Empedocle
Agrigento 492 a.C. – 430 a.C.
Empedocle cercò di risolvere le contraddizioni tra il modo di intendere l’Essere da parte di Parmenide e il Logos di Eraclito, coniugando un essere ed una verità “immobili” con un divenire delle cose e del pensiero attestati dall’immediata esperienza. Ma cercò di farlo, non partendo dal Logos, bensì da una prospettiva fisiocratica e con un procedere più letterario che filosofico.
Affermò le sue tesi con estrema bellezza stilistica, pagando il debito verso Parmenide, di cui ribadì il fondamentale principio che dal nulla, nulla può essere dedotto:
“Perché non può esserci nascita da ciò che non è,
ed è impossibile e poco credibile
che, di ciò che è, tutto si distrugga:
esso sarà sempre laddove ciascuno
di volta in volta ha fondamento […]”.
E subito dopo, descrive la circolarità dell’essere, tanto cara ai milesi, e la tesi eraclitea della perenne mutazione, in questo caso, dei diversi:
“E altro ti dirò: non c’è nascita
per nessuna delle cose mortali […]
né termine di morte le distrugge,
ma soltanto mescolanza e separazione
di elementi mescolati, che gli uomini
chiamano origine […]”.
Empedocle conclude che l’essere delle cose mortali, può avere origine e può morire solo nella mescolanza di quanto rimane eterno nelle mutazioni. Questo “quanto immutabile” è inteso come insieme di elementi naturali originari, quelli già noti ai fisiocrati, acqua, terra, fuoco e aria, “radici” che si aggregano e si disgregano restando invariati nel loro continuo comporsi e ricomporsi nelle infinite forme degli enti: come le forme dei bambini create con la sabbia, per usare un’immagine eraclitea.
Questa soluzione, tuttavia, non risolve il problema della nascita-morte di ciò che è. I quattro elementi sostituiscono il monismo di Talete e Anassimene con la pluralità, in ossequio alla logica che solo dalla molteplicità può nascere il molteplice, ma questa molteplicità potrebbe non rimandare a nessuna Causa Prima? Empedocle ipotizza che quest’ultimo fatto sia possibile e lo spiega affermando l’esistenza di due forze, immanenti e anch’esse materiali, che potrebbero consentire il divenire: le forze opposte dell’Amore e della Discordia.
Tuttavia Empedocle non dice come queste forze che aggregano e separano, possano operare senza un fine e senza un progetto. Anzi, esse complicano il senso comune giacché è proprio l’Amore che, ad un primo approccio, rende il tutto senza vita, senza forma, mentre è la separazione (la Discordia) che genera vita e pluralità di forme.
Nello stesso ragionamento resta ancora senza risposta la natura di queste due forze, essenziali al vivere e al morire, ma anche alla ragione e all’esperienza. Empedocle non chiarisce il senso ed i termini della loro durata, lasciandoli ad un altro incomodo inspiegabile: il destino.
Empedocle si compiace puramente di aver dato soluzione a “ciò che si capiva” della filosofia di Eraclito e di Parmenide, filosofie date per inconciliabili.
“Le radici hanno tutte forma uguale e per nascita coevi,
con prerogative ed indole proprie,
predominando […] a vicenda […] nel giro del tempo.
Ad essi nulla si aggiunge e nulla viene a mancare.
Ad essi niente si aggiunge e niente viene a mancare,
perché, se perissero del tutto non sarebbero già più.
E cosa potrebbe accrescere il tutto, provenendo da dove?
e come potrebbero scomparire se tutto è pieno di essi?”
Dunque, tutto nasce e muore come forma formata o mortale da elementi immortali. “Proprio perché non cessano mai di mutare, esse dimorano sempre immutabili nel cielo”.
Eppure ad Empedocle non sembrano sfuggire le difficoltà di un cosmo senza Causa Prima.
Quando le radici si trovano unite nell’amplesso dell’Amore, stato divino, perché puro, senza forme, che Empedocle chiama “permanenza nello Sfero”, quando si “gioisce di avvolgente solitudine”, come si prepara il dopo? Ossia, cosa presiede il momento della nascita, allorché vengono partorite, in un momento di equilibrio tra Amore e Discordia, tante forme, l’una diversa dalle altre e spesso antitetiche e che, per dirla con Eraclito “si nutrono della morte dell’altro”?
La soluzione che dà Empedocle è moderna ed ambigua, una soluzione che oggi potremmo definire evoluzionista, nel senso peggiore del termine. Le forme inferiori si evolvono in forme superiori, dai pesci derivano gli uomini, ma già in Empedocle non si spiega perché gli uni restano pesci e gli altri divengono uomini. Forse egli aveva compreso che una simile evoluzione condurrebbe precipitosamente all’appiattimento mortale in poche specie e infine ad una morte precocissima.
In fondo, Empedocle resta un “taumaturgo” tormentato (“ogni forma odia il suo stato”) che acqueta il suo malessere esistenziale in una atarassia puramente voluta e non fondata razionalmente, tipica di chi è poeta e non filosofo e solo poeticamente risolve le difficoltà del suo pensiero.
Gli sfugge che ogni forma, singolarmente presa, è uno “sfero”, se è vero che da questo non si distingue né qualitativamente né quantitativamente e che semmai lo Sfero e la forma differiscono solo per la durata. Tuttavia, la forma può perfino prendersi una rivincita sullo Sfero, se è vero che essa ha una personalità ed “un’anima”, quella che gli deriva nel porsi nella natura con “una diversità” che la fa essere precisamente quella che è, opposta all’indifferenziato tutto.
Né giova inserire nella Totalità un divenire soggiogato alla sirena orfica ovvero la poetica metempsicosi che gli fa dire:
“E anch’io sono uno di costoro,
esule dagli dèi ed errante,
per aver confidato nella folle Contesa.
Perché già una volta fui fanciullo e fanciulla
ed arbusto e uccello e pesce muto
che guizza fuori dal mare.
Da quale rango e da quale culmine di felicità!
Giungemmo sotto quest’antro coperto”.
Così gli è facile equivocare sull’azione della “Contesa” e annullare ogni precedente acquisizione, postulando un’anima senza fondamento, un “demone” apparso improvviso come gli dèi:
“È vaticinio di Necessità, decreto antico degli dèi, eterno,
sigillato da ampi giuramenti: se qualcuno, errando,
contamini di sangue le sue membra, e dopo aver sbagliato
a opera di Contesa giuri il falso, costoro
come demoni che hanno avuto in sorte vita longeva,
per tre volte diecimila stagioni vadano errando,
lontano dai Beati
rinascendo nel corso del tempo in molteplici forme mortali,
permutando i travagliati sentieri della vita”.
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“E alla fine diventano veggenti e poeti
e medici e capi per gli umani che abitano la terra
e da essi germogliano dei, per onore eccellenti”.
Innalzato a tal punto l’uomo, i migliori si fermano, non si sa come, alla mensa degli dèi:
“Spartiscono focolare e mensa con gli altri immortali,
non partecipi delle sofferenze umane, indistruttibili”.
Qui si conferma una convivialità stabilita da Empedocle anche a livello gnoseologico: il simile rifugge il dissimile e cerca sempre il suo simile. Vuole e conosce solo ciò che ha la sua analoga sorte.
(Le traduzioni, con qualche mia variante puramente formale, sono di A. Tonelli, Empedocle, Frammenti e testimonianze, Bompiani, Mi, 2002).
21-03-2011
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