Le vie del vento: Postfazione (di Gabriele Niccoli)

Frammenti e disgressioni … a mo’ di postfazione

di

Gabriele Niccoli

Discorrendo recentemente con Mario Luzi di intertestualità e restauro del testo letterario (ciò che Paul Ricoeur avrebbe chiamato la memoria della significazione, ossia del rapporto dialogico da recuperare fra significante e significato), rimasi piacevolmente colpito dal confitente candore col quale il grande poeta fiorentino tesseva il suo modo di fare poesia tra i meandri di un più ampio discorso di metaletteratura.  Questa postazione luziana mi sembrava un’ulteriore conferma, sempre nei parametri del sollazzo metaletterario consono a tali disquisizioni/chiacchierate da salotto (o da ristorante, nel caso cui faccio allusione), di quanto di già affermato da Jacques Derrida, nonché da altri, e cioè che la scrittura è in realtà orfana, radicate nozioni queste, e non più radicali, che sognano ancora di potere rimpiazzare, alleate come sono al postmodernismo e decostruzionismo di massa, quelle, diciamo, più convenzionali o classiche della ingombrante seppur legittimante praesentia autoriale, socioculturale, politico-istituzionale nella intrecciata simmetria del testo.  La speculazione esegetica, umbratilmente ermeneutica, del testo sarebbe quindi propria del poeta stesso persino nell’incipiente gesto della sua concezione artistica, e i richiami, i rimandi, le svirgolettate citazioni a questa afferenti non ne proporrebbero che gli strumenti più rudimentali. Ma già da tempo ormai Roland Barthes aveva sbandierato (nella manierata esuberante ostentazione propria dei letterati francesi) un assioma più volte eloquentemente enunciato nel nostro tardo Cinquecento, dal Trissino al De Nores al Castelvetro agli stessi Tasso e Guarini, per non dire di altri, e cioè che l’arte non esiste, non esiste che il discorso sull’arte.  Vien da chiedersi a questo punto se non si possa dire lo stesso della vita in genere, o magari di un’esistenza.

 

―――

 

La carica gnoseologica che funge anche paradossalmente da potenziale disgregante nella minuziosa, a volte dolce e agghiacciante, dissezione di sensi e sentimenti sapientemente attuata da Saccomanno nella calibrata stesura del suo canto libero mi sprona a credere che forse, chissà, in effetti la vita non esiste, almeno non nel novero delle pratiche rimediali in cui la “si vive” quotidianamente.  Esiste solo un muto e sinuoso moto metafisico di essa, una asimmetrica anatomia di pensiero che si sgretola in un flusso continuo-discontinuo di parole che nelle loro cangianti metonimie, pur sempre imbastite sulla stessa equivocità, a loro volta ci lusingano con l’allucinante chimera di una svolta, di una nuova identità, l’epifanica meraviglia che sortisce appunto dalla felice intuizione, concatenazione, e susseguente armoniosa connotazione di immagini e di suoni che danzano liberi al ritmo di  uno zeugma ferace o di una metafora riuscita.

―――

Ciò che di più mi scuote della poesia di Saccomanno, e che di più se ne evince, è la netta sensazione di una vocazione, di una lezione di eticità, e di vita.  Un impegno di come dover vivere, se solo fosse possibile, la vita.  Ma è ancora di più.  È al contempo una lectio magistralis ed una autentica ars poetica, la raccolta di Saccomanno, sottesa com’è dai diversi livelli di una codificazione il cui sapore spesso da trobar clus è frutto di un elaborato costrutto delle molteplici isotopie che la compongono.  Una poesia che, così come la voce dell’io lacaniano che ne popola i margini, mendicando in limine, nasce dalla terra per essere del vento.  Non so se la perdita dell’innocenza, della cacciata sentitamente masaccesca, ci ha resi simili a Dio, ma mi sembra di scorgere sulla falsariga del metonimico inchiostro di Saccomanno una vergata disequazione del divenire umano, la certezza quasi di esserne alato disincarnato pensiero, ai margini di uno spazio fittizio.

―――

Se facciamo nostre le teorie dei vari Riffaterre, Fish, Iser ci rendiamo conto che la significazione di un testo, come quella di un’esistenza, non appartiene neanche più al testo stesso, bensì, secondo questi filosofi del linguaggio, alla postazione critica del lettore, di chi ascolta, di chi sa osservare con diligenza e acume.  Ci si chiede allora non “cosa significa quella poesia?”, né tanto meno “che funzione ha?”  Ci si chiede invece sul come si materializza un sistema di segni e significati da parte del lettore o critico accorto, e in qual modo si dispiega e si immobilizza tutto un bagaglio di istanze ermeneutiche in suo possedimento così da poter produrre il più possibile la variegata potenzialità di significati.

―――

Mi pare di scernere nella produzione poetica di Saccomanno un asse di rappresentazione scenica del linguaggio, un rapporto dialogico e dialettico quasi ininterrotto fra la psicoanalisi e il marxismo, un autorevole metalinguaggio quindi che si interpone fra il codice verbale istituito e le movenze ideologiche di una coscienza “evoluzionista”.  Un incontro, diciamo, fra Lacan e Althusser, teso alla rielaborazione poetica (nobilitante) della sovrastruttura della produzione del potere (inteso nel senso aristotelico) e del sapere, e della complessa dinamica della costruzione/distruzione del soggetto.  È altresì un testo dinamico, cangiante, evoluzionista appunto, e intensamente allettante nella sua polivalenza segnica, al punto da indurci a sospettare che l’attenta erudita analisi del collega Albi (per non dire poi della postazione eminentemente speculare di ogni azzeccatissima traduzione) rappresenti tanto il proprio incontro estetico col testo quanto la equilibrata misurazione dell’economia del testo stesso.  Mi spiego.  Localizzandolo, come faranno d’altronde i molteplici lettori accorti che vi si avvicineranno, fra le coordinate di un proprio canone di  intertestualità, oppure fra le ricognizioni e correlazioni di altri testi poetici, il critico conferisce, suo malgrado, una certa identità e una considerevole dose di stabilità al testo, essendo quest’ultimo un organismo proteiforme, come si diceva, che andrà formandosi e riformandosi a seconda appunto delle strategie retoriche che vi confluiranno nello spazio di un particolare incontro (leggi lettura) e delle relazionalità dei testi a cui verrà indelicatamente o delicatamente sottoposto.

―――

La poesia di Saccomanno non soccombe ai dettami di una istituzione, né ai meccanismi di una corrente conforme ai risvolti dell’accademia, né agli umori sondati di un’industria libraria. È libera e nel verso e nello spirito esemplarmente impavido che la veicolano.  Il luogo della scrittura del Saccomanno poeta è il Silenzio, un locus privilegiato, un sancta sanctorum che si nutre di silenzi atavici, in un adagio cultuale sovente lugubre ma sempre intensamente poetico, circoscritto com’è da “una conca di cielo”, da un “vivere di luce”, e dalla “mistica pace” della natura attorniante (si rinvia all’Albi seminatore di lucivaghe postille). Una scrittura che riconosce che la vita non basta.  Non basta ritrovarsi sempre, come venne scritto da qualche parte (o forse solo un richiamo senza referente nell’inchiostro del passato), fra i sentieri del sepolcro.  E il silente suono delle parole di Saccomanno, enunciate fra il crepuscolo e l’alba, quelle stesse parole che si intersecano tra i vuoti ritmici del canto di un uccello, dell’umanizzante planctus di una civetta, o che si nascondono dietro le fantasmagoriche allegorie di case dalle mura sgretolate, quel facondo suono di silenzio svapora la notturna nebbia del sepolcro, dileguandosi e raffinandosi la coscienza dell’essere tra le vie di un vento che spira, zefiro, sui tremuli tropi che tali immagini sanno suscitare.

―――

Lo scrigno della voce poetica di Saccomanno io l’ho aperto, come faranno i lettori di questo volume, con la chiave prefata di Albi, il quale, similmente al Luzi, ed estrinsecandosi con estro nella sua convinzione di non dover mai chiosare, finisce per mappare la topografia del testo, preludendoci così, non solo un suadente codice di lettura, ma anche un saggio delle proprie strategie retoriche; diciamolo pure, un pretesto alla presunta ragionata lettura critica del testo poetico, una teofanica demarcazione delle svariate chiusure/aperture ermeneutiche volte ad una densa ristrutturazione e fruizione del macrotesto.  Dice (leggi scrive) uno dei nostri grandi del Novecento: “So che si può esistere / non vivendo / con radici strappate da ogni vento…/” Ahimè, per antico, forse vaticinatore ed atavico, vezzo letterario mi lascio prendere la mano dagli streganti schemi di una indeterminata semiosi linguistica di micronarrazioni esistenziali e mi scorgo anch’io smarrito fra gli spazi bianchi del verso libero di Saccomanno.

―――

Come nell’ulisside legato al legno, incapace di annegare nella dolcezza del canto sirenico, estuosa è in me, erile quasi, la vaghezza di controllare l’andazzo del testo, di misurarne il polso, di vagliare l’ondulata tensione di una scrittura che scandisce, nelle cadenze coloristiche del silenzio, l’euritmia di questioni di tormenti millenari, e di passioni.  Girovago fra l’etopea e il chiasmo, fra l’eufemismo e la sillessi, e poi sperduto nella diaspora di parole al vento, in un “tempo che odora di suoni”, mi scorgo d’un tratto (come su tela, memore di preci alla terra) chino nel cogliere “crisantemi alla vita”, cosciente anch’io “di essere niente… in questo odore di vita di morte”, dove l’effetto olfattivo sprigiona un illud tempus (vissuto o immaginato, poco importa) di proustiana e, ancor di più, di poussiana memoria, di natura corrotta dal sepolcro.  E poi mi riscopro all’alba bracciante di sogni di metaletteratura e mi chiedo perché allora scrivere, e non trovo risposta nella fuga delle parole …se non con la certezza di un Carlo Bo per il quale la scrittura è “l’unica nostra ragione di essere.”  Ed è qui, nel diafano germogliare di questo getto di prosa che è poesia, quasi per gioco buttato anch’esso ai capricci del vento, che meglio penso e discerno – pur sempre impenitente è il critico – il poetare di Saccomanno, di un poeta che scrive con l’inchiostro delle vene.  Un fare poesia, il suo, che è una sorta di incessante mise en abyme, uno schieramento ontologico, una postazione fortemente intellettualizzante ed estetizzante, sovente volutamente ermetica – certo non nel senso di flussi ed influssi di istituzioni, come si accennava, o di correnti – che fa della poesia una teoria dell’essere.

―――

L’erlebnis, il vissuto, di Saccomanno, come le parole delle sue poesie che si vestono della coscienza estetica dello scrittore, si snoda così nel variegato eluente registro elocutorio di versi nei quali sento a volte il sapore agrodolce del microcosmo romanzesco, particolarmente in quelle probanti e pregnanti tessiture di inverni che si appressano, e nelle cui disaffezioni fredda giace la vita dei vinti.  Sento nei crismi della parola fàtica di Saccomanno non solo l’anacronistico decostruzionismo verghiano dell’inganno progressista ma anche quanto credo sia già stato segnalato a proposito della concatenazione estetizzante-socialista di un Marx, ad esempio, e di un maudit e quasi scapigliato Baudelaire. Vi ravviso nelle movenze da untore il cinico e lusorio lumicino dei dialoghi dei morti di Luciano.  Ma vi sento anche Ruskin e Coleridge, oltre ad altri già egregiamente invocati da Albi.  Ed ecco che mi scorgo finalmente anch’io nel percorso delle mie riflessioni e delle mie digressioni i cui frammenti testimoniano tanto un mio incontro privilegiato col testo di Saccomanno (e con quello di Albi) quanto un mal celato slancio di eticizzante fenomenologia nel tentativo di recupero e di preservazione di significazione del macrotesto letterario.  Con ciò, comunque, non vorrei cadere nell’errore pseudo-sillogistico del post hoc ergo propter hoc, fondendo malamente insieme sequenze e conseguenze, né tanto meno coltivare incernierate nozioni di trittico e portelli.

―――

Tra le pieghe di un ponderato nichilismo/antinichilismo che se sa di Nietzsche sa anche però di Claudel, e di un velo di marxismo che se risente, come si è avuto modo di osservare, di Althusser può anche però mascherare non poche briciole di una coscienza soggettiva e di una introspezione di stampo mertoniano, aprendo così spiragli ad una immaginazione feconda formata da solide basi di meditazione intellettuale, la voce poetica di Saccomanno è, a mio modo di sentire, soprattutto un canto di humanitas, un atto di fede nella magia della parola, un gesto di coraggio nel credere ancora che, malgrado tutto, la poesia può redimerci dal mareggiare inquieto dell’esistenza.  La magistrale riflessione sullo stato dell’uomo postmoderno, di questi rami secchi (marker costitutivo nell’economia intratestuale, non a caso nella fattispecie l’unico sonetto) che “non capiscono più meraviglia”, e di queste barattatrici del corpo incorniciate e infestate dal “fetore del grande portone” affresca in modo indelebile, ineluttabile, uno sprazzo della umana specie che vagola inerte, tremula, moritura verso il nulla mentre, lontano, dove si sente ancora, lieve, il rintocco di una campana, si dilegua un’ultima nomade nota di speranza.  Ma tutto ciò è anche un monito, ai poveri idioti, di un’antica notizia, ci direbbe Saccomanno.  In un mondo di riciclate ingiustizie sociali e di rapporti umani svuotati, dove l’unica verità è che “ognuno è disperato”, occorre ritrovare, per poi tesaurizzarlo, quel perduto senso di magia, e di meraviglia; occorre ritrovarlo con la “mente / che cerca ancora / ancora e sempre.”

―――

Nino Ricci, uno dei maggiori romanzieri canadesi, di sangue e di indole, e di sensibilità artistica profondamente italiani, scrive: “Language seems sometimes such a crude tool to have devised, obscuring as much as it reveals, as if we are not much further along than those half-humans of a million years ago with their fires and their bits of chipped stone; though maybe like them all we strive for in the end is simply to find our own way to hold back for a time the encroaching dark” (Il linguaggio sembra a volte l’invenzione d’uno strumento talmente primitivo da offuscare quanto rivela, come se non avessimo poi fatto tanta più strada di quegli umanoidi di un milione di anni fa, con i loro fuochi e schegge di pietra; benché forse come loro tutto ciò per cui lottiamo alla fin fine altro non è che cercare un modo di ritardare un poco l’invadente oscurità).

 

 

Frammenti e disgressioni … a mo’ di postfazione

di Gabriele Niccoli

 

Discorrendo recentemente con Mario Luzi di intertestualità e restauro del testo letterario (ciò che Paul Ricoeur avrebbe chiamato la memoria della significazione, ossia del rapporto dialogico da recuperare fra significante e significato), rimasi piacevolmente colpito dal confitente candore col quale il grande poeta fiorentino tesseva il suo modo di fare poesia tra i meandri di un più ampio discorso di metaletteratura.  Questa postazione luziana mi sembrava un’ulteriore conferma, sempre nei parametri del sollazzo metaletterario consono a tali disquisizioni/chiacchierate da salotto (o da ristorante, nel caso cui faccio allusione), di quanto di già affermato da Jacques Derrida, nonché da altri, e cioè che la scrittura è in realtà orfana, radicate nozioni queste, e non più radicali, che sognano ancora di potere rimpiazzare, alleate come sono al postmodernismo e decostruzionismo di massa, quelle, diciamo, più convenzionali o classiche della ingombrante seppur legittimante praesentia autoriale, socioculturale, politico-istituzionale nella intrecciata simmetria del testo.  La speculazione esegetica, umbratilmente ermeneutica, del testo sarebbe quindi propria del poeta stesso persino nell’incipiente gesto della sua concezione artistica, e i richiami, i rimandi, le svirgolettate citazioni a questa afferenti non ne proporrebbero che gli strumenti più rudimentali.  Ma già da tempo ormai Roland Barthes aveva sbandierato (nella manierata esuberante ostentazione propria dei letterati francesi) un assioma più volte eloquentemente enunciato nel nostro tardo Cinquecento, dal Trissino al De Nores al Castelvetro agli stessi Tasso e Guarini, per non dire di altri, e cioè che l’arte non esiste, non esiste che il discorso sull’arte.  Vien da chiedersi a questo punto se non si possa dire lo stesso della vita in genere, o magari di un’esistenza.

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La carica gnoseologica che funge anche paradossalmente da potenziale disgregante nella minuziosa, a volte dolce e agghiacciante, dissezione di sensi e sentimenti sapientemente attuata da Saccomanno nella calibrata stesura del suo canto libero mi sprona a credere che forse, chissà, in effetti la vita non esiste, almeno non nel novero delle pratiche rimediali in cui la “si vive” quotidianamente.  Esiste solo un muto e sinuoso moto metafisico di essa, una asimmetrica anatomia di pensiero che si sgretola in un flusso continuo-discontinuo di parole che nelle loro cangianti metonimie, pur sempre imbastite sulla stessa equivocità, a loro volta ci lusingano con l’allucinante chimera di una svolta, di una nuova identità, l’epifanica meraviglia che sortisce appunto dalla felice intuizione, concatenazione, e susseguente armoniosa connotazione di immagini e di suoni che danzano liberi al ritmo di  uno zeugma ferace o di una metafora riuscita.

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Ciò che di più mi scuote della poesia di Saccomanno, e che di più se ne evince, è la netta sensazione di una vocazione, di una lezione di eticità, e di vita.  Un impegno di come dover vivere, se solo fosse possibile, la vita.  Ma è ancora di più.  È al contempo una lectio magistralis ed una autentica ars poetica, la raccolta di Saccomanno, sottesa com’è dai diversi livelli di una codificazione il cui sapore spesso da trobar clus è frutto di un elaborato costrutto delle molteplici isotopie che la compongono.  Una poesia che, così come la voce dell’io lacaniano che ne popola i margini, mendicando in limine, nasce dalla terra per essere del vento.  Non so se la perdita dell’innocenza, della cacciata sentitamente masaccesca, ci ha resi simili a Dio, ma mi sembra di scorgere sulla falsariga del metonimico inchiostro di Saccomanno una vergata disequazione del divenire umano, la certezza quasi di esserne alato disincarnato pensiero, ai margini di uno spazio fittizio.

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Se facciamo nostre le teorie dei vari Riffaterre, Fish, Iser ci rendiamo conto che la significazione di un testo, come quella di un’esistenza, non appartiene neanche più al testo stesso, bensì, secondo questi filosofi del linguaggio, alla postazione critica del lettore, di chi ascolta, di chi sa osservare con diligenza e acume.  Ci si chiede allora non “cosa significa quella poesia?”, né tanto meno “che funzione ha?”  Ci si chiede invece sul come si materializza un sistema di segni e significati da parte del lettore o critico accorto, e in qual modo si dispiega e si immobilizza tutto un bagaglio di istanze ermeneutiche in suo possedimento così da poter produrre il più possibile la variegata potenzialità di significati.

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Mi pare di scernere nella produzione poetica di Saccomanno un asse di rappresentazione scenica del linguaggio, un rapporto dialogico e dialettico quasi ininterrotto fra la psicoanalisi e il marxismo, un autorevole metalinguaggio quindi che si interpone fra il codice verbale istituito e le movenze ideologiche di una coscienza “evoluzionista”.  Un incontro, diciamo, fra Lacan e Althusser, teso alla rielaborazione poetica (nobilitante) della sovrastruttura della produzione del potere (inteso nel senso aristotelico) e del sapere, e della complessa dinamica della costruzione/distruzione del soggetto.  È altresì un testo dinamico, cangiante, evoluzionista appunto, e intensamente allettante nella sua polivalenza segnica, al punto da indurci a sospettare che l’attenta erudita analisi del collega Albi (per non dire poi della postazione eminentemente speculare di ogni azzeccatissima traduzione) rappresenti tanto il proprio incontro estetico col testo quanto la equilibrata misurazione dell’economia del testo stesso.  Mi spiego.  Localizzandolo, come faranno d’altronde i molteplici lettori accorti che vi si avvicineranno, fra le coordinate di un proprio canone di  intertestualità, oppure fra le ricognizioni e correlazioni di altri testi poetici, il critico conferisce, suo malgrado, una certa identità e una considerevole dose di stabilità al testo, essendo quest’ultimo un organismo proteiforme, come si diceva, che andrà formandosi e riformandosi a seconda appunto delle strategie retoriche che vi confluiranno nello spazio di un particolare incontro (leggi lettura) e delle relazionalità dei testi a cui verrà indelicatamente o delicatamente sottoposto.

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La poesia di Saccomanno non soccombe ai dettami di una istituzione, né ai meccanismi di una corrente conforme ai risvolti dell’accademia, né agli umori sondati di un’industria libraria.  È libera e nel verso e nello spirito esemplarmente impavido che la veicolano.  Il luogo della scrittura del Saccomanno poeta è il Silenzio, un locus privilegiato, un sancta sanctorum che si nutre di silenzi atavici, in un adagio cultuale sovente lugubre ma sempre intensamente poetico, circoscritto com’è da “una conca di cielo”, da un “vivere di luce”, e dalla “mistica pace” della natura attorniante (si rinvia all’Albi seminatore di lucivaghe postille).  Una scrittura che riconosce che la vita non basta.  Non basta ritrovarsi sempre, come venne scritto da qualche parte (o forse solo un richiamo senza referente nell’inchiostro del passato), fra i sentieri del sepolcro.  E il silente suono delle parole di Saccomanno, enunciate fra il crepuscolo e l’alba, quelle stesse parole che si intersecano tra i vuoti ritmici del canto di un uccello, dell’umanizzante planctus di una civetta, o che si nascondono dietro le fantasmagoriche allegorie di case dalle mura sgretolate, quel facondo suono di silenzio svapora la notturna nebbia del sepolcro, dileguandosi e raffinandosi la coscienza dell’essere tra le vie di un vento che spira, zefiro, sui tremuli tropi che tali immagini sanno suscitare.

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Lo scrigno della voce poetica di Saccomanno io l’ho aperto, come faranno i lettori di questo volume, con la chiave prefata di Albi, il quale, similmente al Luzi, ed estrinsecandosi con estro nella sua convinzione di non dover mai chiosare, finisce per mappare la topografia del testo, preludendoci così, non solo un suadente codice di lettura, ma anche un saggio delle proprie strategie retoriche; diciamolo pure, un pretesto alla presunta ragionata lettura critica del testo poetico, una teofanica demarcazione delle svariate chiusure/aperture ermeneutiche volte ad una densa ristrutturazione e fruizione del macrotesto.  Dice (leggi scrive) uno dei nostri grandi del Novecento: “So che si può esistere / non vivendo / con radici strappate da ogni vento…/” Ahimè, per antico, forse vaticinatore ed atavico, vezzo letterario mi lascio prendere la mano dagli streganti schemi di una indeterminata semiosi linguistica di micronarrazioni esistenziali e mi scorgo anch’io smarrito fra gli spazi bianchi del verso libero di Saccomanno.

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Come nell’ulisside legato al legno, incapace di annegare nella dolcezza del canto sirenico, estuosa è in me, erile quasi, la vaghezza di controllare l’andazzo del testo, di misurarne il polso, di vagliare l’ondulata tensione di una scrittura che scandisce, nelle cadenze coloristiche del silenzio, l’euritmia di questioni di tormenti millenari, e di passioni.  Girovago fra l’etopea e il chiasmo, fra l’eufemismo e la sillessi, e poi sperduto nella diaspora di parole al vento, in un “tempo che odora di suoni”, mi scorgo d’un tratto (come su tela, memore di preci alla terra) chino nel cogliere “crisantemi alla vita”, cosciente anch’io “di essere niente… in questo odore di vita di morte”, dove l’effetto olfattivo sprigiona un illud tempus (vissuto o immaginato, poco importa) di proustiana e, ancor di più, di poussiana memoria, di natura corrotta dal sepolcro.  E poi mi riscopro all’alba bracciante di sogni di metaletteratura e mi chiedo perché allora scrivere, e non trovo risposta nella fuga delle parole …se non con la certezza di un Carlo Bo per il quale la scrittura è “l’unica nostra ragione di essere.”  Ed è qui, nel diafano germogliare di questo getto di prosa che è poesia, quasi per gioco buttato anch’esso ai capricci del vento, che meglio penso e discerno – pur sempre impenitente è il critico – il poetare di Saccomanno, di un poeta che scrive con l’inchiostro delle vene.  Un fare poesia, il suo, che è una sorta di incessante mise en abyme, uno schieramento ontologico, una postazione fortemente intellettualizzante ed estetizzante, sovente volutamente ermetica – certo non nel senso di flussi ed influssi di istituzioni, come si accennava, o di correnti – che fa della poesia una teoria dell’essere.

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L’erlebnis, il vissuto, di Saccomanno, come le parole delle sue poesie che si vestono della coscienza estetica dello scrittore, si snoda così nel variegato eluente registro elocutorio di versi nei quali sento a volte il sapore agrodolce del microcosmo romanzesco, particolarmente in quelle probanti e pregnanti tessiture di inverni che si appressano, e nelle cui disaffezioni fredda giace la vita dei vinti.  Sento nei crismi della parola fàtica di Saccomanno non solo l’anacronistico decostruzionismo verghiano dell’inganno progressista ma anche quanto credo sia già stato segnalato a proposito della concatenazione estetizzante-socialista di un Marx, ad esempio, e di un maudit e quasi scapigliato Baudelaire. Vi ravviso nelle movenze da untore il cinico e lusorio lumicino dei dialoghi dei morti di Luciano.  Ma vi sento anche Ruskin e Coleridge, oltre ad altri già egregiamente invocati da Albi.  Ed ecco che mi scorgo finalmente anch’io nel percorso delle mie riflessioni e delle mie digressioni i cui frammenti testimoniano tanto un mio incontro privilegiato col testo di Saccomanno (e con quello di Albi) quanto un mal celato slancio di eticizzante fenomenologia nel tentativo di recupero e di preservazione di significazione del macrotesto letterario.  Con ciò, comunque, non vorrei cadere nell’errore pseudo-sillogistico del post hoc ergo propter hoc, fondendo malamente insieme sequenze e conseguenze, né tanto meno coltivare incernierate nozioni di trittico e portelli.

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Tra le pieghe di un ponderato nichilismo/antinichilismo che se sa di Nietzsche sa anche però di Claudel, e di un velo di marxismo che se risente, come si è avuto modo di osservare, di Althusser può anche però mascherare non poche briciole di una coscienza soggettiva e di una introspezione di stampo mertoniano, aprendo così spiragli ad una immaginazione feconda formata da solide basi di meditazione intellettuale, la voce poetica di Saccomanno è, a mio modo di sentire, soprattutto un canto di humanitas, un atto di fede nella magia della parola, un gesto di coraggio nel credere ancora che, malgrado tutto, la poesia può redimerci dal mareggiare inquieto dell’esistenza.  La magistrale riflessione sullo stato dell’uomo postmoderno, di questi rami secchi (marker costitutivo nell’economia intratestuale, non a caso nella fattispecie l’unico sonetto) che “non capiscono più meraviglia”, e di queste barattatrici del corpo incorniciate e infestate dal “fetore del grande portone” affresca in modo indelebile, ineluttabile, uno sprazzo della umana specie che vagola inerte, tremula, moritura verso il nulla mentre, lontano, dove si sente ancora, lieve, il rintocco di una campana, si dilegua un’ultima nomade nota di speranza.  Ma tutto ciò è anche un monito, ai poveri idioti, di un’antica notizia, ci direbbe Saccomanno.  In un mondo di riciclate ingiustizie sociali e di rapporti umani svuotati, dove l’unica verità è che “ognuno è disperato”, occorre ritrovare, per poi tesaurizzarlo, quel perduto senso di magia, e di meraviglia; occorre ritrovarlo con la “mente / che cerca ancora / ancora e sempre.”

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Nino Ricci, uno dei maggiori romanzieri canadesi, di sangue e di indole, e di sensibilità artistica profondamente italiani, scrive: “Language seems sometimes such a crude tool to have devised, obscuring as much as it reveals, as if we are not much further along than those half-humans of a million years ago with their fires and their bits of chipped stone; though maybe like them all we strive for in the end is simply to find our own way to hold back for a time the encroaching dark” (Il linguaggio sembra a volte l’invenzione d’uno strumento talmente primitivo da offuscare quanto rivela, come se non avessimo poi fatto tanta più strada di quegli umanoidi di un milione di anni fa, con i loro fuochi e schegge di pietra; benché forse come loro tutto ciò per cui lottiamo alla fin fine altro non è che cercare un modo di ritardare un poco l’invadente oscurità).

 

Gabriele Niccoli

 

01-11-2011

 

 

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