Da Talete a Socrate: Socrate

Socrate

(Atene 469 a.C. – Atene 399 a.C.)

 

  1. PREMESSA
    La filosofia greca “nacque” in società di radicali disuguaglianze. Basti citare la chiusura razziale verso ciò che non è greco, ritenuto globalmente un universo di barbari, unita alla stratificazione politico-sociale interna alla polis, per cui poco spazio veniva concesso alla mobilità sociale e tutto poggiava sullo sfruttamento di quello che anche successivamente resterà un istituto tipico della civiltà greca e non solo: la schiavitù.
    La conoscenza, in una società ingiusta, finisce per essere naturalmente privilegio di pochi, di quelli che, come ancora più tardi teorizzerà Aristotele, hanno la possibilità di essere “sollevati da ogni preoccupazione economica” e trovano l’otium essenziale per affrontare e risolvere le “grandi” questioni di Dio, dell’Essere e dell’ente.
    Se poi consideriamo che le società della disuguaglianza sono anche quelle che presumono di essere immutabili, si capisce che il criterio della conservazione dello status quosia alla base di tutti i valori affermati. La “sofia”, a cui in questo caso è delegato il compito di fondare e giustificare l’ideologia della classe dominante, presume anche essa di avere individuato i problemi di ogni tempo e di riuscire a dare risposte necessarie ed universali. Perciò, poiché sarebbe stato spudorato uguagliarla alla teologia (che certo presume di avere la verità assoluta, ma era in quel tempo oggetto di derisione per la sua palese assurdità) il pensiero greco elaborò una cosmologia, ben più degna per la raffinata e razzista intellettualità aristocratico-mercantile.
    Più o meno nel VII sec., da Talete in poi, il campo di ricerca e i criteri di interpretazione, vennero posti con evidente autonomia (cfr. Introduzione) rispetto ad altre manifestazioni del pensiero (mito, poesia e religione). Attraverso i successivi e sofferti contributi vennero a specificarsi concetti chiave non solo per la stessa conoscenza antica: l’Arché, l’anànche, l’immanenza della colpa, il tempo, l’indistruttibilità dell’essere, l’estrema tensione razionalistica del Nous e, ancor di più, la quantificazione della struttura, la materialità scientifica dell’essere, l’opposizione radicale di verità ed opinione e la priorità del determinismo in ogni sistema di pensiero. Sappiamo, comunque, che storicamente la ricerca finì per radicalizzarsi intorno alle posizioni, ritenute inconciliabili, di Eraclito e Parmenide, tanto che i tentativi di convergenza delle due filosofie finirono, di fatto, per evitare proprio i problemi che avrebbero dovuto affrontare.
    Tuttavia questa scienza, questa sofia delle origini, con Eraclito e Parmenide e, poco dopo, con Democrito, il grande continuatore del grandissimo Pitagora, subì una svolta irreversibile, poiché era passata dalla ricerca dell’archè e della ricognizione “fisicista” all’affermazione del Logos, assolutamente coniugato con L’Essere e con l’Ente, tanto che la sofiadivenne finalmente filosofia (vedi Introduzione)
    Quasi contemporaneamente all’affermazione del Logos e della nascita della filosofia, venne messa in crisi l’illusione conservatrice della società greca e della scienza: esse caddero non appena la polis si dimostrò un organismo troppo fragile ed angusto per reagire non solo nei confronti delle forze esterne, ma all’emergere stesso degli strati subalterni, che prospettarono tempi di mobilità sociale ed emancipazione.
    Dal V secolo venne, perciò, all’arroganza aristocratica e al pensiero privilegiato una lezione sulla quale la filosofia potrà effettivamente fondare la sua peculiarità di scienza del Logos, ma anche di disciplina storico-sociale. In quest’ultimo ambito, essa cominciò a comprendere che la “conoscenza” è figlia del tempo e dunque è in inscindibile legame con i processi della società e la formazione di gradi “più elevati” di democrazia.
    Col V secolo nasce il criterio che il pensiero è un momento della realtà e che la realtà modificandosi abbatte antiche certezze e stai consolidati.
    In questo periodo vennero spezzati vecchi rapporti di sudditanza e si allargò la base del benessere, creando nuove legislazioni e più adeguati organismi di partecipazione, in un processo storico estremamente tormentato. Per dirla in breve, al maggior potere economico dei ceti emergenti si affiancò l’esercizio del potere attraverso l’assemblea. Possiamo dire che la filosofia abbandonò le case dei ricchi e si batté per le piazze per bocca dei Sofisti e di Socrate. Comunque l’aristocrazia restava ancora la classe culturalmente dominante e i nuovi soggetti sociali, forti in quantità e progressivo benessere, provenivano da una condizione di subalternità che era pur sempre di rozzezza culturale. Aristofane, con le sue Commedie, è la fonte prima di queste variazioni e di questi scontri ideologici e sociali.
    Ai sofisti (comprendendo anche Socrate) spetta il merito di aver educato questa classe emergente, rendendola degna dell’esercizio del potere. La “scolarità” dei sofisti insegnò che la “parola” è ciò che fa liberi, giacché permette di capirsi, di determinarsi, di svilupparsi e difendere i propri interessi e la propria sopravvivenza.
  2. SOCRATE SOFISTA
    Per questi presupposti volendoci interessare dello specifico contributo socratico alla filosofia e alla società, dovremmo inizialmente accettare Socrate proprio come un sofista, un sofista, però, che non rispecchia semplicemente il proprio tempo, ma guarda oltre e che perciò ritorna filosofo e quindi non più sofista. Per questi presupposti volendoci interessare dello specifico contributo socratico alla filosofia e alla società, dovremmo inizialmente accettare Socrate proprio come un sofista, un sofista, però, che non rispecchia semplicemente il proprio tempo, ma guarda oltre e che perciò ritorna filosofo e quindi non più sofista.
    La filosofia di Socrate è appunto questa: che il filosofo non può restare fuori dai problemi che pone la sua epoca, ma nemmeno ad essi deve soggiacere.
    Come per i sofisti, la piazza era per Socrate il luogo in cui dovevano essere dibattuti tutti i problemi e ciò, non secondo un ordine predisposto, ma in base all’immediatezza della vita, al modo come le difficoltà o le stesse proposte si facevano pressanti nell’esistenza individuale e sociale.
    La filosofia, per Socrate come per i sofisti, è l’insieme di risposte adeguate alle preoccupazioni in cui ognuno si trova ad operare ed ha come strumento privilegiato la parola, il logos. Anzi in funzione di quest’ultima strumentalità, Socrate elaborò un metodo proprio di discussione, indicato solitamente nei due momenti della maieutica e dell’ironia.
    L’arte della maieutica consisteva nel fondamentale riconoscimento che le conclusioni dovevano essere non date all’interlocutore, ma, come dice la stessa parola “maieutica”, prodotte o, meglio, “partorite” dallo stesso soggetto occupato a ricercare il vero, il giusto e il bello. In base a ciò la “risposta” si presentava come libera conquista individuale, a cui il filosofo contribuiva col compito di semplice stimolo e partecipazione.
    L’arte dell’ironia presentava caratteri di maggiore provocazione per la suscettibilità che poteva incontrare. Con essa, infatti, venivano poste preliminarmente in “ridicolo” le presunte certezze dell’interlocutore, in maniera tale che la discussione potesse partire da una uguale situazione di incertezza e di ricerca.
    Con questa operazione Socrate voleva dimostrare che si può essere sicuri di condurre a sano compimento il dialogo, se gli interlocutori interessati vanno alla ricerca dei “valori” utili e non pensino dogmaticamente di esserne già in possesso: le risposte sono conquiste non verità rivelate: la filosofia ancora una volta non è “teologia”.
    Dall’illustrazione sintetica del metodo si vede come Socrate, rispetto agli altri “Sofisti”, avesse sentito il bisogno di elaborare una tecnica del logos, per così dire, universalmente valida e non semplicemente legata a bisogni utilitaristici, individuabili con facilità nell’ insegnamento sofistico.

    3. SOCRATE NON SOFISTA
    Proprio quest’ultima conclusione ci permette di capire il passaggio teoretico che fa di Socrate non un saggio, ma un filosofo, nella stessa misura in cui ci fa comprendere perché finì per trovarsi in contrasto con la “democrazia ateniese” e portato a morte sotto l’accusa di corrompere i giovani e di dissacrare le divinità della polis. Infatti l’impegno personale nella ricerca e nel dibattito, non poteva essere per Socrate un esercizio di retorica, di antilogie o di servilismo politico: per lui l’arte maieutica e l’ironia dovevano portare ad un risultato fondamentale: la conoscenza di se stessi.
    In questo progetto, in genere, si vuole vedere una conquista puramente morale e filosofica, ma in questo senso si perde non solo la pregnanza della conquista socratica, quanto il legame profondo che Socrate intese stringere con la società del suo tempo.
    Conoscere se stessi non significa avere idee o capacità dialettiche; forgiarsi strumenti per affrontare degnamente la tribuna politica dell’assemblea. Conoscere se stessi per Socrate significa dimostrare, senza ambiguità, le proprie capacità nel servire la propria elevazione, ma anche la comunità, in mezzo ad interessi divergenti ed antagonistici.
    Per dirla diversamente, Socrate ritiene che ogni uomo debba essere utile alla società occupando un ruolo nel quale dimostri una maggiore attitudine rispetto ad altri che si dispiegheranno, in questo raffronto, nei vari servizi che la società richiede. Conosci te stesso e innanzitutto la formula che permette la fondazione del criterio selettivo per cui ognuno non deve usurpare ruoli che non gli spettano, affinché non ci sia una società ingiusta, destinata a rovina.
    Si vede, perciò, come questa richiesta profondamente democratica di Socrate non potesse che essere contrastata duramente dalla democrazia del tempo. Platone, che in questo sarà diretto continuatore del maestro, avrà modo di teorizzare ampiamente questa conquista socratica nell’ utopia della Repubblica.

    4. SOCRATE E LA DEMOCRAZIA
    Per estrazione sociale, non poteva non accettare il radicale rinnovamento sociale operato dalla classe emergente. Era questa, infatti, la sua classe, così come era di suo padre scultore e di sua madre ostetrica.
    Eppure, nessuno fu come Socrate più critico del sistema politico ateniese. Infatti, mentre la critica degli aristocratici riproponeva un passato di oppressione, quella socratica accettava ed intendeva fortificare quanto conquistato. Schematicamente: per essere realmente democratico, Socrate pensava di dover combattere duramente quella che arbitrariamente veniva spacciata per democrazia.
    Si è già messo in rilievo che una società è giusta nella misura in cui ognuno esercita un ruolo, garantito dalle sue reali capacità e dal suo grado di razionalità; diversamente l’usurpazione dei ruoli, porta all’occupazione abusiva del potere e di conseguenza determina tirannia e necessità di ribellione.
    Questa premessa implica che non tutti siano in grado di esercitare uno stesso ruolo e che una società si specifica immediatamente come un insieme umano, composta di individualità uniche. Socrate per sottolineare questa diversità affermava che ognuno ha una sua “areté”, (la “virtù”, nel senso più pieno), vale a dire una “sua” virtù, che lo fa essere quello che è e gli impone di operare per come gli è dato dalle sue capacità più alte.
    Il “conosci te stesso”, così come il metodo dialogico socratico, hanno il fine di evidenziare e di attualizzare questa “areté”. Non solo: proprio per sottolineare l’importanza e la difficoltà di questo compito Socrate soleva dire che è necessario sapere di non sapere, perché la virtù non sia confusa con la presunzione e, contemporaneamente, la ricerca sia non operante per mero profitto individuale o di classe.
    È evidente che tutto questo ragionamento, dimostra che il vero problema socratico, quello che lo preoccupò per tutta la vita è questo: qual è il criterio che permette di selezionare i ruoli nel superiore interesse della comunità?
    La risposta non poteva che passare attraverso la verifica della cosiddetta rivoluzione del V secolo e il quadro che si presentava a Socrate era apertamente sconfortante.
    Nell’assemblea, aperta a tutti, tutti discutevano di tutto. La competenza veniva mortificata dalla quantità, dai gruppi precostituiti, dagli interessi di parte e così via.
    Se pure era comprensibile che il demos, divenuto improvvisamente protagonista, sentisse il bisogno di questa partecipazione di massa, Socrate capì che a lungo andare la partecipazione non selezionata avrebbe affossato la stessa democrazia.
    Rischiando perciò la facile strumentalizzazione da parte del partito degli aristocratici (i quali teoreticamente avevano sempre sostenuto il potere dei migliori, mentre storicamente avevano uguagliato l’aristocrazia del denaro col potere politico), Socrate affermò che ogni istituto sociale dovesse essere guidato dai migliori per capacità, per competenza e che democrazia significasse porre ognuno al proprio posto.
    Tutto ciò infatti costituiva quello che si sarebbe potuto correttamente definire giustizia sociale.
    Si capisce a questo punto che questo superiore concetto di democrazia portasse Socrate a scontrarsi con i Sofisti, che di fatto finivano per legittimare, a lungo andare, l’usurpazione dei ruoli. Come abbiamo già detto, per Socrate, i Sofisti restavano irretiti nell’immediatezza del loro tempo e anche se questo, inizialmente, poteva essere positivo, finiva per legittimare la formazione di una nuova tirannia: quella della massa ignorante e settaria.
    Per concludere, in Socrate troviamo il primo grande critico della democrazia formale, colui che certamente riteneva l’utile essenziale, purché inteso nella sua giusta dimensione: non l’utilitarismo economico e partitico, ma l’utilità del sapere, quello che fa conoscere se stessi e permette l’esercizio giusto e proficuo della propria funzione. Qualcosa che andasse oltre il relativismo e l’opportunismo.

    5. CONCLUSIONI
    Se un uomo che non fondò mai una scuola, che non scrisse niente che riteneva degno di essere lasciato alla posterità, che passò tutta la vita ricercando e asserendo che l’unica cosa di cui potesse vantarsi fosse quella di sapersi ignorante, è rimasto un punto fermo nella storia della filosofia occidentale, ci devono essere motivi di particolare significato.
    Il primo e più importante, quello che non sempre troverà uguali nella storia del pensiero, è costituito dall’esigenza socratica di mantenere in assoluta coerenza il proprio pensiero con l’esplicarsi della propria esistenza: ciò che si pensa e ciò che si fa devono costituire uno stesso atto.
    Socrate capì che il suo “demone” gli aveva indicato la missione di portare il logos tra gli uomini, e di preservarlo dalle perversioni utilitaristiche; di credere che fosse insegnabile, cioè utile alla società. Capì che questa era la sua areté, il suo ruolo nella società e a questo compito diede testimonianza con la propria morte.
    Cercò anche di dare un senso all’ “astuzia della sua epoca”, ritenendo che chi fa male lo fa perché è ignorante, perché non sa quello che fa e dunque sta sprecando la sua esistenza. Socrate annuncia, dunque, agli uomini la necessità di sentirsi diversi in quanto “animali ragionevoli”, qualità del tutto particolare nel mondo della natura.

 

21-02-2011

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