Al ceto medio apparteneva don Filippo Amantea, un giovane avvocato, di estradizione sciammergara.
Di lui i Grimaldesi ebbero sostanzialmente poca considerazione, probabilmente in modo ingeneroso, dato che ce ne furono politicamente di peggio e culturalmente irrilevanti rispetto a lui[1].
Il fatto è che nei paesi ci si conosce tutti e, nel periodo che stiamo considerando, in questa comunità isolata, che egli frequentava a scavalco, rappresentava l’essenza concretizzata del grimaldese improduttivo e vanaglorioso.
Che possedesse una variegata cultura umanistica in mezzo a sciammergari analfabeti, tra i quali l’arte di rimediare per durare è ciò che conta, gli servì a poco. Al contrario quella sua affettazione di letterato, di produttore di parole, lo mostrava venditore di chiacchiere, un azzeccagarbugli, che pur voleva essere intrigante come tutti i suoi pari, “avvocato di tutti”, in una società in cui di diritti né se ne possedeva né se ne richiedeva[2].
Non gli giovò ovviamente la poca saldezza di principi, l’ambiguità dell’agire, la labile personalità, né che nulla fece per Grimaldi da consigliere provinciale eletto nel 1914, nel periodo del trionfo della Società Operaia.
Nato nel gennaio del 1878, si era trasferito con la famiglia ad Aosta, all’ombra di un padre padrone, poi aveva conseguito la laurea in giurisprudenza col massimo dei voti a Roma. Là aveva stretto amicizia con alcuni letterati e, in particolare, con il più noto scultore Duilio Cambellotti.[3]
Ritornato in paese, don Filippo ebbe un ruolo rilevante ai margini della Società Operaia, non nascondendo proprio a nessuno quello che con efficace semplicità è insieme sete di “comandare” e “esigenza d’apparire”.
Ossequioso al massimo del potere, come spesso capita a quelli che vogliono farsi “apprezzare”, iniziò appunto contestandolo, atteggiandosi a socialista, come ebbe a dire in un discorso interventista del 1915:
“Una sera del maggio 1901 in quell’epoca il partito socialista non era ufficiale, non s’era cioè ridotto a quella corporazione in politica estera incosciente di cooperativisti e panciafichisti che tutti ammiriamo oggi – io che mi trovavo in Bologna ed ero socialista alla moda di allora però, né ho poi mutato […] – capitai nella sala della Società Operaia”.
Con questi sentimenti operaisti, lui che volle dirsi “figlio d’una famiglia di scarsi mezzi”, si schierò tra i consiglieri dell’opposizione, senza naturalmente impensierire troppo i galantuomini che proprio per l’appunto l’avevano votato[4].
Il paese era in mano, di fatto, della famiglia “degli altri Amantea”. Contro questo dominio don Filippo si arrese subito. La resa, senza battaglia, avvenne per un episodio che ben dimostra la consistenza dei suoi ideali. In cuor suo, lui, Amantea “di scarsi mezzi”, voleva imparentarsi con gli altri Amantea, vicini di casa e più potenti, corteggiando poeticamente la bella donna Adele. Poiché “al cuore non si comanda”, don Filippo finì per essere “il critico” dichiarato della Società Operaia, proprio quando essa trionfava nel paese, ed era pronta a debellare l’intero partito degli Amantea. Ritornerà sui suoi passi, affiancando i confratelli “dalla poca cultura”, quando donna Adele si fidanzerà con don Silvio Anselmo.
Il carattere vanitoso, non sfuggì a Fortunato Colistro e agli altri irriducibili confratelli, i quali lo tolleravano solo ai margini della loro lotta più realistica e pressante, così che, nelle loro lettere, non se ne parla mai, mente era frequente vederlo sostare nel “laboratorio” di Terenzio De Cicco”.
Dedicata tutta la vita al desiderio “di essere qualcuno”, a ben vedere il suo cammino dimostrò che se non arrivò alla fama e ottenne una più modesta notorietà[5], è segno che veramente non poteva arrivarci.
Come tutti gli ideologi reazionari d’ogni epoca, produsse, infatti, sempre per se stesso, tenendo contrapposta la sua persona, in un dualismo esasperato, con la restante comunità, intesa come semplice cassa di risonanza delle sue elucubrazioni.
Se gli uomini di genio sono la stessa umanità che pensa il proprio ascendere faticoso e perciò rappresentano la parte migliore dell’uomo, Filippo Amantea non poteva che restare un piccolo letterato di provincia, che citava un po’ di tutto, nel chiuso della sua torre verbale.
Per finire si potrebbe dire che fu una mente retorica, quella adatta a legittimare il potere semifeudale in ogni piccola Grimaldi del meridione e, per completezza, dobbiamo ricordare che nel 1905, pubblicò un libro di poesie, Come le nuvole[6] che restò, fino al 1932, la sua unica opera, per la quale aveva preteso e richiedeva ossequio.
Restò a Grimaldi “il letterato” preso di mira dalla malevolenza[7]; l’ozioso, che si era stabilito a Cosenza, dove produceva astrazioni, quelle che l’altra testa del drago del potere richiede, ai piccoli come ai più alti livelli.
Il poeta di Come le nuvole è lo stesso che, nell’ultima pagina del libro, offre tutto questo:
“Dello stesso autore. Di prossima pubblicazione:
Studi letterari e conferenze. […]
In preparazione:
Non serviam! (La tragedia delle Origini)
Commentari a Baudelaire
La signora giustizia
Critica delle basi teoriche dell’Economia pura
Critica della metafisica positivistica e delineazione d’un asistema di scetticismo positivo“.
Di queste opere non si è saputo mai nulla.
[1] Il divario diventa più netto se riferito agli anni successivi a queste cronache, quando don Filippo si trasferì definitivamente a Cosenza, dove esercitò da avvocato, ricoprendo, tra l’altro, dal 1952 fino alla morte (1964), la carica di Presidente dell’Accademia cosentina.
[2] Molti e tradizionalmente a Grimaldi erano gli avvocati, la cui funzione in una situazione senza diritto, dovrebbe essere studiata antropologicamente: don Ciccio Silvagni, don Peppino Silvagni, don Vincenzo Del Vecchio, don Enrico del Vecchio, Don Silvio Anselmo, don Filippo Amantea, per finire, ad un noto galantuomo, il quale, secondo le dicerie tramandate, avendo perso la prima causa contro un avvocatucolo molto meno preparato, ma esperto in maneggi e in immediatezza di relazioni, abbandonò la professione e non uscì più di casa. Se si esclude don Raffaele Silvagni, che è ricordato nelle cronache dell’Università di Messina per precocissime capacità e che morì nel terremoto di Messina del 1908, l’unico che eccelse fu don Enrico Del Vecchio, “principe del foro” come gli fu riconosciuto da Pietro Mancini.
[3] Fu pittore e scultore poliedrico, tra i più rappresentativi del novecento. A Grimaldi, per interessamento proprio di Don Filippo, realizzò il Monumento ai Caduti.
[4] Si veda il capitolo successivo.
[5] In anni recenti, a Cosenza, gli è stata intitolata una via, subito dopo l’uscita dell’A3.
[6] Il libro fu illustrato dall’amico Duilio Cambellotti ed è per questo motivo che ancora se ne parla.
Don Filippo Amantea ne diede, più di venti anni dopo, nella sua classica prosa ridondante, il seguente giudizio:
“Come le Nuvole! che roba mai sarà? con la perplessità di Don Abbondio che in Cameade s’imbatte dirà più d’un lettore anche se addottrinato.
Lettore mio perplesso, trattasi d’un libro di poesia che, stampato molti anni fa, anch’esso, come questo opuscolo, in Cosenza ovverossia nella nostra calabra Atene […] senza risonanza […], tra i trombettieri della critica e del chiasso letterario sui cotidiani non ebbe allora eco […], ma al quale ora dopo un ventennio dall’alto guardando con occhio sereno come a cosa che non mi appartenga oramai superata, senza iattanza posso affermare che malgrado parecchio d’inesperto e molto di mediocre e la bizzarria di certi pezzi in un francese spropositato, cosi che me ne vergognerei se spropositato non fosse italicamente, segna nella produzione poetica dello scorso primo quarto del secolo un punto fermo[…], meta e pilone di lancio”.
(Filippo Amantea Mannelli, Inaugurandosi il monumento al caduti grimaldesi: scultura di Duilio Cambellotti, Reggio Calabria, Editore Il Giornale di Calabria, 1927).
Nel 1932, pubblicò una traduzione di Goethe presso Paravia, attività che, se don Filippo avesse potuto fondare le sue capacità letterarie su altra personalità, poteva dargli consensi più ampi e più meritati. (Filippo Amantea Mannelli, Xenia: doni ospitali / Goethe, Schiller, Torino, 1932).
[7] Per questa malevolenza, scurrile e ingiustificata, il padre di don Filippo uccise a bruciapelo un cittadino, un violento, Francesco Silvagni Midoro, che continuamente infastidiva il figlio.
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