Tutte le azioni umane servono, in ultima analisi, a eliminare quote di sofferenza.
L’uomo, fin dall’inizio della sua storia, per contrastare convenientemente la fame, l’inclemenza e l’imprevedibilità delle stagioni, è divenuto agricoltore, cacciatore, allevatore di bestiame; si è fatto costruttore di case, di utensili, acquisendo l’arte manuale necessitata dall’essersi dichiarato proprietario di terre e di roba.
Il lavoro, di conseguenza, si è specificato come il principale mezzo umano per affrancarsi da un originario stato di sofferta provvisorietà.
La dimensione dell’attività materiale, tuttavia, verrà intesa correttamente solo quando la propensione a conoscere sarà stata individuata come causa prima del procedere umano.
Infatti, andare oltre la propria condizione è una pulsione che sorge dal desiderio di comprendere le circostanze e le occasioni del proprio esistere. Di modo che essere equivale a saggiare le proprie potenzialità verso destini non affatto chiari.
Esattamente come dice la Genesi: all’origine del lavoro e del sudore, c’è l’impulso intimo a conoscere “il bene e il male”, la necessità di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, espugnare uno stato divino.
Perciò, l’attività intellettuale precede l’attività pratica, anche quando poi se ne lascia pesantemente condizionare.
Nella nostra società, l’attività conoscitiva è diventata una serie di operosità professionali, per cui oggi più che in passato, è necessario chiedersi in che misura la poesia conservi un suo posto, un suo ruolo, la sua autenticità.
Dell’insieme dei “saperi” sappiamo competenze, metodi, risultati, ecc. E se la filosofia, la scienza e la religione hanno uno specifico campo, ci si deve chiedere: quale ambito appartiene alla poesia e cosa può insegnarci?
Tempo fa avrei sostenuto risolutamente che la poesia non insegna niente, ma dopo lunga e non sempre pacifica convivenza, sono consapevole che essa abbia un ben circoscritto codice epistemologico. Con gli anni, ho compreso che, rispetto al sapere inteso come sapere scientifico e filosofico, la poesia ha l’andamento tipico di ciò che una volta era definita “saggezza”.
La saggezza è diversa dal sapere. La generalità del concetto a cui viene sottomessa la realtà da parte della scienza e della filosofia è in qualche modo estranea alla poesia. L’umanità, la storia, la natura ecc., da cui il “sapere” di fatto deduce l’esistenza vissuta, sono alquanto fuori dai suoi interessi.
La poesia, al contrario, si lega alla specificità individuale del vivere. Si articola su vicende e condizioni che poco hanno a che vedere con i processi conoscitivi “universali” e, tutt’al più, giunge “induttivamente” ad alcuni risultati.
In essi c’è la valutazione della vita da parte di un uomo che dal particolare sviluppo della sua vicenda scruta il resto del mondo.
Se si parla di illusioni, sono le particolari illusioni che quell’uomo si fa sulle proprie condizioni, avendo appunto delle condizioni che hanno bisogno di illusioni.
Di fatto, la poesia lascia aperta la differenza tra vita ed esistenza, tra individuo e società, tra storia e biografia, tra racconto e vita vissuta.
L’individuo, soggetto-oggetto della poesia, è come un albero che vive nella foresta, ma sa di essere più della foresta. Da questo punto di osservazione vive l’ambiente. Ma il suo non è un distaccato osservare, giacché a lui, come all’albero, interessa certamente la vita limitrofa, ma specialmente l’incendio che, insieme alla foresta, potrebbe distruggerlo.
La poesia, quindi, non bada al fatto che un pensiero sia vero o
non vero, conforme o meno ai sistemi della ragione. Potrebbe
anche farlo. Preferisce piuttosto prendersi cura di quanto possa essere utile all’esistenza, essendo la sua opera finalizzata a non aumentare il deserto.
Essa guarda all’esistenza con l’affezione che può esserci per qualcosa che non si avrà più modo di avere e di ripetere, osserva quell’unicum inconsistente e impermanente che esperisce una forma di vita e lo fa con l’intima partecipazione a qualcosa di assente.
La ricerca dell’essenziale è perciò propria della riflessione poetica, che spesso l’uomo si concede nelle pause propiziatorie del sabato e dell’infinito leopardiani.
Infatti, il naufrago non si chiede lo scopo e il significato della vita mentre sta annegando. Se lo chiede quando porta la sua esistenza in salvo. E’ la condizione superata che gli reca conforto e gli fa apprezzare il suo rinato emergere al mondo.
Non si chiede le cause del naufragio, ma si rallegra di esserci ancora. Non pensa in modo filosofico o scientifico, ma pensa nel modo primigenio del pensare: quando si doveva decidere sul “che vale”, sul “perché”.
Così i pensieri della poesia sono pensieri “diversi”, pensieri che non vogliono raccontare la sistematicità del tutto, i panorami cosmologici della vita, ma i rapporti immediati che ognuno stabilisce con questo mutare incessante dell’essere e che rappresenta non il generale sistema del divenire, ma quella durata che non può essere saltata e che si situa obbligatoriamente tra la nascita e la morte.
In altre occasioni mi sono soffermato sull’esistenza intesa come continuità che non continua, avendo voluto intendere con questa immagine che l’individuo fa parte di una catena, in cui rappresenta imprescindibilmente un anello, che è solo quel concatenamento, anche se nella sua chiusa solitudine fa procedere e qualifica l’intera trama.
La poesia è dunque il senso della finitudine unita all’esercizio
di esistere tra gli altri. In questa consapevolezza, è saggezza
che prescrive saggezza.
Per questo accoglie tutto ciò che è amorevole, bello, discreto, piacevole e lo coniuga nelle forme che convengono al generale male di vivere.
La poesia è ciò che i greci raccontavano col mito di Sisifo, quel Sisifo che, consapevole della fine tragica di Prometeo, si conforma non più alla conoscenza di Minerva, ma alla quotidiana certezza in cui si esercita la fronesis, la calma rappresentazione del saper vivere.
In essa anche Dio non si colloca più in cielo, ma diventa compagno di una strada amara.
La poesia non condanna l’errore, ma, come testimone della vita, esprime la presa di posizione verso gli effetti che ogni azione comporta e se ne sta sull’uscio della porta del divenire, ammiccando a ciò che vale la pena compiere, dire e accettare.
E tale atteggiamento sapienziale non è dettato dalla presunzione di possedere la verità, piuttosto dall’ammaestramento dell’esperienza, fonte di ogni evidenza, che è sempre in itinere, restando ad ogni passo un sistema compiuto.
Ritengo, in conclusione, di dover rimarcare il fatto che del poeta sono amici gli ultimi, poiché essi sono quelli che credono poco alle chiacchiere, patendo antiche sofferenze e ascoltando volentieri parole di conforto, senza vietarsi l’esatto racconto della situazione in cui si trovano.
Per costoro il poeta è un profeta e ne intendono il linguaggio, quell’andare per armonia e per immagini proporzionate, per simboli, poiché gradiscono la misura inebriante che esprime l’armonia del verso.
Così la poesia o è popolare o non si dà ed è popolare quando non scade nel resoconto, nel prosaico interloquire.
Insieme alla musica, essa trasporta la mente oltre, là dove lo spirito abita il mondo delle sue visioni, trovandovi requie.
Ecco perché la vita deve bussare alla porta giusta per chiedere e ottenere.
Grimaldi, 31 luglio 2014
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