La polemica di Marx contro Stirner: MAX STIRNER, “L’Unico e la sua proprietà (1)”

MAX STIRNER

L’Unico e la sua proprietà (1)

(Compendio di R.P. SACCOMANNO)

 

 

Premessa
“Ha Dio intenti estranei al suo essere? avrebbe a cuore la causa della verità, se non fosse egli stesso la verità? (pp. 322)”.
Con quest’incisiva proposizione, Stirner fa immediatamente capire che l’”egoismo” divino incita l’individuo ad appropriarsi della sua realtà e vivere una vita in cui possibilità e necessità s’integrino nell’esigenza di rimanere sempre “proprietari di se stessi”.
La sua immediata riflessione parte dalla constatazione che l’individuo è sottomesso alla causa della Verità, dell’Umanità, di Dio; che l’Unico è votato, ad opera delle sue fantasticherie, alle aspirazioni dello Spirito; spinto a realizzare sterili idealità, che in concreto lo riducono ad un niente. Questo individuo estraniato, questo creatore del suo niente, deve ritornare artefice di sé, ritrovando in sé solamente la propria causa, né divina, né umana ma “unica”(pp. 323). Infatti, la propria è la causa più alta: un’astratta Umanità tormenta popoli ed individui per poi gettarli in tutta riconoscenza nel letamaio della storia; una “grande causa del popolo” concima con individui il proprio egoismo, proprio perché nessuno persegue i propri interessi “egoistici”, ossia l’unica causa per cui è necessario combattere.

 

Lo Spirito
In base a questi presupposti, Stirner afferma che la vita del singolo come del genere si sviluppa secondo tre fasi: del realismo, dell’idealismo, dell’egoismo.
Nell’infanzia, il bambino entra in contatto con “cose” che resistono ai suoi tentativi d’intromissione e spesso lotta per non soccombere. Mette alla prova le sue prime energie contro le forze naturali, cercando di scoprire i punti deboli della realtà che lo circonda.
Il giovane persegue, invece, un cammino “celeste”: assume un contegno spirituale superando la fase meccanicistica del nesso causa-effetto, tipico dell’età precedente. La famiglia rinasce come forza spirituale e razionale. “I pensieri diventano astratti, assoluti cioè nient’altro che pensieri, un cielo per se stesso” (pp. 327). La via dello spirito porta allo spirito santo che è Dio e alla svalutazione progressiva di se stessi e della realtà circostante. “Spirito” significa sacrificare la propria vita per un nonnulla; avere soltanto pensieri, ideali non tradotti in azione (pp. 328).
Solo nell’età matura l’individuo, ritrovandosi in carne e ossa, persegue un “interesse personale o egoistico, cioè un interesse che non riguarda unicamente lo spirito, ma un appagamento totale di tutto l’organismo (pp. 329)”. L’adulto è diventato più definito, fa di se stesso il centro di ogni cosa.
Lo stesso cammino si compie passando dagli antichi ai moderni. Per gli antichi conta il naturale e per i moderni lo spirituale. Per questa processualità, la verità antica diventa falsità e “Cristo è l’erede irriverente che sconsacrò il sabato dei padri per santificare la propria domenica” (pp. 321). Attraverso i sofisti e Socrate, gli antichi hanno svalutato la propria verità, spiritualizzando l’intelletto e il cuore, anche se gli scettici non li fecero asservire ad alcunché. Aperta la via dello spirito, al godimento della vita fu sostituita la vita dello spirito: gli antichi divennero moderni, cioè cristiani. La libertà spirituale additò principalmente il compito che il mondo deve essere “superato”.
Per i moderni lo spirito è ancora una verità. Così l’umanesimo corrisponde alla sofistica e la riforma a Socrate. Inizia il declino e la decomposizione (2).
La filosofia naturale è il massimo prodotto degli antichi, come la teologia per i moderni.
“Tutto il mondo si è spiritualizzato ed è diventato un fantasma enigmatico; perciò, non è meraviglia rinvenire in sé una ridda di fantasmi (pp. 350)”. Lo spirito si perpetua diventando pensiero, ma non il proprio pensiero, bensì “lo spirito delle cose, l’essenza di tutte le cose, ciò che in esse vi è di più intimo, la loro idea: è la verità stessa, la sacrosanta verità, la santità, l’eternità stessa”. Nasce un mondo di sacralità un mondo che nella sua realtà illusoria c’è completamente estraneo e proprio Cristo, spiritualizzando pienamente l’uomo, l’ha spinto a terrorizzarsi da se stesso ad auto proclamarsi “spettro”.
Che può esserci di più aberrante che credere in uno spirito immortale che ha assunto in noi un corpo provvisorio?
L’uomo moderno è un fissato e basta toccargli una qualsiasi delle sue idee fisse per determinare lo scoppio della sua sacra follia. E così la religione “non corre pericolo di essere lesa nella sua essenza intima “, perpetuandosi sotto altre spoglie: infatti non si elimina la trascendenza dotandola di un’indistruttibile immanenza. Religione vuol dire costrizione (religio) e là dove c’è costrizione, c’è sempre la disposizione a sottomettersi allo Spirito.
“La trama dell’odierna ipocrisia è tesa tra i confini di due regioni: non più robusta abbastanza per servire senza dubbi e debolezze la moralità, non ancora abbastanza priva di scrupoli per vivere completamente per l’egoismo (pp. 368)”. “Una condotta santa non si chiama più santa ma “ (pp. 373).
Ogni individuo continua ad essere forgiato come altri ritengono giusto, non come egli stesso può e quindi deve essere: “I giovani sono maggiorenni, quando sanno cinguettare come i vecchi (pp. 381)”.
Secondo Stirner, la conquista della libertà e di se stessi può avvenire solo incrementando la propria immoralità. La rivoluzione infatti è sempre qualcosa d’immorale a cui ci si può avviare solo cessando d’essere buoni (vecchi, alienati, nevrotici) e allora o si diventa cattivi (giovani, padroni del proprio destino), oppure non si è nessuno dei due (si continua la vita nell’ambivalenza) (pp. 369).
Ogni sacro, quando si fissa in noi dominandoci, ci rende impotenti e umili, nonostante derivi dalla nostra consacrazione.
L’uomo non sa sottrarsi al dominio delle idee, a quel mondo di progetti che sembrano suoi e invece sono un insieme di pregiudizi, di finzioni, che lo portano a sottomettersi ad una gerarchia che solo il suo “spirito” giustifica. Gli uomini “hanno concetti dell’amore, della bontà e simili che vorrebbero veder tradotti in realtà; vogliono fondare sulla terra un regno dell’amore, dove nessuno agisca più per egoismo. Eppure si sa che la via della perdizione è lastricata di buoni propositi” (pp. 389).
Il dominio dell’idea è pretismo ed è facile constatare come un Robespierre o Saint Just fossero preti da capo a piedi; e gli spiriti preteschi sono quelli che “si sacrificano”, ma che nello stesso tempo richiedono obbedienza alla loro moralità. Il dubbio cartesiano, la filosofia hegeliana, il protestantesimo, esprimono il perdurare del dualismo tra spirito e materia e, per essi, è sempre lo spirito a vincere, sotto forma di razionalità o di coscienza. “Se divori ciò che è sacro lo hai reso tua proprietà” (pp. 412).
L’individuo “reale” è l’egoista; pone se stesso al posto dello spirito; non si sdoppia in anima e corpo, ma cura “i suoi interessi spirituali e materiali a proprio piacere” (pp. 345). Vive per sé, non per il suo spirito; intende cessare la lotta contro se stesso, fra io e spirito, tra la spiritualità che soffre per i suoi residui di materialità.
“Lo spirito è libero unicamente in un mondo suo proprio: in questo, nel mondo terreno, è estraneo; infatti il mondo dello spirito è opera dello spirito stesso” (pp. 343). Lo spirito porta a Dio, man mano che aumenta in purezza. Lo spirito puro è sempre un al di là, un’entità suprema, cosicché chi rimane nel campo dello spirito non può realmente impossessarsi di Dio. L’immediata prova di ciò è in Feuerbach. Egli ci dice che Dio è il nostro essere trasferito nel cielo e che bisogna di nuovo fare nostro. Tuttavia il processo per cui abbiamo esiliato lo spirito dalla terra per farne Dio, conferma la sua estraneità alla realtà dell’uomo: “Proprio perché noi siamo lo spirito che abita in noi, fummo costretti a collocarlo fuori di noi … Che guadagniamo dunque se collochiamo in noi il divino che era fuori di noi?” (pp. 347). “Come si può sperare di allontanare gli uomini da Dio se si lascia loro il divino?” (pp. 374).
L’io non è né Dio, né l’Uomo, né alcun Ente Supremo.

 

Il potere borghese
La storia odierna è la storia della borghesia “che è l’erede delle classi privilegiate. In effetti i diritti dei baroni, che furono loro tolti come usurpazioni, non fecero che passare alla borghesia: nelle mani della nazione, i privilegi cessarono d’essere tali per divenire diritti, dello stato” (pp. 416). Lo stato diventa un tutto, “il vero uomo”, e il valore del singolo consiste nell’essere un cittadino (pp. 414). La lotta contro le corporazioni ha portato la borghesia ad essere l’unica classe con tendenza a generalizzarsi: “proprietaria” dei destini e della libertà; forte di un’oggettiva razionalità di cui Goethe ed Hegel sono l’uno il poeta, l’altro il filosofo.
Il liberalismo (3) è la sua dottrina politica per cui la libertà politica è dipendenza dallo stato e dalle sue leggi, indica il rapporto diretto tra cittadino e lo stato, così come parallelamente il protestantesimo tra religione e Dio.
“La libertà individuale sulla quale veglia geloso il liberalismo borghese” consiste nel far sì che una persona non dipenda da un’altra, ma all’interno di un preciso ordinamento. La borghesia “vuole un padrone impersonale” (4), garantisce la libertà espressa dalla legalità, richiede obbedienza allo Stato. Lo stato è lo “status” della borghesia, per cui se venisse spezzato, questa temerebbe di perdere tutto. “Esso protegge l’uomo non in base al suo lavoro, ma in base alla sua obbedienza” (pp. 429), che è soggezione legale al capitalismo e fa di tutto l’apparato statale la macchina al servizio dello sfruttamento. “Il lavoro viene pagato male e il maggior guadagno lo trae il capitalista… il lavoro non è riconosciuto secondo il suo valore: è una preda da guerra degli abbienti, dei nemici”. (pp. 430).
Il pericolo per la borghesia nasce dalle condizioni stesse che essa determina. Il “pericoloso proletariato” è contro la sua morale. Né può essere diversamente, dal momento che ai proletari manca il “diritto di domicilio, la solidità del commercio, una vita sicura e rispettabile, un reddito stabile e così via: costoro non hanno niente da perdere quindi nulla da rischiare”. Sono chiamati “vagabondi”.
Inoltre, tra di loro, “vi sono vagabondi dello spirito, per i quali risulta troppo stretto l’antico domicilio dei padri: invece di tenersi nei limiti di un modo di pensare moderato e di accettarlo come verità intoccabile, esercitano la loro critica irriverente e il loro sfrenato scetticismo”.
“Fortemente il borghese si sente turbato nel suo godimento dalla povertà smaniosa d’innovazioni e scontenta, da questi poveri che non se ne stanno più tranquilli e pazienti, ma cominciano a far stravaganze, a diventare irrequieti” (pp. 428).

 

Il potere comunista
Tra liberalismo e comunismo, (detto anche liberalismo sociale), c’è continuità. Per il liberalismo, le persone sono uguali, ma non altrettanto la proprietà e mentre i liberali affidano allo stato la tutela di quest’uguaglianza, i socialisti della società “l’unica entità che possiede”. È eliminata, quindi, la proprietà personale e “la proprietà diventata impersonale, appartiene alla società”.
Una società comunista, così progettata, sarà una società di pezzenti: lo “straccione” potrebbe essere un titolo onorifico come lo fu “cittadino” per la borghesia. “Al singolo non si lascerà né comando né proprietà; quello sarà dello stato, questa della società” (pp. 432).
Col comunismo, al posto dell’agiatezza isolata subentra il benessere generale. L’uguaglianza per il comunismo consiste nell’essere l’uno per l’altro, nell’essere ognuno un lavoratore. Si ha fiducia che ognuno, provvedendo ai bisogni degli altri, soddisfi contemporaneamente i propri. “La condizione di lavoratori e dignità ed uguaglianza” (pp. 434). Il lavoro produce valore e questo si manifesta per la sua utilità collettiva. “Che il comunista veda nell’individuo l’uomo, il fratello, e solo il lato domenicale del comunismo. Nei giorni lavorativi egli non lo considera affatto quale uomo puro e semplice, ma quale lavoratore umano o uomo lavoratore” (pp. 436).
Superato il principio della fortuna e della concorrenza, l’individuo è convinto che l’essenziale in lui è il lavoratore; si sottomette ad una società di operai, lavora sempre in modo alienato (pp. 434). “Si resta fermi nel voler servire un supremo dispensatore d’ogni bene: la società” (pp. 431).
“Nessuno si rende conto che la società non è un io che possa dare, conferire e concedere, ma uno strumento, un mezzo da cui possiamo trarre vantaggio: che non ci sono doveri sociali, ma esclusivamente interessi che la società deve favorire” (pp. 438); che essa non è un “corpo”, ma gli individui sono tanti corpi e precisamente il suo corpo (pp. 431).

 

Il potere umano
Il liberalismo umano è l’ultima perfezione del liberalismo. Disprezza tanto la coscienza borghese che quell’operaia: s’appella ad un’umanità “critica”. Combatte l’egoismo, che è nel lavoratore come nel borghese, invitando tutti ad abbracciare “un interesse puramente umano”.
Il proletariato pretende che tutti si sottopongano a lavoro pesante, rendendosi conto che l’ozio va a favore dell’egoista come prima il profitto per il capitalista. Perciò, il liberalismo umano vuole che l’uomo diventi padrone dell’egoista. Deve essere negato tutto ciò che assume il carattere di particolarità o che porti il carattere di privato. Incoraggia un lavoro non egoistico, ma per l’umanità e il suo progresso, tutto finalizzato ad “una fede universalmente umana”.
Si vede chiaramente che tutte queste presupposizioni dell’”umanitario” sono frutto di un sognatore esaltato, un nuovo tipo di religioso, che nel suo disinteresse direbbe con tutta tranquillità: fiat libertas pereat mundus. Gli sfugge quanto egoismo si nasconde in questo perseguire un interesse celeste. Non si entusiasma per la “sua” idea, per la “sua” idea di libertà?
Il fatto che un’attività, una conquista, un lavoro possano essere utili ad altri, ai posteri, non toglie il carattere egoistico di tutte queste azioni ed è snaturare l’individuo costringerlo ad agire senza un bisogno da soddisfare. Rispetto agli altri, infatti, non si distingue per essere uomo, ma perché è un uomo “unico”.
“Così, mentre il liberalismo politico rende senza padroni per fare del padrone uno spettro (la legge, lo stato) e il liberalismo socialista elimina l’ineguaglianza del possesso, affidando la proprietà al fantasma della società, il liberalismo umano rende senza Dio, atei, ma fa dell’uomo un sublime al di là”.
“Risorgendo il padrone come stato, così il suo servo riappare come suddito; diventando il possesso-proprietà della società, si ripresenta la preoccupazione sotto forma di lavoro e poiché Dio si riforma come uomo, sorge una nuova fede, la fede dell’umanità o libertà” (pp. 457).
Sono tutti progetti in cui tutto l’esistente sembra essere travolto, mentre subdolamente si ripresenta sotto altre forme, immutato o forse più dannoso.

 

La libertà
Alla libertà non anela solo lo spirito, ma tutto il corpo, in ogni momento. La libertà non riguarda la propria spiritualità, ma la propria “unicità”:
“Essere liberi da qualcosa significa esserne privi. Ma non si deve semplicemente esser libero, cioè privo, ma anche possedere ciò che si vuole; essere non solo libero, ma anche proprietario” (pp. 466).
Tutto il mondo desidera la libertà; tuttavia, non si riesce a mettersi d’accordo da che cosa gli uomini devono essere liberati. “In breve non si sente altro che il cozzar di spade dei discordi sognatori della libertà: l’impulso verso una determinata libertà finisce sempre con l’intenzione di un nuovo dominio” (pp. 469).
La libertà rimane sempre illusoria e questo fino a quando non si troverà “il coraggio di fare di se stessi veramente ed interamente il centro e il punto essenziale di ogni cosa”. Bisogna dar retta non ai sogni, ai pensieri, alla gente, ma a ciò che ad ognuno “piacerebbe dire e decidere”. La libertà e agire per amore di se stessi.
“Solo l’abitudine al modo di pensare religioso ha imprigionato a tal punto il nostro spirito che noi, di fronte a noi stessi, nella nostra nudità e naturalezza, ci spaventiamo”. “Pensiamo di essere demoni nati” (pp. 471). Al contrario, l’individuo “e il centro e il principio di ogni cosa, per cui deve ubbidire più a se stesso che agli uomini” (pp. 473).
“Come uno e, così si rivela e si comporta nei confronti degli uomini”, per cui “la società non può rinnovarsi finché coloro che formano la sua spina dorsale restano quelli di prima” (pp. 517).
La libertà del popolo non è la libertà del singolo: è il singolo non il popolo che può diventare maggiorenne. “Un popolo può esultare, può vincere, mentre l’individuo muore di fame o soccombe. Un popolo non può essere libero se non a spese del singolo”. Il popolo di Atene nel periodo di maggiore libertà creò l’ostracismo, bandì gli atei, diede la cicuta a Socrate. La tanta decantata virtù di costui è solo stoltezza, giacche concesse agli ateniesi il diritto di condannarlo; si riconobbe piccolo di fronte alla maestà del popolo, dimostrando tutta la sua debolezza nel non voler fuggire.
“Come si può essere liberi se si è vincolati con un giuramento ad una costituzione, ad una legge, se ci si consacra anima e corpo al proprio popolo?”. “Tutto ciò che è sacro è un legame, un vincolo” (pp. 522). La storia universale dimostra che nessun vincolo è rimasto finora intatto, eppure ci sono persone che si accaniscono a dimostrare che “l’uomo ha bisogno di legami sacri, lui che è il nemico mortale di ogni legame”. “Il tramonto dei popoli e dell’umanità sarà per l’Unico un invito all’ascesa” (pp. 523).
“Tutto il nostro modo di fare è egoismo non confessato, clandestino, mascherato, nascosto” (pp. 474). Questo nascondersi, rinnegarsi, è solo opera di rassegnazione. “La propria libertà diventa perfetta solo quando è la propria forza” (pp. 476).
Quando ci viene concessa qualche libertà, ci viene data solo quella libertà che noi possiamo prenderci e ci viene data affinché non venga conquistata direttamente. La libertà vera è quella che si “prende”, non quella che viene concessa. Qui sta la differenza tra autoliberazione ed emancipazione.
Solo un io che appartenga a se stesso può prendersi ciò che si riferisce al suo interesse, non attribuendo a nulla un valore assoluto, ma cercando ogni valore in rapporto al proprio io. La libertà dello schiavo è, dunque, un continuo calcolo egoistico. Anche la sua apparente rassegnazione (pp. 467).

 

Il diritto
“Il diritto è lo spirito della società. Se la società ha una volontà, questa volontà è per l’appunto il diritto. Ogni diritto vigente è, pertanto, un diritto estraneo. Infatti, può il tribunale di un sultano giudicare diversamente dalle norme di giustizia imposte dal sultano?” (pp. 494).
Nei tribunali l’individuo ricerca il diritto del padrone, non il “suo” diritto. Tuttavia “nessun altro giudice all’in fuori di se stesso può giudicare se si ha ragione oppure no”. Gli altri possono rilevarne la concordanza. Al “diritto di tutti” proposto dai rivoluzionari, l’Unico risponde: “non lo difenderò come un diritto di tutti, ma come mio diritto” e ognuno faccia altrettanto.
Anche una società alla Weitling si basa su un diritto estraneo. Un’assemblea popolare determina anch’essa una repressione della volontà, giacché quando non impone la sua volontà generale, di fatto richiede una “stabilità” della volontà individuale, facendone una tiranna. Il popolo, a sua volta, è quasi sempre imbevuto fino all’osso di principi polizieschi.
Bisogna andare al di là del diritto e delle fonti religiose da cui deriva. “Ognuno ha il diritto di essere ciò che ha il potere di essere” (pp. 497). “Io non sono autorizzato a fare ciò che non faccio con animo libero, cioè a cui io stesso non mi autorizzo”. “Non richiedo nessun diritto, perciò non ho neppure bisogno di riconoscerne alcuno. Ciò che riesco a procurarmi con la forza, me lo procuro e su ciò che non sono in grado di ottenere non ho alcun diritto. Io possiedo unicamente per il mio solo potere”.
Quello che è giusto per l’Unico, è giusto. Gli altri, se la pensano diversamente devono difendersi. E poiché tutti i diritti sono spesso ricondotti alla natura, anche la natura deve essere respinta come fonte di legittimazione: solo la propria azione può autorizzare! Non si sa che il vero io non può fare a meno di essere un “delinquente”, che il “crimine” è la sua vita? “La colpa costituisce il valore di un uomo” (pp. 509).
Il diritto e la forza, la ragione e la forza, altrimenti si finisce sempre “per stringere i pugni in tasca”.
La nostra debolezza non consiste nel fatto che siamo in contrasto con gli altri, ma nel fatto che non lo siamo completamente. Il conflitto sparisce nella perfetta separazione e unicità.

 

Il “partito” dell’Unico
L’isolamento e la solitudine non sono una condizione originaria dell’uomo, il quale è naturalmente (pp. 612) un essere alla ricerca di relazioni. Questa relazione e associazione è un unirsi ed un dividersi incessantemente che solo degenerando può cristallizzarsi in una “società”. La società è, per contrasto, un insieme di limiti, di soggezione, un’entità a sé stante con un suo potere.
Ogni associazione è certamente una limitazione della libertà, ma è vero che una liberà assoluta e contronatura, è un’aspirazione cristiana.
L’associazione e un mio prodotto “una mia creatura non sacra”, non un potere spirituale al di sopra del mio spirito. Lo stato, la società sono, al contrario, nemici dell’individualità, con un “loro” spirito, che opprime con la legge e una richiesta continua di umiltà e soggezione.
Nell’associazione l’individualità non è minacciata; la società esiste, invece, per rassegnazione, per la rinuncia a se stessi.
“I bisogni umani e generali possono venir soddisfatti dalla società: per i “bisogni unici”, individuali solo l’Unico deve cercare una soddisfazione” (pp. 580).
La legittima soddisfazione si avrà quando tutti gli associati vi baderanno senza lasciare la soluzione a corporazioni e ad istituzioni varie. “Il pane, ad esempio, è necessario a tutti gli abitanti della città, perciò potrebbero facilmente accordarsi per costruire una panetteria pubblica. Invece lasciano la fornitura del fabbisogno ai panettieri, che si fanno concorrenza. E così è per la carne, il vino ecc. Abolire la concorrenza non vuol dire favorire la corporazione. La differenza sta in questo: nella corporazione l’arte del fornaio e così via è cosa che concerne gli appartenenti alla corporazione; nella concorrenza, la cosa riguarda chiunque voglia partecipare alla gara; nell’’associazione la cosa riguarda coloro che hanno bisogno di pane, cioè tutti gli associati. Se io non mi preoccupo delle cose che “mi” interessano, devo accontentarmi di ciò che gli altri si degnano di concedermi” (pp. 582).
“Non si possono certo sollevare obiezioni contro il fatto di associarsi; ma bisogna con maggior forza opporsi ad ogni rinnovamento dell’antica cura, del principio educativo di voler fare di noi qualche cosa” (pp. 549).
“All’egoista non sta a cuore il bene di questa società umana, non le sacrifica nulla, la sfrutta solamente” (pp. 487) e il migliore sfruttamento è annientarla, sostituendola con un’associazione di egoisti.
L’unico non compie mai qualcosa d’umano in abstracto, ma sempre qualcosa d’individuale, di originale. “La specie non è nulla, e, se il singolo si solleva al di sopra dei limiti della sua individualità, questo avviene proprio perché non rimane ciò che è; altrimenti sarebbe finito, morto” (pp. 490).
“Per lo stato è inevitabilmente necessario che nessuno abbia una volontà propria; se qualcuno l’avesse dovrebbe escluderlo (rinchiuderlo, bandirlo, ecc.); se l’avessero tutti, si perverrebbe all’abolizione dello stato, il quale se esiste per la mancanza di volontà degli altri, è un prodotto mal riuscito di questi altri” (pp. 502). Che il despota sia uno solo o siano molti, o che i padroni siano tutti, laddove c’è stato è sempre presente il dispotismo.
“Le nostre società e i nostri stati esistono senza che siamo noi ad erigerli, sono uniti senza la nostra unione, sono predestinati e hanno una propria esistenza, propria ed indipendente; sono l’inesplicabile realtà esistente” (pp. 530). Questa esistenza indipendente dello stato, fa sì che imponga una sua cultura, una sua educazione, una sua legge, una sua proprietà, un insieme di valori sacri in cui si fa consistere la civiltà. Con gli idoli, con dio, con lo stato si è trovati o creati o avallati degli istituti che hanno scomposto l’Io in tanti io fittizi facendone un Io immaginario, un fantasma.
“Il singolo è unico e non membro di un partito: il partito è qualcosa a cui partecipare, non di cui far parte”(pp. 544).
“La società vagheggiata dal comunismo sembra essere la più vicina all’associazione”(pp. 615). Ma anch’essa come la società finisce per costruire un astratto “vero bene”, un bene di tutti, sempre coercitivo dell’individualità.
“Non si chieda alla gente di sacrificare il suo bene particolare per quello generale, poiché con quest’esigenza cristiana non si combina niente”. Bisogna che ognuno si ritrovi nell’associazione sapendo che sacrifica una parte di libertà non per il bene di tutti, ma per il suo bene privato. La società è un prodotto religioso e si estirperà la religione “solo quando si sarà resa antiquata la società e ciò che da essa deriva”. “Non miriamo alla comunità, ma all’unilateralità”(pp. 517). Nessuno è mio pari, è un “altro” individuo ed egli può unirsi a me in mero rapporto di reciprocità: quello che farai a me, lo farò a te. “Nessuno è per me una persona degna di rispetto, neppure il prossimo, ma ciascuno è come ogni altro essere, esclusivamente un oggetto, per il quale ho simpatia oppure no, un soggetto interessante o non interessante, un oggetto utilizzabile o inutilizzabile” (pp. 618).
Ogni unione con “tale oggetto” deve essere fonte d’aumento della propria forza con cui si può ottenere più di quanto si sarebbe ottenuto da soli.
“Sopra la porta del nostro tempo non sta il famoso detto apollineo:, ma “ (pp. 621). Così fece Cristo, non demagogo né rivoluzionario, ma ribelle, “uno che sollevò se stesso”.
In conclusione, “nell’associazionismo tu impegni tutto il tuo potere, la tua capacità e ti fai valere, nella società vieni adoperato con la tua capacità lavorativa; alla società sei debitore di quello che hai, sei in obbligo, sei pieno di obblighi sociali; l’associazione la sfrutti e l’abbandoni, senza obblighi di fedeltà, quando sai di non poterne più trarre alcun utile” (pp. 619).
I mezzi per distruggere questa società vanno visti secondo la distinzione fondamentale ossia la differenza tra rivoluzione e ribellione. L’una è un’azione politica e sociale, l’altra non ha riguardi verso le istituzioni derivando da un malcontento interiore degli uomini. “La rivoluzione mira a nuove istituzioni, la ribellione conduce a non lasciarsi più governare, ma a governarsi da soli”, sollevandosi per spinte di puro egoismo. “non la rivoluzione ma un delitto potente senza riguardi, spudorato, senza coscienza, superbo” (pp. 548).

 

La Proprietà
Cos’è la proprietà? Nel senso borghese rappresenta una cosa sacra; in senso egoistico è tutto l’opposto.
“Davanti alla tua e alla vostra proprietà io non indietreggio, ma la considero sempre come mia proprietà, in cui non ho bisogno di rispettare nulla. Avete solo da fare altrettanto con la mia proprietà” (pp. 554).
Proprietari non sono né dio né l’uomo (l’umanità), ma il singolo. I comunisti, in questo, non sono che dei religiosi che continuano a vivere per l’astrattezza e non per il reale. Il pauperismo si può eliminare unicamente quando il singolo stabilirà da sé il suo proprio valore. Non deve mai privarsi di ciò che reputa necessario; sempre di là da ogni azione mediata, per non ricadere nella propria estraniazione. Non la comunità, ma l’individuo deve decidere quanto voglia possedere e appropriarsene senza spettare alcuna autorizzazione. L’individuo è proprietario di una proprietà non sacra: La proprietà non va soppressa, ma strappata e in ciò è la dimostrazione che la riconosciamo egoisticamente necessaria.
Il capitale appartiene allo Stato e all’industriale come feudo: lo stato garantisce la mercificazione e “l’uguaglianza delle cose” permette la concorrenza e la concorrenza di cose permette l’uguaglianza. Non bisogna, allora, dimostrare la propria capacità lavorativa a parità di mezzi (socialismo), ma superare l’impotenza che fa degli altri dei possessori e di noi nullatenenti (pp. 570).
Ciò che tu puoi fare costituisce un tuo potere. L’egoista non tollera la divisione dei frutti del lavoro, poiché non si considera una parte, bensì più che una parte: desidera godere dei vantaggi che può ottenere senza spartizione.
“Se a me sta a cuore la tua persona, tu mi ripaghi già col semplice fatto di esistere”; se mi serve qualche tua qualità la compro. Se il denaro garantisce attualmente il possesso, c’è qualcosa di più per chi ne è privo: la forza. Si paga col proprio potere, perciò bisogna accrescerlo.
La causa della povertà, d’altra parte, è tanto nei ricchi che nei poveri. Né è pensabile che i ricchi sopprimano se stessi, solo perché questa soppressione interessa indubbiamente i poveri. Bisogna, allora, prefiggersi questo compito: che non il possesso rende felici, bensì l’agiatezza, il perdere tempo piuttosto che guadagnarne, lavorando solo il tempo indispensabile.

 

La vita
La vita non va soltanto vissuta, ma goduta, “consumandola come una candela che si usa bruciandola”. “Nella concezione antica io cammino verso me stesso, in quella moderna muovo da me stesso come punto di partenza: nella prima anelo a me stesso, nella seconda mi posseggo e dispongo di me stesso come si dispone di una qualsiasi proprietà: godo me stesso secondo il mio piacere. Non mi affanno più per la vita, ma la consumo” (pp. 627)
La vita non ha nessuna missione o vocazione precostituita. Ciascuno diventa ciò che può diventare. Ognuno manifesterà la propria natura, senza sviarla, senza legarla a nessuna distrazione: Assegnarsi compiti che negano il proprio egoismo, affibbiarsi una missione con cui strumentalizzare il corso naturale delle proprie forze, significa sfuggire a se stessi. Bisogna agire, vivere secondo la propria azione naturale. Cercare di vivere una propria essenza significa sdoppiarsi, fare di se stessi il punto d’arrivo e non il punto di partenza come occorre in un sano vivere egoistico.
“Voglio essere ed avere tutto ciò che posso essere ed avere”. L’individuo è qualcosa di incomparabilmente unico: “la mia carne non è la carne di nessuno”. “Io sono la mia specie, sono senza norma, senza legge, senza modelli e simili” (pp. 490). “I rapporti basati sull’essenza sono rapporti con un fantasma, con l’astratto, non con una cosa concreta”. Sono rapporti in funzione dell’amore, cioè di un’astrazione, un’idea fissa, un comandamento. Amore legittimo è quello appartenente al singolo e che si riferisce al suo egoismo: solo in questo modo c’è attività concreta e soddisfazione. “Anch’io amo gli uomini, ma non li amo per comandamento, ma perché l’amore mi fa felice”. In sostanza tutto si riferisce ad un mio amore, ad un mio dispiacere. C’è forse qualcuno che abbia diritto ad essere amato da me? L’amore egoistico non è quello disinteressato mistico e romantico. “Cieco e folle diventa l’amore (e così ogni altro sentimento) quando, diventando una necessità, si sottrae al mio potere”. “L’amore dell’egoista sgorga dall’egoismo e sfocia ancora nell’egoismo” (pp. 600). Nulla gli è sacro (pp. 492).
Gli uomini non devono essere più di quanto possono essere. Quello che non sono significa che non possono esserlo. “Possibilità e realtà coincidono sempre. Nulla si può che non si faccia, come nulla si fa che non si possa “ (pp. 635). “Nessuna pecora, nessun cane si sforza di diventare una vera pecora, un vero cane; a nessun animale il proprio appare come un compito, vale a dire come un concetto da realizzare. L’animale realizza se stesso vivendo, cioè, consumandosi, dissolvendosi. Non desidera essere o diventare qualcosa di diverso da ciò che è” (pp. 637).
L’animale fa molte cose contrarie alla sua natura, ma solo se è ammaestrato: l’uomo fa lo stesso quando insegue un suo ideale, una sua destinazione, senza lasciarsi andare, alla pari del tempo che tutto dissolve, al presente.
L’unicità non ha un mondo di pensieri. “Il pensiero assoluto è quel pensiero che dimentica di essere il mio pensiero e dimentica che sono io a pensare e che esso è unicamente per mio tramite. Esso è solo la mia opinione che ad ogni istante posso modificare, cioè, annientare, riprendere in me e distruggere” (pp. 645). Non esiste una verità né un diritto né la libertà né l’umanità ecc., che abbia consistenza di fronte al singolo e a cui debba sottomettersi, “Sono parole, nient’altro che parole” (pp. 652).
Soggiacere ad un’idea dominante è proprio dei preti, del cristiano. Coloro che pensano, coloro che hanno diviso la realtà dall’idealità e viceversa, il singolo e la sua missione, domineranno il modo “finché dura l’età dei preti e dei maestri”. “Il cristiano può fare riforme e rivoluzioni senza fine, può distruggere concetti dominanti da secoli: ma aspirerà ad un nuovo principio o ad un nuovo padrone, tornerà sempre ad istituire una verità superiore o più profonda, ricreerà sempre un culto; di nuovo proclamerà uno spirito destinato a dominare, stabilirà una legge per tutti” (pp. 653).
“Tutte le verità che stanno sotto di me mi sono care; una verità al di sopra di me , una verità in base alla quale io sia obbligato a dirigermi, io non la riconosco. Per me non esiste alcuna verità, poiché al di sopra di me non c’è nulla “ (pp. 660).
Si crede di aver raggiunto una soluzione dicendo che ogni epoca ha la sua verità, senza capire che si è imposta ad ogni epoca una verità e per giunta ritenendola assoluta. Al contrario ogni epoca ha avuto una sua idea fissa e si è rinforzata “la pazzia facendole indossare un abito moderno”.
Siamo tutti perfetti e non c’è egoismo peccaminoso.
“Se pongo in me, l’Unico, la mia causa essa poggia sul creatore caduco e mortale che consuma se stesso e posso dire: Io ha fondato la mia causa sul nulla”.

 

 

 

Note

1 – L’unico e la sua proprietà. Titolo originale Der Einzige und sein Eigentum; l’edizione originale uscì a Lipsia presso l’editore Otto Wigand, nel1844, dicembre.
Ho usufruito della traduzione integrale dell’opera inserita nel volume Gli anarchici a cura di G.M. Bravo volume primo, UTET febbraio 1971; Traduzione di Luciana Primiani Zacchini. Le pagine citate si riferiscono a questo volume.

2 – Più oltre Stirner aggiunge quest’altra suddivisione: nella storia universale “la negritudine rappresenta l’età antica l’epoca della dipendenza da idee, l’epoca della dipendenza dalle cose; il mongolesimo l’epoca della dipendenza da idee, l’epoca cristiana. Al futuro sono riservate le parole: io sono il possessore del mondo delle cose, io sono possessore del mondo dello spirito” (pp. 382).
Gli uomini della stirpe caucasica hanno dato l’assalto al cielo creato dalla razza mongolica, ma nella ricerca di un qualcosa di meglio (riformare) si sono posti sulla scia spiritualistica, celeste: assaltano un cielo per farne un altro (pag. 385).

3 – “Che l’uomo debba essere libero lo credono tutti perciò sono tutti liberali. Tutto s’impernia sulla questione: quanto libero dev’essere l’uomo? Come fare per non lasciare libero insieme all’uomo anche il non-uomo” (pag. 453). In base a ciò Stirner distingue tre tipi di liberalismo in cui è inserita la sua epoca: il liberalismo umano (i fratelli Bauer).

“Il non-uomo, il singolo, l’egoismo è il nemico mortale del liberalismo, come dio e il diavolo” (pp. 453).

4 – La credenza (del dominante e del dominato, borghesia e proletari) che il denaro governi il mondo è la nota fondamentale dell’epoca borghese: il denaro conferisce valore e il fatto che ci credano anche gli sfruttati garantisce l’esistenza della borghesia. pp. 428)

 

25-02-2011

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *