identificano i parametri della propria coscienza, e si cercano risposte al gran quia. Men che ventenne, Raffaele detta e pubblica versi che rivelano l’iter del proprio peregrinare intellettuale. Molte fra le composizioni dell’epoca s’ispirano, com’è da aspettarsi, all’amore ed alla danza degli ormoni, in diverse separate movenze. Attraverso il ricordo si rivive un’apparizione pressappoco miracolosa: “Soliloquio di verde / di caldo tranquillo / a te / che alla fratta venivi.” La campagna scoscesa ed assolata invita al sogno: “Riposarsi e fuggire / ammirare al tuo braccio / il colpo [più visto che udito] / di zappa alla valle.” Sogno o fantasia: “Abiteremo fra i pini / per sudare ed amarci / godere la terra / lavare ai ruscelli.” Semplice idillio campestre. Ed amaro risveglio: “Oh donna / che male / vedersi / morire!” (Soliloquio) Motivo questo che riappare nel verso del Saccomanno, quasi il conto da saldare per il morso di mela rimasto in canna: l’homo sapiens sa di nascere, crescere, soffrire e morire. Anche questo eterno amore tosto finisce nell’ombra della villa, dietro la Venere nuda e la panchina sporca: “Che fiasco / la nostra commedia!” (La villa). Per ricominciare, senza inibizione, con “spasimo di mani / e della mente / che cerca ancora / ancora e sempre.” Alternativamente si ricade nella solitudine: “Son solo, son solo. / Stasera al tuo posto / non stringo che il vento.” (Fine d’anno con te). Infine il poeta si ritrova completamente annientato: “Io sono qui / come un frusciar / d’ali / d’un cupido volar / che non è niente.” (Pensiero)

Intanto ben altre preoccupazioni tormentano i bollenti spiriti del giovane poeta: l’orrore della guerra, la prostituzione e, in generale, le sorti del proletariato. Evocando la passione d’un Cristo, dagli occhi a mandorla, il poeta si chiede, inutilmente, perché si muore al fronte. (Vietnam). In un di momento più lirico, un vomere accasciato sul solco simboleggia la leva obbligatoria che strappa il contadino ai suoi campi; del lavoratore, solo le orme. Nel flash d’un lampo di cannone o di raffica di mitraglia, appare la sua casa in cima al colle, ed il tuono echeggia un belato di fame (In guerra). Il poeta è già conscio dello squallore di chi vive ai margini della vita: un fetido portone, un braciere. “Ridono appollaiate / gambe flaccide a scacchi.” (Prostitute). Le ingiustizie sociali, la servitù delle masse, i soprusi del potere lo hanno da imberbe spinto ad orientarsi verso l’estrema sinistra: comunisti, libertari, anarchici, rivoluzionari. Nessuna meraviglia se si rinvengono commemorazioni per compagni caduti e incoraggiamenti alla rivolta. Per commentarli, dovrei al tempo confessare e superare il cinismo della mia età serena. Notevole l’omaggio A M. Bakunin – Mikhail Alexandrovich Bakunin – che Raffaele ha imparato a idolatrare sotto la guida di Giuseppe Rose, libertario pacifista concittadino. Il discepolo, come confida nel suo sito con affettuosa nostalgia[5], soleva, quando poteva, visitare il suo mentore nella quiete di Tessano, vicino Cosenza, dove il compagno si spense prematuramente. Giuseppe Rose, “Pino”, fu un puro, stimato da tutti, nonostante e in ragione del suo orientamento ideologico[6].

Serietà di studi, erudizione[7], carriera professionale e ideologia politica si complementano in maniera simbiotica nella personalità del Saccomanno. La sua visione del mondo s’impernia sulla necessità di una lotta sostenuta, d’un attivismo ad oltranza, per dare all’umanità quanto sembra oggi relegato nel dizionario dei cliché: libertà, pace, uguaglianza, giustizia, dignità, lavoro, sostenimento, serenità, istruzione e quant’altro il proletariato possa onestamente ambire senza violare i diritti altrui.[8]

La seconda raccolta, Le vie del vento, consiste di poesie finora inedite, stese nel periodo 1970-1985, ma apparse nel sito personale del Saccomanno e che ora vengono pubblicate in volume. Può solo dispiacere che l’autore ha abbia incomprensibilmente deciso di distruggere un numero indeterminato di poesie.

Estremamente importanti sono tre citazioni diverse, emblematiche, di pochi versi, di cui si compone l’Introduzione, datata Grimaldi, 1984, e che costituiscono, per Saccomanno, tre pietre miliari, una inverosimile trinità[9]: Masters, Mayakovsky e Gesù Cristo. Il primo brano, identificato semplicemente Spoon River, è tradotto dalla poesia Serepta Mason, di Edgar Lee Masters[10], che ha ispirato il titolo della raccolta: Le vie del vento. Lo spirito di Serepta si ribella ed inveisce contro l’idiozia dei concittadini che non hanno mai riconosciuto le sue virtù: “Voi che vivete, / siete poveri idioti” che nulla sapete della vita e delle cieche forze che la governano. Il secondo brano è identificato meramente con Majakowskij (Mayakovsky, in americano)[11]. A parte il delirio poetico ed il canto d’un amore esagerato se non inventato addirittura, va tenuta presente, oltre l’ideologia del poeta russo, noto come la voce della Rivoluzione, la chiusa della citazione: “Io e il mio cuore / mai siamo vissuti fino a maggio / e nei miei tempi passati / c’ è solo / il centesimo aprile” – che è un altro modo di esplorare le “vie del vento”, individuate come tempo cosciente, senza speranze. Non a caso il primo maggio è il giorno in cui Mayakovsky scelse la sua donna nell’illusione di condurre una vita meno “anomala”. La terza citazione rievoca in versi la parabola del fico che Gesù maledisse perché privo di frutti.[12] In questo episodio il Saccomanno rintraccia il senso esoterico della vita: la presenza d’un Fato ineluttabile, arbitrario, che spinge all’impossibile e porta inesorabilmente alla sconfitta. Così riproposte, “le vie del vento” diventano incomprensibili, illogiche e maledette.

La poderosa lirica d’apertura in Le vie del vento, quasi a creare un mito evoluzionista, il primo uomo – Prometeo –, modellato sul carattere di Capanèo, vince il terrore iniziale della natura sconvolta, prende coscienza del convulso palpitare di cielo, spuma e zolle, si erge e canta un inno alla Vita. Nella lirica dedicata al primogenito, A Ciccio, racchiude in nuce il sogno-utopia del poeta: “Possa tu amare così // come amo il tuo sguardo di bambino. / Possa tu, figlio, / non sentire mai / il dolore che sento a passo d’ora. / Quando saprai / della mia chimera / alza le ali / e buttati nel vento / per pulirti la polvere e l’odore.” Ama e vivi, e lascia che il vento ti purifichi. Per Paola, prediletta figlia, il poeta riserva un affettuoso monito paterno: “fa / che la tua anima / non sia persa.” (A Paola) In Tremore, canta: “Di una vita creduta / tutta grazia e passione // mi resta un bagliore / oltre il buio e il rumore. / La bianca bellezza dei gigli: / i miei figli.”

Il verso del Saccomanno va centellinato, meditato, gustato come un convivio; per apprezzarne la dovizia, è d’uopo apportare palato e appetito. E mente agile. In un clima da pellegrinaggio a Canossa (Al monaco santo), l’umiltà della confessione a sorpresa: “Fratello / a te posso dirlo: / a Dio non ho mai creduto.” Tosto si rivive con metafore à la Mayakovsky: “Le notti / quando pure il silenzio / cammina / e con ira dà calci / ai cani che girano ancora, / ho cantato nel gelo, / nel buio nebbioso.” Massacri, colpi di mitra. Sanguina il monaco, solo, senza “certezze di vita:” ha solo se stesso. E la barba finta di Dio.

Il poeta da sempre pondera questioni metafisiche. Oltre ad una varietà di ricerche esposte in diverse ricerche, portate al pubblico attraverso il sito, ha infatti già steso i primi tre, dei progettati sette canti (di 77 versi ciascuno) de I sentieri di Ra, i quali non si prestano a facili esegesi. Ci sarebbe da concludere che il Saccomanno è ateo ma non Ateo; vale a dire: non crede a libri sacri e alle deità inventate dagli uomini a loro immagine e somiglianza, ma crede in un Dio Vivente che la mente umana non può concepire. Paradossalmente, sembra che ami i vecchi dei dell’Olimpo, presenti tra gli uomini e ad essi visibili, sotto il vigile sguardo del Fato. È infatti nei miti che si consolidano le sue convinzioni. Sempre posseduto dall’ira prometeica di strappare il sapere agli dei, comprende a perfezione le fatiche di Sísifo: la storia è in prevalenza azione di un Dio del Male[13]. La differenza può straripare in fraintesi: il paradiso è un sorriso di bimbo/a, e non un “regno / dato per gioco / ed in pegno / a tutti gli idioti / del mondo.” (Paradiso) In versi spesso apertamente autobiografici, il poeta risale, come in Cilicio, al tempo dell’innocenza perduta, quando, ragazzo, fu sedotto dal peccato della sua libertà. Il Dio invocato è al massimo un eufemismo di quello ritenuto vero e inconcepibile, ridotto per comodità a “signore umanissimo / dei prati di maggio”, seguito da immagini di pura sensualità, disinibita, fino ad asserire, non detto, “che morte / è vestirsi continuo: / amo solo quest’ora.” In contrasto, il Saccomanno, convinto che non si può non essere cristiani[14], celebra il Maestro, perché duramente sconfitto e tradito, ma non vinto nelle sue visioni di un Regno dei Cieli, in una calorosa lirica della Passione, più volte declamata, anche in chiese e nel Teatro Rendano di Cosenza: “Giammai ho smarrito il tuo volto. / Stanno soli e su tutto / quegli occhi potenti / e la mano che ama gli oppressi / e tempeste spezza / di cuori e di mare, / oh Signore.” // “Io sono l’amore e l’eterno, // Domani / è il Regno che vuole la Vita.” (Cristo)[15]

Negarsi vorrebbe rappresentare un cristianesimo insensato o, laicamente, il comunismo dei senza classe, in seno a cui Raffaele non ha più speranza di vivere. Negarsi finisce per essere un vivere fuori del proprio tempo. In un paio d’occasioni ritenta scottanti motivi sociali, fra cui la vecchia nottambula senzatetto di Piazza Bellini, morta di fame e di freddo: “Il tuo calmo penare / è l’angoscia in cammino, / una vita meschina / che è sempre una vita / vissuta.” La poesia è particolarmente cara al poeta, perché l’indimenticabile morte della meschina – mi confida l’amico – lo trovava sulla panchina accanto. Raffaele sente che in lui perduri qualcosa di lei. Studente all’Università di Napoli, era solito uscire di notte, perché trovava tanta umanità tra i reietti della società, tra i cosiddetti barboni; la vecchina, curva, che ogni sera trascinava cartoni fino a Piazza Bellini, gli ricordava, nella figura rattrappita, la nonna. Non scambiò mai alcuna parola con lei; solo sguardi fugaci che gli comunicavano, contraddittoriamente, un’immensa solitudine e sofferenza, una tranquilla accettazione di quello stato asociale, che interpretava come un senso di sfida alle vie del vento.

Perfino “Santa Lucerna, aspra e solitaria” diventa pretesto per un’invettiva contro il filisteismo paesano. (Immenso) [Da paragonarsi con La Rupe della prima raccolta.] Fra le invettive, il poeta inserisce Cialtroni, probabilmente vergata di getto, per sfogarsi, dopo aver perso le staffe con i vociferi vitelloni di paese. Non ci sono mezzi termini. Anche lui sa essere feroce come una tigre o tenero come una “nuvola in calzoni”. Francamente, però, lo preferisco in momenti più controllati, più giudiziosi, più introspettivi, come nel sonetto Rami secchi o negli endecasillabi di Eterno. Nel sonetto, i cialtroni sono ormai vecchi, soli, persi, “fermi nei covi in cui li ha posti il vento”. Accanto al focolare, “quando la vita chiude i muri a tomba”, il poeta, solitario, si strugge ancora con quesiti che non trovano risposta, e “sputa silenzio” ai soliti assassini. Sepolcri è un ottimo esempio di aperta misoginia: il poeta, passando, è costretto ad assistere al medesimo deprimente cicaleccio di scialba quotidianità. La donna, spoglia più che nuda, ispira rivalsa: “Ti scorro le dita sul corpo / e voglio sentirti muggire, / strapparti improvvisi piaceri, / aspettare, pian piano, tacere”, fino a quando, esausta la lingua vogliosa, non resti “un amore da far seppellire.” Prediligo la vaghezza dei sentimenti suggeriti, giorno e notte, in Compagna, simbolo della femminilità: “sei amore e paura, / sei il grido del vento, / sei l’antica / distesa / di neve.” Per inciso, confessa il poeta, la candida coltre rimane da sempre un ossessionante simbolo di morte. In assenza d’invettive implicite, inevitabilmente grevi, in Eterno, la lirica si eleva spontanea: “Il giorno viene, donna, e s’incammina / come una ruota vecchia di mulino. / Il fiume della vita ha ponti snelli / di blocchi in pietra, teneri e giallastri / ed io passo veloce e segno nomi / che al muto eterno cerchino pietà.”

In “Delirio”, il poeta contrappone allo squallore dello spettacolo quotidiano l’esaltazione del suo vagare. La serata è fredda, limpida come un coro di grilli; il noioso microcosmo del vicinato si contrappone alla muta eternità. Banalità (che non per questo cessano di essere poetiche!) si alternano a concetti metafisici: “Rumore d’un piatto / e quattro forchette. / Masticare una pera / parlare così / d’un filo di luce / di stufa / a un solo elemento.” Le parole sono papaveri sparsi; si conversa fra lunghi silenzi di cose di casa: chi “stimare” a Natale. Poi, d’un tratto, con voluttà quasi sadica “Avrei gustato la lingua / Fino a farti pensare / Che darti dolore / È un regalo di nozze / E un addio.” Segue un ritorno al prosaico – scarpe, pantaloni, partite a scopone – e quindi al sublime: “e l’inferno che brucia / l’inferno che agli uomini veri / è caldo ristoro” [l’enfasi è mia]. Il poeta ha in mente il Capanèo dantesco: “Chi è quel grande, che non par che curi, / L’incendio, e giace dispettoso e torto / Sì, che la pioggia non par che ‘l maturi?” (Inferno, XIV, 46-48). Dalla “carne che vibra / per le mani e le labbra”, un ultimo volo: “Se fossi supremo / padrone del bello / ti avrei creata così / come adesso ti sento / vicina.” Indi la lirica si chiude in tempesta: “Poi allargata / una nube più nera e pesante / del buio, / avrei rotto la sera / con lampi e tuoni / di rabbia.” In Aquila, la voluttà e l’immaginazione promettono spazi di “aquile sole, / inumane.” Semplice e discorsivo il canto del bracciante, abituato ad arare “pascoli e terre / di nubi.” Al tramonto, dopo una giornata di lavoro, solita zappa in spalla, sogna bagnarsi “ai ruscelli e stancare / la voglia infinita” di lei. (Bracciante di sogni) Canzone rievoca una romantica sera di luna sul lungomare: “Andare senza parole / e l’odore / di fiati e capelli abbracciati, / vissuti bambini / alla stessa canzone aggrappati.” Nel ricordo v’è già il presentimento dell’ultimo addio.

La solitudine diventa preoccupazione dominante; e con essa, il rimpianto, la meditazione, ed il tormento di assilli metafisici: “Irti sono / i sentieri del cielo / e non colmano l’anima / mai.” (Freddo) In assenza di reminiscenze amorose, il poeta si recrimina, e finisce per riconoscere la nullità della propria esistenza. (Io) Altrove, “da un’immensa tristezza ti guardo / o dal riso di chi non ha niente.” (Di sera) Solo l’innocenza “disegnata all’asilo del tempo / di befane, romanze e preghiere” lo rende estatico (Piccolo cuore). In Domani, “la talpa che scava del tempo”, Dio si rivela indifferente, l’amore, in generale, falso, ed il destino ignoto: “C’è il ghigno / e il tormento di sempre.” In Elisabeth, è il poeta a confessare un’insana, perenne indifferenza (da associare alla noncuranza della nottambula di Piazza Bellini), che muta comunque con il fluire sempre felice dei versi, e diventa l’anatomia d’un amore impossibile che, com’è naturale, può far solo soffrire: “Se amo te sola / è perché t’ho perduta / con il canto del gallo.” In verità, “nessuno può amare.” Si può solo provare la passione dei sensi, per concludere infine: “tu sei ciò che non ho / che nessuno mi ha dato.” Motivo ripetuto in Ora e mai: “E allora dispero / per il corpo impazzito: / cento inutili donne. / Labbra, nomi e capelli: / un rosario perenne, / un maestoso, imperiale / crisantemo alla vita.” Tutto passa, come una notte di luna. Ma resta la poesia: “Quattro cirri, / donzelle di bianco, / una pace che dorme / sui tetti / e nel buio dei campi.” (Chiaro di luna)

Certe liriche, come Nessuno, vanno imparate a memoria per intero; qualsiasi taglio è un sacrilegio (che sono costretto a commettere): “Nessuno. / Rigira una carta / che morde l’asfalto / e tutto è pulito / dal vento e dal vuoto.” Vi fa eco Primavera, che, in un senso, è un autoritratto del poeta: “Il vento / è voce d’uomo / dall’anima straziata. / Attenti tra le scorze / nelle piume rigonfie / stanno i passeri al fiume. // Il freddo come un ladro / lascia solo visioni / di nubi e di ricordi / cupi. / Sembro san Sebastiano / d’amarezza trafitto / con i giorni a morire.” Sentimenti riecheggiati nella disperazione di Kim che, “per amore / non voleva morire”. Da tante citazioni risulta evidente che il Saccomanno ha innato il senso del ritmo: “Stanno alti i covoni accasciati / su un lago di terra dorata. // non mi chiedi in cima al sentiero: / non mi chiedi dov’esso conduce.” (Estate) Invero, i sentieri sono soltanto illusione: “Non cercare sentieri / per cime inesistenti / perché la verità / è sguardo e silenzio.” (Sentieri)

Voli, poesia premiata[16], oltre a concludere la raccolta, chiude anche un ciclo (per iniziarne presto un altro, naturalmente). Non ho difficoltà ad associarla a Delirio, per procedimento creativo, e fecondità d’immaginazione. Ma differisce la prospettiva: Voli è un Delirio a febbre calata, da convalescenti invigoriti. Sì, vi sono ancora demoni che urlano dentro, e passioni d’altri tempi, ma il tormento è scemato abbastanza per dare alla lirica libero sfogo, senza troppe distrazioni. Sin dall’inizio, tutto è chiaro: la vita è un passero abbattuto d’improvviso, spesso troppo innanzi sera. Il solito inverno avanza, “serio, normale, (ben imbacuccato, si congettura), addossato” ad alberi nudi. “Piume, / in un ramo, d’uccelli morti.” Nelle nuvole terse, la storia del mondo. Una soave carezza risveglia un attimo i folletti assonnati, ma prevale la solitudine: “Amo stare da solo la sera; / fuoco senza faville” in attesa dell’immancabile donna che nel poeta ama “il mondo che soffre / per eterno bisogno / di vita.” Gli ultimi ribelli finiscono nell’aspro saio del miscredente. Riti, tormenti, incontri. Storie e sogni, reversibili. Si chiude in bellezza con due immagini contrastanti, tempesta e pace: “Sentiremo un vento leggero / infilarsi dal vetro. / Picchieranno improvvisi, / furiosi, / chicchi di grandine e forse / nel vicolo cieco / s’aprirà frettolosa / una luce.” // “Rannicchiata, / al focolare vicina, / poserò la mia mano / sul tuo amore che aspetta: / non avremo pietà / per il tempo che muore.” Il finale è di favola: “Sappiamo / di essere / niente. / Di noi / Parleranno / come storia d’amore.”

 

 

20/6/2004

 

NOTE

 

[1] Cosenza: Pellegrini, 1968.

[2] www.raffaelesaccomanno.net

[3] A proposito di traduzioni, ammonisce il Toselli: “A volte per gioco / traduci i miei versi / ma attento! / se tu li rovini / diventano tuoi” Carlo Toselli, “Traduzione”, in Fra due giardini (West Vancouver, B.C.,: Le Grazie, 1998, 141). Purtroppo, spesso capita che non si è capaci di adoperare l’originale, e che, chiosando, è giocoforza sorvolare da un fiore all’altro, come l’ape.

[4] Vedi sito, autobiografia minima, L’Eremita.

[5] Questo articolo, reperibile in archivio, fu il primo numero di un bollettino del circolo culturale dedicato proprio a G. Rose. Il Saccomanno fu costretto ad abbandonare il progetto per motivi di lavoro: dovette trasferirsi ad Amendolara, ai confini della Calabria, dove insegnò per quasi un decennio.

[6] Coetaneo, e amico da sempre, Michele Iachetta lo rievoca con contagiosa emozione. Michele Iachetta, Commemorazioni e discorsi, Rogliano (CS): Atlantide Edizioni, 1999, 60-74.

[7] Sempre amante della lettura, il Saccomanno studia i grandi della letteratura italiana, con particolare attenzione Dante (Inferno), Leopardi, Petrarca, Ungaretti, Quasimodo, Saba, Verga, Pirandello, Pavese e via di seguito, ed allarga i suoi orizzonti spigolando fra Shakespeare e García Lorca, Tolstoj e Dostoevskij, Freud, Nietzsche, Hegel, Marx, Heidegger, Eckhart ed altri mistici tedeschi.

[8] Il poeta grimaldese conta di dedicare la vita a tale proposito, con l’indomito spirito del Capanèo dantesco, elevato a simbolo di rivolta irriducibile.

[9] Il Masters (1869-1950) nato a Garnett, nel Kansas, trascorse la sua infanzia in Lewistown e Petroburg, Illinois, su cui modellò la cittadina, Spoon River, che dà il titolo alla raccolta di poesie che lo rese famoso: Spoon River Anthology (1915). Appropriandosi dell’espediente letterario prima usato da J. W. Mackail, il Masters, poeta realista e satirico, fa parlare i morti del cimitero, che ovviamente non hanno più bisogno di mentire, per descrivere la vita quotidiana locale, e per denunziarne il provincialismo. Non è il caso di ribadire che, in quest’arco di tempo (1970-1985), il Saccomanno ha continuamente ampliato le sue vedute, che, mutatis mutandis, sembrano in gran parte coincidere con quelle del Masters.

[10] Edgar Lee Masters, Spoon River Anthology [1915] (New York: Dover Publications, 1992, 5).

[11] Traduzione dalla parte IV di The Cloud in Trousers (Nuvola in calzoni) [1915] in The Bedbug [Il cimice] and Selected Poetry (New York: World Publishing Co., 1960, 111-103) [le pagine pari sono adibite al testo originale, in russo]. Ne ho consultate varie edizioni, le cui traduzioni a volte appena si somigliano. Il lavoro, preceduto da un Prologo, consiste di quattro parti intese come rivolta contro convenzioni stabilite: Amore, Arte, Società e Religione. (Herbet Marshall, ed., Mayakovsky and His Poetry, London: The Pilot Press, 1945, 28).

[12] Lo sconcertante episodio appare contraddittorio perché, come Marco osserva, non era la stagione dei fichi.

[13] Vedasi, in sito, “Il doppio volto di Dio”.

[14] Vedi sito, Commento a Marco, Introduzione.

[15] In versi simili, forse meno inspirati, ma certo un po’ astrusi, il poeta si identifica con san Simeone, anacoreta travagliato ed incompreso che visse circa trent’anni in cima alla piattaforma posta su una colonna. (Simeone)

[16] La premiazione avvenne il 24 novembre 1974, nel Castello di Corigliano Calabro. La poesia classificata seconda (ma prima di fatto, essendo il primo posto assegnato alla carriera di un vecchio insegnante), fu giudicata da una giuria presieduta da Luigi Compagnone, critico letterario, e dallo scrittore Michele Prisco.

 

21-02-2011

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