Da Talete a Socrate: Protagora

Protagora

Abdera, 486 a.C. – 411 a.C.

e la scuola dei Sofisti

1 – Brevissimi cenni storici
Insegnare la filosofia, considerando la “cultura” una merce che va acquistata come un qualsiasi prodotto del mercato, può essere ritenuto sconveniente o perfino esecrabile, dal punto di vista socratico. Ma già prima dei Sofisti, che per primi diedero lezioni a pagamento, tutti i filosofi “si erano giovati” del loro sapere per tornaconto (es. la storiella dei frantoi di Talete), per conquistare le cariche più alte di una comunità (es. Parmenide e Zenone), per ottenere un posto privilegiato nella società (es. il meno corrotto Anassagora e l’altrettanto onesto Democrito) o nei confronti del potere e dei cittadini (dal disdegnoso Eraclito allo stesso Socrate).
Pitagora stesso aveva fondato una “scuola” che si era trasformata, in maniera naturale, in partito. Proprio su questa linea la scuola dei Sofisti si configurò come un movimento culturale e politico che segnò le vicende della democrazia ateniese del V secolo, tra Pericle e Alcibiade.
Quando le città greche della Ionia caddero in mano persiana, iniziò una diaspora culturale che portò al sorgere di nuovi poli culturali: a Crotone, a Elea (Velia) e ad Abdera. In quest’ultima, pietosa verso Serse, sconfitto a Salamina, vennero educati proprio dai persiani e successivamente insegnarono, in netto antagonismo, Democrito e Protagora. Protagora abbandonò la città verso i trentacinque anni, viaggiando per tutta la Gracia e sempre più arricchendosi e in Abdera Democrito raggiunse fama e alti incarichi.

2 – Protagora
Per Protagora l’uomo non è un ente tra gli enti, ma l’ente “centrale” del Cosmos e il suo modo di essere va approfondito non solo considerandolo “il” soggetto storico ma principale “il” problema filosofico. Né l’uomo è un ente generico della società, ma è “quel” soggetto particolare (si direbbe con nome e cognome) che partecipa alla vita sociale per dare il suo contributo, ma principalmente per perseguire i suoi interessi, la sua “utilità”. In questo ruolo si accultura, preoccupandosi non di generici problemi “cosmologici”, “ontologici”, metastorici, ma preparando e difendendo i propri “affari”, l’ascesa sociale, la propria “posizione”.
Per questi compiti, che erano emersi dalla grande mobilità sociale generatasi con l’avvento della “democrazia” di Pericle, i mezzi indicati dai Sofisti saranno diversi (astuzia, forza, prevaricazione anche legale ecc.), tuttavia Protagora preferì la “parola” come più potente strumento per difendere o far prevalere le proprie ragioni, da esternare democraticamente in pubblici dibattiti.
A tal fine propose un vero e proprio metodo dialogico, attraverso le cosiddette “antilogie”, per cui era possibile sostenere, su uno stesso argomento, una tesi e contemporaneamente il suo opposto. Su questo sistema logico, “dialettico”, raffinato da Protagora fino alla morte, ha pesato fortemente la polemica socratica e platonica, le forzature che lo stesso Protagora fu costretto a mettere in atto contro l’attacco di Democrito. Non si è perciò sottolineato il peso reale, il contributo eccezionale per il pensiero. Tutto è stato travolto dalle accuse alla scuola di essere “prostituiti” della filosofia, di barattare il falso per vero, l’immaginario per reale.
In effetti è da queste prospettive protagoree che si può giungere a stabilire una logica reale, moderna. Tutte le proposizioni “assolute” sono false, in quanto escludono a priori la possibilità di tesi opposte. L’esperienza, tanto quella empirica che quella scientifica, insegna che gli enti, l’essere e ogni struttura, contengono in se stessi tesi e antitesi, due tesi antitetiche sia a livello gnoseologico che valoriale. Proposizioni che oppongono l’uomo razionale all’uomo irrazionale, l’uomo morale all’uomo immorale sono prive di significato, poiché niente è assolutamente vero o assolutamente falso, assolutamente giusto o assolutamente ingiusto. L’uomo stesso è una categoria generica perché non distingue me dagli altri, proprio mentre io non sono gli altri e gli altri non sono me.
Solo in quest’ottica è possibile intendere, sia in senso individuale sia in senso collettivo, che “l’uomo è misura di tutti le cose”, proposizione che mette “in ordine” sia l’uomo con se stesso che con gli altri, sia l’uomo con gli altri enti naturali, sia l’uomo con ciò che era stato, ed è, l’oggetto della filosofia: il Logos.
La posizione protagorea, anche attraverso la versione acre di Platone e di Aristotele, pone l’uomo come “percipiente così come è la sua condizione e la sua posizione”. Da questo punto di vista, l’uomo ha l’unica “com-prensione” sia di se stesso, sia degli altri, sia del mondo in cui si trova. L’uomo sa che non può non giudicare secondo quanto “percepisce” e che quello che percepisce è vero, poiché non può concepire “altro vero”, rispetto a quello che sente; che anche la verità è un “sentire”, se l’“oggettività” è il modo come l’oggetto viene patito dal soggetto, che oltre questo suo incontro non ha possibilità di altro rapporto. Dunque, se ben inteso, il presunto relativismo di Protagora, è il modo “logico” di apprendere il mondo “relativamente” all’uomo, quale uno fra i tanti enti, i quali hanno dello “stesso” mondo, ognuno la propria e “oggettiva” esperienza.
Tale condizione e tale posizione non sono posizioni “relativistiche”, ma le posizioni di partenza da cui l’uomo va alla ricerca di sé, della “storia”, del mondo, di Dio. Perciò è comprensibile, rispetto a quest’ultimo Oggetto del pensiero che è il fondamento stesso del pensiero, ciò che giustamente è affermato da Protagora:
“Per quanto riguarda gli dèi, non sono in grado di affermare che esistano o non esistano, né quale sia il loro aspetto, perché molte sono le difficoltà che si oppongono alla conoscenza di queste cose” – posizione di pensiero esatta per decidere su quanto ci viene detto dalla tradizione e dalla consuetudine su Dio e sull’Essere.

 

(continua)

 

21-02-2011

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