I Langobardi: Alboino e il regno langobardo d’Italia

Alboino e il regno langobardo d’Italia

 

  1. 1. Alboino, capo dei Langobardi, secondo Re della dinastia dei Gausi, riunì la sua gente e gli alleati, a prevalenza sassoni, il primo aprile del 568.

Il giorno dopo, lunedì di Pasqua, data canonica del battesimo ariano, la moltitudine s’immerse nel lago Balaton e, compiuto il rito propiziatorio, abbandonò la Pannonia per l’Italia.

Una lunga fila di carri stracolmi d’ogni genere di masserizie procedeva lento e donne e bambini, vecchi e malati emergevano dalle vettovaglie. Seguivano “servi”, che si affannavano per le mandrie degli animali, indispensabili per la generale sopravvivenza e i branchi di cavalli che separavano una fara[1] dall’altra.

In questo pullulare di popolo, deciso a lasciarsi alle spalle ogni altra storia, stavano tanti uomini in armi e, tra essi, l’oligarchico gruppo degli arimanni, la “nobiltà” nata per combattere, in atteggiamento esaltato e vigoroso, onde Velleio Patercolo diceva dei langobardi che fossero “gente ancor più feroce della ferocia germanica[2].

Nessuno sembrava preoccuparsi delle soverchianti forze bizantine che, scendendo in Italia, intendevano annientare. Non era un fatto nuovo quello di affrontare avversari in condizioni d’inferiorità. Tacito l’aveva testimoniato affermando che “contrariamente agli altri, la pochezza di numero esalta i Langobardi. Circondati da numerosissimi e fortissimi popoli, non per sottomissione, ma, conquistandolo in combattimento, si creano rispetto[3].

Questo popolo in marcia non superava le 200 mila unità, di cui, un terzo, combattenti. I Bizantini erano, all’opposto, quelli che da pochi decenni avevano fatto risuonare il mito della renovatio imperii di Giustiniano e che da poco avevano sostenuta una lunga e vittoriosa guerra contro i Goti ed ora governavano con durezza una penisola di oltre sei milioni di abitanti.

Era propizio ai langobardi proprio il fatto che i bizantini fossero abbastanza impopolari, esosi e dissoluti; che fossero militarmente deboli per via della “lex augusta vi”, con cui era disciplinato un esercito di professione, munito di armi, prodotte e distribuite attraverso il monopolio di stato.[4]

È, dunque, esatto asserire che Alboino conducesse i suoi uomini verso un destino assolutamente incerto. Lo prova il patto che i Langobardi avevano stipulato con gli Avari, a cui avevano lasciate le terre del Norico e della Pannonia, secondo il quale, se l’impresa italica fosse fallita, essi avrebbero fatto ritorno e avrebbero ripreso i territori ceduti.

I Langobardi possedevano senz’altro una rinomata genialità militare, consistente in un meticoloso e ordinato procedere, strategicamente lento e scaglionato, probabilmente appreso durante la guerra greco-gotica al servizio di Narsete.

Il loro entusiasmo si fondava comunque sul possente proposito di fare dell’Italia una grande e unitaria nazione Langobarda, prima potenza nazionale in Europa.

Nessuno storico ha espresso dubbi sul carattere originale dell’invasione Langobarda. In precedenza, i popoli germanici, che si erano stabiliti in Italia, si erano mossi nel segno di Roma. Spesso erano stati spinti all’occupazione dell’opaco e fatiscente Impero d’Occidente, dallo stesso imperatore bizantino, a cui tutti avevano riconosciuto autorità e supremazia.[5]

Paolo Orosio testimonia che Ataulfo, successore di Alarico, era solito affermare che, possedendo forza e coraggio, avrebbe potuto cancellare il nome di Roma; che l’Impero romano sarebbe speditamente diventato gotico e, lui stesso, novello Cesare Augusto, monarca di una Romània diventata Gozia. Gli mancava però un popolo capace di adattarsi ad una legge e dunque preferiva trovare gloria tra i posteri, risollevando la potenza di Roma[6].

Per i Langobardi il mito di Roma era da tempo tramontato e l’Impero romano s’identificava con Bisanzio mentre, come gli italici, consideravano i bizantini un popolo invasore, una potenza straniera, da sostituire con una guerra ad oltranza.

Alboino non puntò, perciò, verso Roma, ma contro i più forti avamposti greco-romani.

 

  1. 2. L’Italia non era terra sconosciuta ai Langobardi. Audoin, il padre di Alboino, aveva guidato un contingente al servizio di Giustiniano, nella guerra greco-gotica, terminata nel 533 dopo diciotto anni di sanguinosi scontri.

Allora, venuti come mercenari, non avevano capito gli eventi né avevano mostrato alcun interesse per il progetto civile e sociale che consentì a Totìla (l’Immortale) di combattere così a lungo e con grande concorso di uomini. Estranea era per loro l’idea di una guerra “sociale”, cosa che capiranno negli anni a venire, nel frattempo morivano per il generale Narsete e per un primitivo istinto di razzia.

Procopio di Cesarea, che racconta quelle vicende, mette in evidenza l’inglorioso epilogo di tutta l’avventura. Narsete volle subito liberarsi dalla “ripugnante” presenza dei Langobardi, i quali, oltre al loro vivere indegno, nel loro procedere incendiavano tutti gli edifici, violentando le donne perfino nelle chiese dove si erano rifugiate. Diede loro ingente denaro e li rimandò nelle loro terre, affidando, a Valeriano e a suo nipote Damiano, l’incarico di scortarli fino al confine, per evitare altri spiacevoli incidenti[7].

 

  1. 3. Come tutti i popoli antichi, i Langobardi avevano un patrimonio mitico, tramandato oralmente di generazione in generazione.

Particolarmente celebrata era la saga dell’abbandono della Scandinavia, “vagina dei popoli germanici”, secondo l’espressione di Giordane[8]. Nella Scandinavia, abitata solo nella parte meridionale (e per questo ritenuta dagli antichi un’isola), si venne a creare una sovrappopolazione, che è poi la ragione della partenza e del costituirsi del popolo langobardo. Dice Paolo Diacono: “In Scandinavia erano così tanti popoli che non era più possibile stare insieme[9]. Per far fronte a questa sovrappopolazione fu deciso che le diverse tribù affidassero alla sorte il compito di determinare chi dovesse espatriare. Dei tre gruppi nei quali si divideva la moltitudine scandinava, toccò abbandonare le antiche dimore a Gambara e ai suoi figli. Essi “dopo aver salutato patria e parenti si misero a cercare una terra e un posto in cui stabilirsi[10].  Lasciando la Scandinavia, quella gens assunse il definitivo nome di Langobardi[11]. Da cosa origina questa denominazione?

La leggenda[12], afferma:

Esiste un’isola, detta Scadanan, che letteralmente significa nuocere, in cui convivono più popolazioni. Tra queste una minoranza era detta Winnili. Tra loro c’era una donna chiamata Gambara con due figli, Ybor e Agio. Essi dirigevano tale popolo. I capi vandali, ossia Ambri ed Assi, muovendo guerra imposero ai Winnili: “O ci versate i tributi, o vi preparate alla guerra e a combattere con noi”. A ciò Ybor e Agio insieme alla madre Gambara, risposero: “Meglio prepararci a combattere piuttosto che versare tributi ai vandali”. Allora i capi dei Vandali pregarono Godan (altrimenti detto Wotan e latinizzato Odino) di concedere loro la vittoria sui Winnili. Godan rispose: “Darò la vittoria a quelli che vedrò per primi al sorgere del sole”. Gambara e i figli invocarono Frea, moglie di Godan, di proteggere i Winnili ed ella consigliò che essi, al sorgere del sole, si facessero trovare con le loro mogli, le quali, sciolti i capelli, li acconciassero intorno al viso come una barba. Alla prima alba, Frea girò il letto su cui dormiva il marito e rivolgendolo ad Oriente, lo svegliò. Questi guardò e visti i Winnili con i capelli sciolti sul viso disse: “Chi sono queste lunghe barbe?” Frea rispose: “Come gli hai dato il nome, dagli anche la vittoria”. É, dunque, da quel tempo leggendario che i Winnili si dissero Langobardi.

Paolo Diacono, convinto che tale racconto giustificasse pienamente il nome, aggiunse che i Langobardi sono detti così anche perché non tagliano mai la lunga barba e che il nome è etimologicamente composto di lang che nella loro lingua significa lunga e bard che corrisponde a barba. Tra l’altro, langobardo era uno dei tanti soprannomi di Odino[13].

Il vescovo Isidoro di Siviglia (570 – 635), nelle sue Etimologie, conferma la leggenda[14].

Lasciata la Scandinavia, i Langobardi si stanziarono nel corso inferiore dell’Elba, nella landa del Luneburgo[15].

 

 

  1. 4. Pochi anni rima della decisione di invadere l’Italia, nel 565 era morto Giustiniano e con lui il sogno della renovatio imperii. Negli ultimi anni di vita, aveva visto crollare, pezzo dopo pezzo, quanto era costato anni di guerra, di sangue e di fiscalismo esasperato.

A quel tempo Alboino era giunto al potere con voto unanime. Aveva sposato, perseguendo una politica di alleanze, la cattolica Clotsuinda, figlia di Clotario I, re dei Franchi.

In questo stesso periodo l’arianesimo[16] era per i Langobardi la religione del popolo. Invano Nicesio da Treviri insisteva presso la regina, scrivendole: “Perché un uomo del valore di re Alboino, di tal fama da essere al di sopra di ogni cosa al mondo, non si converte e pare così lento nel cercare la via della salvezza?”. Clotsuinda uscì presto di scena, morendo dopo aver dato una figlia ad Alboino, cosicché i Franchi restarono un problema irrisolto.

Intanto i Longobardi nel 565 scendevano per la seconda volta in guerra contro i Gepidi, i quali alleatisi con l’Impero, nel gioco delle parti tanto caro a Bisanzio, avevano deciso d’attaccare i Langobardi per vendicare antiche sconfitte.

La campagna fu brevissima e terribile. Alboino, alleatosi a sua volta con gli Avari, nel 566 annientò definitivamente i Gepidi, ai quali gli infidi Bizantini non avevano prestato alcun aiuto.

Alboino incrudelì a tal punto da massacrare fino all’ultimo i combattenti. Racconta Paolo Diacono: “Uccise il re Cunimondo, gli tagliò il capo e del cranio si fece fare una coppa per bere” e finalmente ne sposò la figlia Rosmunda, da tempo desiderata[17].

 

 

  1. 5. Alboino, figlio di Audoin e Rodelinda, con tutta probabilità, salì al trono tra il 560 e il 565.

La successione dei re langobardi è estremamente travagliata. Uno dei più grandi re, Rotari, in premessa al suo Editto, dichiarò una sequenza di predecessori, di cui, con poche eccezioni, si sa storicamente poco.

Il primo re Agilmund regnò non meno di trentatré anni, succedendo, inverosimilmente, al mitico Aio, figlio di Gambara e morì intorno al 379, regnante l’imperatore Teodosio[18]. Dopo Agilmund, regnò Lamissio, vincitore dei Bulgari e poi Leth, da cui discesero una serie di re, di regine, di arimanni in grande onore presso la gente germanica: la dinastia dei Lethingi.

Figlio di Leth fu Hildehoc, seguito in linea dinastica da Geldheoc. Di costui si sa che regnò nel periodo di Odoacre, in una situazione di enorme tensione. É di questo periodo la campagna di Odoacre, contro i Rugi e la successiva occupazione dei territori degli sconfitti da parte dei Longobardi tra il 483 e il 491.

Ceffo, figlio di Godehoc, regnò pochissimo tempo e nello stesso 491, i Longobardi guidati dal re Tato, si trasferirono in Moravia, in difficile coesistenza con la popolazione preesistente degli Eruli, di cui alcuni dicono che divennero tributari. Tato liberò i Langobardi dal pericolo degli Eruli sconfiggendoli in un’imprecisata landa ungherese.

Dopo Tato, avvenne l’usurpazione di Waco, nipote di Tato. Di Waco è detto che fosse un grande monarca, mentre altrettanto non è stato detto di Waltari, suo figlio, ultimo re della dinastia dei Lethingi. Di Waltari, fin da tenera età si era preso cura e tutela Audoin, padre di Alboino. Secondo alcune malevole dicerie, Audoin, non volendo esercitare il compito di semplice reggente, avvelenò il giovane erede e fece in seguito ratificare dall’assemblea la conquista del trono.

Con questo presunto omicidio iniziò la dinastia dei Gausi.

 

 

 

  1. 6. Il lago Balaton è collegato allora ed oggi, da un’arteria romana, la via Postumia, a Kalce, ai piedi delle Alpi Giulie, con un percorso di poco superiore ai 150 Km.

Alboino guidò la sua gente fino a questo luogo in formazione compatta. Poi la più parte della gente puntò su Aidussina e Savogna, lungo l’Isonzo, per la via più breve, mentre Alboino seguiva la via Postumia, osservando la terra da conquistare dall’alto del passo del Vipacco, che da allora è detto “Monte del Re”[19].

Da questo procedere scaturì la conquista del limes Friuliano, divenuto il primo ducato Langobardo in Italia, con centro Forum Julii (l’odierna Cividale del Friuli). Duca divenne il nipote di Alboino, Gisulfo, il quale volle con sé i più stretti parenti che rappresentavano gran parte dei soldati scelti.

In seguito, Alboino distrusse Aquileia, il cui patriarca, con il tesoro degli abitanti, si rifugiò al seguito dell’esercito bizantino a Grado, che divenne Nuova Aquileia.

Cautelandosi alle spalle, marciò conquistando Coproipo e Ceneda (attuale Vittorio Veneto), che fu resa presidio o similmente ducato. Poi fu la volta di Treviso, il terzo ducato. Una certa resistenza incontrò a Padova, Monselice e Mantova, essendo la linea del Po strategicamente importantissima. Caddero poi Vicenza e Verona.

L’offensiva riprese a primavera con l’occupazione di Brescia e Bergamo e solo il 3 settembre del 569, data che lo stesso Alboino volle indicare come l’inizio del regno Langobardo in Italia, fu conquistata Milano. L’arcivescovo Onorato fuggì a Genova.

Erano passati diciassette mesi dalla partenza, un lungo periodo militarmente rischioso, se Alboino, marciando in ordine sparso non avesse fatta mancare ai bizantini ogni reale individuazione della sua forza bellica. Inoltre ebbe l’accortezza di far apparire la lenta avanzata come l’avvicinarsi di un uragano, devastante, inarrestabile e imprevedibile.

Milano cadde, già stremata dalla precedente guerra greco-gotica. Altrettanto facile fu la conquista di Torino e Asti, sede di nuovi ducati, a difesa degli infidi Franchi, pronti a vendersi ai Bizantini.

Poi fu la volta di Pavia (Ticinum) ed essa fu l’unica città a resistere per tre anni e questo fu il primo, vero episodio di guerra. La città era il punto nodale della resistenza bizantina, la loro più organizzata roccaforte che presiedeva tutta la navigazione del Po e dei suoi affluenti, congiungendo, come una specie di fronte precostituito, Ravenna, sede dell’Esarcato e la Liguria.

I Langobardi, mentre con parte dell’esercito assediavano Pavia, dilagarono contemporaneamente per la dorsale appenninica. Le città caddero una dopo l’altra e nel 572, lo stesso anno della caduta di Pavia, vennero anche gettate le basi di due ducati che diverranno famosi nella storia Langobarda: Spoleto e Benevento.

Con questa estrema conquista a sud, la situazione militare vedeva i Bizantini rinchiusi nelle roccaforti costiere, di fatto al servizio di ricchi profughi romani che precipitosamente avevano abbandonati i territori occupati, mentre il loro approvvigionamento dipendeva dalla flotta imperiale.

Dopo Pavia si determinò una situazione di stallo utile ad entrambi gli eserciti.

 

 

 

  1. 7. La guerra lampo di Alboino contro i Gepidi, antecedente l’invasione dell’Italia, fu l’ultimo atto di scontri tra i langobardi e gli altri popoli germanici. Prima, c’erano stati vari episodi di rilevanza tribale. Paolo Diacono narra di molte lotte accadute nel periodo in cui i Langobardi si sistemarono nella zona dell’Elba[20].

I Langobardi ebbero però il loro battesimo di guerra affrontando i Vandali[21], che li angariavano con continue razzie e andavano vanagloriosi per le ripetute vittorie contro i loro vicini. I Langobardi, ancora freschi dell’investitura di Odino, attaccarono battaglia e, “combattendo accanitamente per la gloria della libertà[22], distrussero gli avversari.

Dopo i Vandali fu la volta degli Assipitti nella Mauringia, anch’essi numerosissimi rispetto all’esiguo contingente Langobardo. La cronaca afferma che i Langobardi usavano l’astuzia di scendere in campo con “cinocefali”, uomini-cane, ossia guerrieri mostruosamente ornati di una testa di cane e di cui si era fatto sapere ad arte che bevessero sangue umano ed erano così feroci che non trovandolo erano pronti a bere il proprio.

Gli Assipitti furono dispersi e la guerra terminò con un duello che vide opposti un servo langobardo e il più forte del campo avversario, che fu ucciso e l’episodio rimase nell’epopea leggendaria, simile a quello di Davide e Golia.

Ma gli scontri nel senso vero del termine avvennero durante e dopo il regno di Agilmund, il primo re Langobardo, eventi che tra l’altro dimostrano che l’emigrazione scaglionata era definitivamente conclusa e che i Langobardi erano in grado di cimentarsi in conflitti più ampi, una volta che si erano fatte le ossa con le tribù nomadi dell’Elba e perfino con mitiche Amazzoni.

Ma questo salto di qualità è storicamente legato ad una sciagura. Lo dice espressamente Paolo Diacono: “Poiché la troppa sicurezza è madre di sciagure”, i Langobardi, vivendo tranquilli, notte tempo furono assaliti dai Bulgari, “che fecero gran strage, ferendone e uccidendone molti, infuriando tanto nell’accampamento che uccisero lo stesso re Agilmund, trascinando in schiavitù la sua unica figlia”.

È la scena di un tracollo che sembra irreversibile. Ma alla guida del popolo disorientato ed avvilito si pose Lamissio.[23] Questi si trovò a guidare un popolo così disorientato che, con poca accortezza, attaccò i nemici per rabbia e dolore. Fu costretto, anche per le soverchie forze avversarie, a indietreggiare precipitosamente. Riconoscendo la propria superficialità, il re esortò i suoi così: “Vi hanno sgozzato il re, rapita la regina, stanno per ammazzare i vostri cari e dunque? Meglio cadere in battaglia che, come vili schiavi, soggiacere allo scherno dei nemici[24] e diceva inoltre, che se avesse visto qualche schiavo combattere, subito gli avrebbe dato la libertà.

I Langobardi si rianimarono, attaccarono con ogni ardore i Bulgari, “sgominandoli con grande strage. Fecero gran preda delle spoglie dei nemici e da allora divennero molto più audaci, nell’affrontare le fatiche della guerra[25]“.

Comunque, oltre gli scontri con i Vandali e i Bulgari, oltre le risse di confine e gli incontri-scontri con i Romani, le vere guerre combattute dai Langobardi furono contro gli Eruli e contro i Gepidi.

 

 

 

8 -Della guerra contro Rodulfo, re degli Eruli, abbiamo due versioni completamente diverse. Paolo Diacono racconta che causa belli[26], fu l’uccisione del fratello del re Rodulfo, per opera della figlia del re langobardo Tato, donna simile a “ferocissima belva”, indignata per aver ricevuto scortesia da quell’uomo, inizialmente schernito per la bassa statura.

Totalmente diversa la versione di Procopio[27] che sottolinea la bestialità degli Eruli, già da lui prima descritta con efficacia[28]. Egli racconta che Rodulfo, oltraggiato senza ritegno dai suoi perché stava come un rammollito ed un effeminato, senza prospettare mai fatti d’armi, promosse, per reazione, una campagna contro i Langobardi, ai quali non poteva rinfacciare alcun torto.

Questi ultimi[29] mandarono diverse ambascerie con chiara volontà di pace. Dichiararono, tra l’altro, di essere disponibili a pagare tributi a piacimento[30]. Tenuti, già in questo periodo, in odore di cristianesimo, si prodigarono molto sebbene i legati fossero scacciati ogni volta malamente[31]. La guerra fu inevitabile.

L’esercito Langobardo, schierato in battaglia, fu coperto da una nube scura e densissima, mentre sugli Eruli si allargò un sereno smagliante. Gli Eruli si sentivano invincibili, forti anche della potenza numerica dei combattenti[32].

I fatti si svolsero contro ogni previsione. I Langobardi, guidati dal lethingo re Tato, sterminarono i nemici, uccisero Rodulfo e inseguirono i fuggitivi.

Pochi scamparono (Paolo Diacono dice “uccisi orribilmente”) e fu predato un immenso bottino che, di fatto, determinò l’irreversibile declino degli Eruli (anno 509).

La vittoria dei Langobardi fu salutata con entusiasmo dai Romani, se è vero che gli Eruli erano, per potenza e per numero, superiori a qualunque popolo e, concretamente, un serio pericolo per l’Impero.

 

 

 

  1. 9. La successiva guerra dei Langobardi contro i Gepidi è così narrata:

Ai Langobardi l’imperatore Giustiniano diede la città di Norico, le piazzeforti della Pannonia e molti altri paesi, nonché una gran quantità di ricchezze. In seguito a ciò, i Langobardi se ne andarono dal loro mondo avito e si stanziarono al di là dell’Istro, non molto lontano dai Gepidi. Anche loro fecero saccheggi fra le popolazioni dalmate ed illiriche, fino ai confini di Epidammo, e ridussero molti in schiavitù. Alcuni dei prigionieri riuscirono a fuggire e a tornare a casa, ma quei barbari andavano in giro nel territorio romano e, forti del fatto di essere “foederati”, quando riconoscevano qualcuno dei fuggitivi, se ne impadronivano, come se fossero loro schiavi scappati via; li strappavano alla famiglia e se li trascinavano a casa propria, senza incontrare opposizione alcuna[33].  La guerra contro i Gepidi, nella narrazione di Procopio assume l’inveterata precaria obiettività. La guerra era inevitabile, un po’ come tutte le precedenti, ma in questo caso c’era obiettivamente il fatto che il territorio non poteva soddisfare le esigenze, le più elementari, dei due popoli. È altrettanto presumibile che Giustiniano avesse voluto concretamente creare e alimentare il conflitto.

Ancora una volta, i Langobardi erano notevolmente inferiori di numero e perciò richiesero alleanza proprio all’imperatore.[34]

Certo è che Giustiniano, per puro calcolo,[35] concesse ai Langobardi diecimila cavalieri, decisivi per l’esito della guerra. I Gepidi non vennero da lui nemmeno ascoltati e la loro fine fu gradualmente, ma definitivamente segnata.

Paolo Diacono, per contro, nel trascrivere gli stessi avvenimenti, mette in risalto il valore del giovane Alboino, che uccise il figlio del re gepido in maniera così violenta da determinare lo sbandamento dell’esercito avversario.

Le ostilità cessarono con il solito copione: “I Langobardi inseguirono i nemici, facendone gran strage e uccidendone il maggior numero possibile, ritornarono a far preda delle spoglie dei morti”.

È dunque con questa preistoria che inizia l’invasione di Alboino in Italia[36].

 

 

 

  1. 10. Pavia, come detto, cadde nel 572. Caddero altre roccaforti bizantine. A Verona, dal palazzo che appartenne a Teodorico, Alboino intendeva governare quell’Italia che non molti anni prima papa Pelagio, con un’espressione efficace, aveva chiamato “Italia desolata” e che oggi molti storici del medio evo sono pronti a riconoscere “terra senza uomini e uomini senza terra”.

I Bizantini rinchiusi nelle roccaforti costiere, non erano passati al contrattacco, senza sfruttare l’occasione di Narsete che era in Italia, anche se in disgrazia[37].

Essi restavano padroni di Ravenna, sede dell’esarcato, di Ancona, Pesaro, Fano, Senigallia e Rimini, conosciute come “pentapoli”. Ai greci restava, inoltre, il ducato di Roma su cui da qualche tempo valeva l’autorità papale, nell’esercizio del duplice potere spirituale e temporale.

Alboino, dopo tre anni scarsi, poteva sentirsi soddisfatto delle conquiste territoriali. Nessuno avrebbe pensato che non gli rimanesse più tempo per concludere efficacemente l’impresa e che non potesse acquisire il titolo di primo re d’Italia o, per meglio dire, “langobardorum et romanorum”.

Ma la sua fine venne inaspettata e repentina, drammatica per il popolo langobardo.

Paolo Diacono ad essa dedicò le pagine più belle e sofferte della sua Historia, anche se abbastanza approssimative.

Alboino regnò in Italia per tre anni e sei mesi e fu poi ucciso per le trame della moglie. La causa della sua uccisione fu questa. Mentre sedeva a banchetto a Verona, allegro oltre il lecito, ordinò che alla regina fosse dato da bere del vino nella tazza che si era fatto fare col cranio di suo suocero, il re Cunimondo e la invitò a bere lietamente in compagnia del padre”.

Sicuramente questa causa è poco attendibile, dal momento che la tazza era da tempo usata da Alboino e pur non escludendo la provocazione, dovuta all’ubriachezza del re, l’incidente non si coniuga con gli eventi successivi, tacendo il fatto che Rosmunda per tanti mesi era stata “moglie” di Alboino, senza grandi rimpianti per la sorte del padre.

Ad ogni modo così prosegue il cronista: “Rosmunda cominciò a consigliarsi con Helmechis, che era scilpor, cioè armigero e fratello di latte del re, per ucciderlo. Egli persuase la regina a far partecipare alla congiura Peredeo, che era un uomo fortissimo”.

Peredeo non si fece convincere e Rosmunda fece in maniera da “giacere” con lui sostituendosi all’amante e una volta svelata la sua identità, ricattò l’ignaro, addossandogli la colpa e dicendogli: “O tu ucciderai Alboino o Alboino ucciderà te”.

Peredeo dovette associarsi: “Dopo mezzogiorno, mentre Alboino riposava, Rosmunda ordinò che nel palazzo si facesse un gran silenzio; sottrasse al re tutte le altre armi, legò la sua spada a capo del letto, di modo che non potesse né prenderla né sfoderarla e, secondo il consiglio di Helmechis, più crudele di ogni fiera, introdusse poi Peredeo, l’uccisore”.

Alboino, svegliatosi e resosi conto di quanto stava accadendo, si difese con tutta la sua energia, ma privo di armi, pur “audace e valoroso” com’era, “fu ucciso quasi come un inetto e morì per l’intrigo di una donnetta, egli che è rimasto famosissimo per tante stragi di nemici”.

Il lutto e lo sgomento si sparse fra tutti i langobardi, ma il dolore di un popolo non ostacolò i disegni dei congiurati.

Helmechis, spinto da Rosmunda, cercò di farsi nominare re, ma rischiò il linciaggio. Allora fu contattato Longino, il prefetto di Ravenna, per avere aiuto o rifugio.

Questi fu ben lieto del fatto, sia perché non aveva più da combattere contro un potente nemico come Alboino, sia perché i fuggiaschi, portarono nella fuga notturna non solo la figlia dello stesso re, ma tutto il tesoro dei Langobardi.

Dopo poco tempo, Rosmunda cercò di sposare lo stesso Longino e, per questo scopo, decise di doversi liberare di Helmechis. Mentre costui usciva dal bagno, Rosmunda gli si presentò con una coppa di vino, in cui era stato versato abbondante veleno. Helmechis bevve e sentì arrivare la morte, ma prima gli restò la forza di afferrare Rosmunda e indurla a terminare quanto era restato nella tazza: “Così i due malvagi assassini morirono nello stesso istante”.

Albsuinda, la figlia di primo letto di Alboino, insieme al tesoro dei langobardi, fu mandata a Costantinopoli, insieme all’altro congiurato, Peredeo. A questi la sorte fu immediatamente infausta: ritenuto molto pericoloso, gli furono cavati gli occhi e poi ucciso.

Si chiuse in tal modo l’epoca di Alboino e sul trono longobardo salì un uomo non meno degno: Clefi.

 

 

 

NOTE

 

 

[1] La fara era un insieme di famiglie che originavano da una stessa discendenza.

[2] Gens etiam germana feritate ferocior.

[3] Contra Langobardos paucitas nobilitat. Plurimi a valentissimi nationibus cincti, non per obsequium, sed proeliis ac periclitando tuti sunt. Tacito, Germania.

[4] Le deroghe a questa legge non erano mancate: nel 406, quando l’Italia era stata invasa da Radagaiso e nel 440, quando avvenne la fulminea spedizione di Genserico e il sacco di Roma, si erano distribuite le armi perfino ai contadini, col rischio di una sollevazione sociale, specialmente nel periodo di Totila il grande e sfortunato re dei Goti, che progettava grandi mutamenti.

[5] É noto che Odoacre mandasse le insegne del potere imperiale a Costantinopoli e tenesse per sé solo il titolo di patrizio romano, così come, a questa logica, si era ispirata la sfortunata politica di Teodorico, re dei visigoti.

[6] Paolo Orosio, Historiarum adversus paganos libri.

[7] Procopio di Cesarea, La guerra gotica.

[8] ”Ex hac igitur Scanditia, insula quasi officina gentium certe velut vagina nationum”. Giordane, Storia dei Goti (IV, 25). Gli storici continuano discutere sui legami dei Langobardi con gli altri popoli germanici. In genere i Langobardi sono assegnati ai germani occidentali e più precisamente agli Irminomi (per taluno invece agli Ingvaoni), mentre una minoranza è per l’assegnazione dei Langobardi ai Germani orientali.

[9] Intra hanc ergo constituti populi dum in tanta multitudinem pullulassent, ut iam simul habitare non valerent.

[10] Questo passo di Paolo Diacono è particolarmente indicativo, giacché è fatto notare che, coloro che la sorte costrinse a partire erano ancora “parenti”. Il che potrebbe spiegare le successive ondate verso il continente, determinando quella disparità di locazione, che non compresa, ha presunto una discordanza tra notizie storiche e dati archeologici.

[11] L’originaria denominazione “langobardi” fu storpiata in “longobardi”, intorno al V sec. d.C., per consuetudine dialettale

[12] Innanzi tutto espressa nell’Origo Gentis Langobardorum. L’Origo è fatta risalire al VII sec. d.C.

[13] Questa derivazione non è piaciuta a tanti storici che si sono affannati a trovare altro: si è detto di “lunghe lance” e, perfino di “lunga pianura” (lange börde), ma, a tal proposito pare opportuna una considerazione di F.A. Grimaldi, che, negli Annali del Regno di Napoli dice: “Mi sembra un’intrapresa ridicola di quelli scrittori, che presumono di darci una diversa etimologia del nome dei langobardi, studiandosi di trarle dalla lingua Schiavona, o Franca, per la boria di non seguire l’autorità di uno scrittore nazionale [Paolo Diacono]”.

Di qualche veridicità sembra essere un’altra riflessione dello stesso autore: “È da ricordarsi che è quasi un costume generale di selvaggi di esprimere il desiderio della loro vendetta, con lasciarsi crescere la barba, finché non si possano saziare del sangue del nemico. Tacito ci narra che era particolare costume dÈ Catti, popoli della Germania, di non radersi la barba, se prima non avevano la felicità di uccidere un loro nemico”.

[14] ”Si dice comunemente che i langobardi siano chiamati così per la lunga barba mai rasata”.  (Langobardos vulgo fertur nominatos prolixa barba ut numquam tonsa).

[15] Quella zona, scrive lo storico Bognetti, “ancora li ricorda mediante il nome di Bardengau”.

Di poco conto è, in questo contesto, la puntualizzazione di Wegewitz, secondo cui questo stanziamento era stato preceduto ben cinque secoli prima (VI sec. a.C.) da uno scaglione di Suebi, alla cui stirpe i Winnili appartenevano.

[16] Non si conosce la data di conversione all’arianesimo dei langobardi. Probabilmente avvenne a seguito della conversione dei Goti, allorché costoro si stanziarono nelle terre dell’Impero.

[17] Su questi fatti bisogna dire che simili consuetudini erano patrimonio della mentalità barbarica e non solo, ed erano finalizzate a raggiungere il duplice scopo di umiliare ancor di più i vinti e, inversamente, di acquisirne il valore. Perfino Alessandro Magno (356-323 a. C.) aveva legittimato questi matrimoni di convenienza, dimostrandolo in prima persona e dando le stesse indicazioni ai suoi ufficiali. Lo stesso, in tempi recenti, nel 455, aveva fatto Genserico, che, dopo il sacco di Roma, avendo fatto prigioniera la figlia dell’Imperatore, la diede in sposa a suo figlio.

È probabilmente giusta l’ipotesi dello storico francese Le Goff, secondo cui, i barbari, con simile pratica, pensassero di raggiungere, un duplice scopo: umiliare ancor di più i vinti e, dialetticamente, riconoscerne il valore, alcune volte acquisendolo “fisicamente” con l’antropofagia.

[18] Di lui si parla nella cronaca di Prospero d’Aquitania, spesso in contraddizione con ciò che riferisce Paolo Diacono.

[19] Odiernamente Monte Nanos

[20] Egli narra che lasciata la Scoringa (“Terra degli spuntoni rocciosi”, da alcuni localizzata nell’isola baltica di Rugen), i Langobardi si stanziarono nella Mauringa (“la regione palustre”) per poi passare nella Golaida (“la splendida brughiera salutata con gioia”), ossia a sinistra della bassa Elba, nel Lunemburg.

[21] Paolo Diacono, Historia langobardorum. Paolo Diacono è la fonte di ogni altra notizia quando non è espressamente citato altro riferimento bibliografico.

[22] Paolo Diacono, op. cit.

[23] Lui è il Mosé dei Langobardi. Si raccontava, infatti, che una prostituta, avendo partorito sette figli, li gettasse in una pescheria per annegarli. Per caso vi giunse il Re Agilmund: “Vedendo i disgraziati neonati, con la lancia li spinse qua e là”. Ad un tratto uno dei presunti cadaveri afferrò la lancia e il re lo tenne presso di sé e sarà il futuro Lamissio, secondo re dei Langobardi. La sua fu ritenuta un’adozione divina, per la funzione sacrale della lancia, equivalente per quei popoli allo scettro e alla corona.

[24] Paolo Diacono, op. cit.

[25] Le fatiche della guerra: mai espressione più consona per il vivere dei Langobardi.

[26] I fatti si collocano intorno al 500 d.C.

[27] Sicuramente il primo accoglie una pura e semplice leggenda, mentre il secondo sviluppa i fatti in funzione della futura alleanza dei Langobardi con Giustiniano nella guerra contro Totila.

[28] Procopio di Cesare, op. cit., 2,14

[29] Alcuni storici sostengono che i langobardi erano probabilmente in condizione di tributari.

[30] Strano ed inspiegabile atteggiamento per la mentalità langobarda e contraddittorio rispetto alla stessa narrazione di Procopio che li rende estranei a qualsiasi responsabilità.

[31] Per bocca di Procopio, gli ambasciatori Langobardi, parlano così: “Rimandata alla stessa maniera la seconda […] ambasceria, ne venne una terza ad assicurare che gli Eruli non potevano fare una guerra senza motivo […]; che se quella era la mentalità che li spingeva ad attaccare, anche loro, di malavoglia ma costretti dalla necessità, avrebbero fronteggiato gli oppressori; chiamavano a testimone Dio, il quale con un minimo soffio del suo volere, che volge la bilancia della sorte, fronteggia tutta la potenza di questo mondo; era naturale che fosse lui a manovrare e regolare, per gli uni e per gli altri, in base alle cause della guerra, l’esito dello scontro”.

[32] Su questo concorda anche Paolo Diacono: “Rodulfo invia i suoi in battaglia, mentre egli non dubitando della vittoria, rimane nell’accampamento e si mette a giocare a dadi. Erano gli Eruli abili ed esercitati in tutte le tecniche di guerre e assai noti per aver fatto strage di molti nemici. Costoro, sia per combattere più speditamente, sia perché disprezzavano i colpi del nemico, combattevano nudi, coprendo del corpo solo ciò che richiedeva il pudore”.

[33] Porcopio di Cesarea, op. cit., III-33.

[34] A Giustiniano, fu detto dagli ambasciatori di Audoin, secondo un discorso, come al solito costruito dallo stesso storico Procopio, tutte questo: “I Gepidi hanno commesso numerose e continue illegalità contro l’Impero. Essi hanno profittato dell’amicizia romana per vessare altri popoli inermi. Non hanno mai reso alcun servizio ai Romani in cambio di quanto avevano ricevuto e ricevevano. Hanno sempre disprezzato l’Impero romano, usando violenza a quello stato, di cui dovrebbero vantarsi di essere schiavi. Al contrario sono proprio i cittadini romani che sono resi servi”.

Il tutto, termina con questa perorazione: “Sire, fa quanto è necessario per giovare ai Romani e ai tuoi Langobardi. Pensa, oltre ad ogni cosa, questo: che noi abbiamo la stessa fede religiosa dei Romani, i quali, pertanto, faranno una cosa giusta a schierarsi con noi, mentre costoro sono Ariani e proprio per questo i Romani, faranno bene, ad andare loro contro”, (G. G., III, 34).

È evidente che nessuna di queste proposizioni è confacente alla mentalità Langobarda e basta aspettare il diretto confronto fra Romani e Langobardi per chiarire, con i fatti, l’arbitrarietà e l’inattendibilità del racconto di Procopio.

[35] Se dovesse servire una controprova, per dimostrare che Giustiniano aiutò i Langobardi solo per calcolo politico, basti ripensare alla già descritta e successiva ripresa d’ostilità fra i due popoli. Lo stesso Procopio è costretto a registrare che Giustiniano, proprio nel momento decisivo dello scontro, abbandonò i Langobardi, senza contare che per poco non decidesse di intervenire a fianco dei Gepidi (G.G., IV, 25).

[36] Si dice che già Giustiniano avesse fatto balenare ad Alboino l’idea di diventare re degli ostrogoti, in concomitanza della guerra greco-gotica, essendo storicamente vero che, per nascita e per successione, il regno dovesse appartenere più ad Alboino che a Totila.

[37] Il vecchio generale, conclusa la guerra con la resa del re goto Teia, aveva perseguitato la popolazione italica con un fiscalismo brutale, accumulando per sé ricchezze spropositate. Nel 565, il nuovo imperatore Giustino II l’aveva sostituito, per questa condotta, con Longino.

Narsete non consegnò né tesoro né accettò di sottomettersi al provvedimento e ostentatamente si era ritirato negli ozi di Napoli. Eppure, allorché fu annunciata l’invasione langobarda si disse pronto a riassumere il comando. Decisione che pochi mesi dopo la morte avrebbe vanificato.

 

28-02-2011

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