Parmenide
Elea, 515 a: C. – 450 a. C.
La storia della Filosofia è la storia delle battaglie che, di epoca in epoca, la Ragione combatte contro il nichilismo. La ragione è la capacità umana più idonea a vincere questa interminabile contesa, per due considerazioni essenziali: perché conosce la pericolosità del nemico e la gravità della situazione.
Essa non si lascia fuorviare da illusioni idealistiche ed empiriche, né le utilizza come succede alla religione e all’arte. La Ragione si dà conto del Niente come Concetto (ossia non lo nientifica), ma lo ripone in se stessa come aspetto di Sé.
Mentre il religioso contrappone unilateralmente ed astrattamente bene e male, considerati come due modi di due Soggettività antagoniste e l’artista rigira intono al bello e al brutto, al pessimismo e all’ottimismo col medesimo senso di naufragio, il filosofo raccoglie in unità reale e razionale, poiché fa della Ragione l’equivalente dell’Oggettività, senza mai correre dietro all’immediatezza delle passioni e della chiacchiera (doxa). Per questo atteggiamento, accoglie solo il senso dei fatti, di ciò che è “essente” nella casa dell’Essere, in quanto fuori dall’essente e dall’essere (quanto è qui davanti alla mia esperienza) non si pone alcun problema (framm. 6,7, 8).
Perciò, i filosofi tutt’al più distinguono tra “svegli e dormienti” (come sappiamo da Eraclìto, riproposti in altra dizione dallo stesso Parmenide, da Jeshuà fino ai nostri giorni ) mentre i preti parlano, da improbabili pulpiti, di “fedeli ed infedeli”, “credenti e miscredenti”, denominazioni estranee al pensiero filosofico. Per la Verità (l’alètheia) solo i fatti sono sempre fedeli a se stessi, qualunque sia il loro porsi, mai disseminati tra inferi e paradisi inesistenti.
La filosofia, nella sua clemenza, accoglie ciò che è, sempre, sub specie aeternitatis, riservando all’intimità di se stessa l’Assoluto, fermo nella compiutezza di Logos che è in tutti e in tutto. Così, ognuno di noi, come ente-essente non si ritrova sperduto né ha bisogno di inutili resurrezioni, giacché trova nel proprio pensiero il senso dell’Assoluto e se ne magnifica.
Dopo l’aurora di Anassimandro, la fondazione di Eraclìto e Parmenide, la filosofia si è sperduta dietro sirene che, in duemila e cinquecento anni, l’hanno fatta “pensare” solo al convivio di pochissimi, mentre il senso comune non ha mai compreso pensieri siffatti.
Tutti riconoscono che esporre il pensiero di Parmenide è cosa ardua. Per quanto ci riguarda, non solo è “cosa” complessa, ma non sempre esposta nella giusta prospettiva. La filosofia di Parmenide è stata spiegata in irriducibile antagonismo a quella di Eraclìto, mentre è vero il contrario: Eraclìto fu il suo punto di partenza, per un discorso originalissimo che dà fondamento tanto all’ontologia, intesa come scienza dell’Essere che alla “Meta-fisica” come la scienza del Logos.
Disgraziatamente per lui che si batté strenuamente contro il pensiero negativo, Parmenide è stato utilizzato, in maniera duratura, quale fondatore del Nichilismo. La responsabilità di questa nefasta evenienza è però di quanti continuano ad interpretarlo, senza capirlo, con una sterile ed inutile contrapposizione di essere e non essere.
Il nucleo da cui bisogna partire è compreso in poche righe, che rappresentano da sole un incommensurabile patrimonio. Per Parmenide non è lecito porre il problema: esiste la Verità o molteplici Verità? Infatti per lui la verità è sempre verità di qualcosa o più precisamente è sempre verità di qualcosa che mi si pone hic et nunc: la verità semplicemente “è”. Questo “è” è l’Essere, che non è mai l’Essere extramondano, ma è questo oggetto qui, questo fatto qui, nel preciso momento in cui lo individuo. L’Essere è “presente”, non è mai passato o futuro.
Non si può sfuggire a questo “procedere” senza cadere nel “paradosso” di scindere ancora una volta Essere e Pensiero, mentre per Parmenide “lo stesso è pensare ed essere” (fr. 3), e il pensare è un “pensare a” così come l’essere è “essere per”. Sono gli uomini “dalla doppia testa” che presuppongono un puro pensare o un essere indipendente dal pensiero.
Dunque, questa finitezza dell’Essere è per Parmenide “la rotondità” del Vero, il suo presentarsi “fuori dal tempo”, “indistruttibile”, “immobile” e tutto quanto s’addice a “quanto viene pensato qui e ora”.
Chi potrebbe modificare o pensare diversamente “questo fatto qui”? Infatti di esso non è possibile “dire e non dire”, dire “che è e che non è” questo fatto qui.
Quest’ultimo pensare fallace (doxa) s’arresta davanti “alla porta” della “casa dell’Essere”, in cui “sempiterna” abita la Dea o l’alètheia (la Verità).
Consegue che non è più proponibile una “trascendenza”, né che l’ente si nasconda dietro/dentro l’Essere o che L’Essere annichili l’ente. Io sono qui, ora, ogni volta, finché c’è “qui e ora”.
21-02-2011
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