Bakunin e l’internazionale antiautoritaria

Premessa

Da un punto di vista psicologico la reazione del lavoratore nei confronti dello sfruttamento è ambivalente.
Da una parte, potrebbe desiderarne l’abolizione e questo nella misura in cui abbia una presa di coscienza radicale, capace cioè di cogliere in profondità gli aspetti della sua alienazione, ritrovando il lavoro alienato, come frutto della perversione dell’ambiente e della coscienza.
Dall’altra, potrebbe “segretamente” aspirare a sostituire lo sfruttatore e quindi a riprodurre un modo di produzione e un sistema organizzativo fondamentalmente analogo a quello borghese. Questo potrebbe avvenire, tra l’altro, in concomitanza con la propria liberazione, nel momento in cui l’antagonismo di classe sia già a vantaggio della classe subalterna.
Così un riadattamento dello sfruttamento troverebbe buona parte della sua giustificazione proprio nello sfruttato che ciclicamente ne sarebbe sempre l’ottuso strumento.
Quest’ultima operazione, come per il nevrotico, è così forte che, in un primo tempo, si cerca di non riconoscere i motivi reali che giustificano l’abolizione del lavoro e poi, con un’immediata rimozione, viene confinato nell’inconscio ogni desiderio autoritario e ogni tendenza allo sfruttamento del proprio simile.
L’operazione diventa così profonda che sfugge tanto a se stessi quanto a chi osserva, se non fosse che già in molti atteggiamenti, affatto normali, di vita quotidiana, si manifesti, quello che nel capovolgimento della rivoluzione finisce per dimostrarsi nella sua interezza.

 

L’Internazionale

Nell’ambito del movimento socialista, le due reazioni diventano facilmente due correnti e quello che salta immediatamente agli occhi e la constatazione del tentativo di razionalizzare, di trovare ogni sorta di giustificazione al travestimento autoritario, che è sempre e in ogni caso spiegato da considerazioni obiettive, che, alla fine dei conti, sfumano in un realismo superficiale proprio perché ignorano le ragioni profonde che sono effettivamente la “realtà”.
La premessa di rendere al lavoratore la padronanza del proprio destino costituisce la ragione per cui l’Internazionale raccolse le più disparate categorie ideologiche del mondo operaio. Infatti, la proposizione secondo cui l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori medesimi espresse per ogni sfruttato, in tutta la sua incisività e chiarezza, le condizioni imprescindibili dell’emancipazione proletaria. In questo senso l’Internazionale fu effettivamente lo spettro che aggirandosi nei sogni della borghesia li trasformò in continui incubi.
L’opera dell’Internazionale rimane enorme; i suoi meriti incalcolabili. Ma essa, organizzazione umana, si portava in seno l’ambivalenza di ogni sfruttato. Anzi, combattuta interiormente, ne fu distrutta.
La reazione autoritaria, al principio in contrasto latente con le esigenze della liberazione totale e, dopo, sempre più apertamente, fu in ogni caso la componente che si insinuò nel multiforme spontaneismo internazionalista per prepararne la distruzione e approdare sterile e senza forze, ma col proprio narcisismo, a New York.

 

Marx e Bakunin

Marx, con la sua influenza e in relazione alle sue caratteristiche personali, è stato storicamente l’affossatore dell’Internazionale antiautoritaria e disgraziatamente ciò viene inteso un grande merito e un progresso “scientifico”.
Bakunin che, non ostante la sua intemperanza, aveva intravisto e combattuto fin dall’inizio tale pericolo, riuscirà almeno al momento della scissione ad illudersi che la classe operaia avanzasse verso una coscienza antiautoritaria.
Le vicende sono note e spiacevoli per essere ricordate.
C’è tuttavia da credere, proprio per quanto precedentemente considerato e in concomitanza della trasformazione dei due personaggi in simboli, che al di là del dissidio personale, il contrasto sia di un’oggettiva ed estesa dimensione, per cui di fatto, la lotta può logicamente essere presentata come un fenomeno principalmente di massa.
Si può insomma dire in tutta tranquillità che, pur se non fossero esistiti Marx e Bakunin, il contrasto ci sarebbe stato ugualmente e che, se essi ebbero una funzione, fu certamente importante, ma non determinante.

 

Congresso di Rimini

L’azione politica che fa individuare nel contrasto un fenomeno di massa è senza dubbio da ritrovarsi nel Congresso di Rimini (4 agosto 1872) col quale storicamente il movimento operaio italiano si assunse il compito di dare una risposta aperta alla polemica marxista-bakuniniana. E a Rimini questo avvenne al di fuori di ogni diretta influenza di Bakunin; così come precedentemente era accaduto per il Congresso di Sonvillier.
Di fatto il Congresso di Rimini anticipò, con la sua presa di coscienza e un’azione consequenziaria, quello che prima o poi doveva necessariamente accadere. In ogni caso, con una potenzialità organizzativa non indifferente, il Congresso, come dice Nettlau promosse “una delle più belle federazioni dell’Internazionale”, tanto più bella perché per quasi un decennio impresse un indirizzo antiautoritario al socialismo italiano. Inoltre dimostrò che quella presa di posizione apparentemente locale, di fatto non poteva prescindere da un contributo globale che vedesse tutta l’Internazionale interessata in prima persona a spingersi alla decomposizione di ogni atteggiamento autoritario.
La reazione socialista autoritaria che si identifica immediatamente col “comunismo autoritario tedesco” e che voleva vincolare tutto il movimento alla sua tendenza accentratrice, fu l’accusata principale, fu l’antagonista nascosto della quinta seduta e sostanzialmente di tutto il Congresso.
Si disse che il Consiglio Generale, prevaricate le sue funzioni amministrative, avesse usato, e in primo luogo Marx, “mezzi indegni” a sostegno di una prassi da identificarsi ormai col “partito comunista tedesco”, che aveva imposto a tutta l’Associazione Internazionale il proprio indirizzo.
Si riformularono e riaffermarono tutte le tesi che caratterizzavano la corrente antiautoritaria, contro l’accentramento, contro ogni sistema gerarchico, contro ogni dittatura, dal momento che essa è la negazione del sentimento rivoluzionario e allontana irrimediabilmente la possibilità d’una reale emancipazione. Fu postulato e messo in pratica il potere di tutti i componenti.
La federazione italiana (che pur era stata l’ultima in ordine di fondazione della vecchia Internazionale) assunse di conseguenza una drastica posizione nei confronti del Consiglio Generale tanto da sconfessare praticamente il Congresso dell’Aia, ormai delineatosi succube delle mire di Marx e, anticipando il Congresso di Saint-Imier, che storicamente confermò definitivamente la creazione dell’Internazionale antiautoritaria, si definì inequivocabilmente anarchica.

 

Conclusione

Si può, in conclusione, dire che tutto questo processo dalle radici psicologiche e ambientali, ebbe politicamente attraverso il Congresso di Rimini uno sbocco positivo che tese a definire in maniera sempre più determinata il campo d’azione della borghesia.

La “dittatura” del proletariato, come ibrido e sostanzialmente ipocrita travestimento di nuove repressioni, era smascherato chiaramente dalla decisione imprescindibile che socialismo e libertà, che autogestione e potere dal basso, rappresentassero l’unico e insostituibile presupposto per l’emancipazione del proletariato.
L’Internazionale antiautoritaria espresse, con la propria scissione, non solo la volontà di non lasciarsi irretire da nuove formule repressive ma anche la disperazione di aver trovato nell’ambito stesso del proletariato e in alcuni dei suoi migliori difensori un nemico ed un ostacolo per la sofferta liberazione.
C’è una lettera di quel periodo che, forse, più di ogni discorso, può dare l’esempio dello stato diffuso dell’internazionalista. È la lettera di Anselmo Lorenzo rievocante la Conferenza di Londra:
“Il Consiglio Generale e la maggioranza dei delegati erano preoccupati soprattutto dalla questione del comando. Non si trattava di costituire una forza rivoluzionaria e di dare ad essa un’organizzazione adottando una linea di condotta che porti direttamente allo scopo, ma di mettere una grande riunione d’uomini al servizio di un capo.
Io mi vidi solo nei miei sentimenti e nei miei pensieri; o giudicai, forse in un moto di orgoglio che ero il solo internazionalista presente e mi sentii incapace di fare qualcosa di più utile;  e quando espressi con qualche parola, la mia delusione e il mio dispiacere, mi si ascoltò come si ascolta cadere la pioggia, ed io non feci alcuna impressione.
Me ne ritornai in Spagna convinto di questa idea: il nostro ideale era più distante di quanto io non lo avessi creduto, e molti dei suoi propagandisti erano suoi nemici.”
Bakunin vide chiaramente come possa autodistruggersi la lotta per l’ emancipazione; indicò, nel singolo come nel movimento, la radice della degenerazione: “il male si nasconde nella libidine di potenza, nell’amore del comando e nella sete di autorità”.
Ci si potrebbe chiedere a questo punto perché l’Internazionale antiautoritaria sia andata disperdendosi; perché la scientificità” dell’autoritarismo socialista sia rimasta egemone delle lotte e della “teoria”.
Le risposte potrebbero essere tante; dalle più ovvie: la conquista del potere in molti paesi, la sua multiforme presenza mista di compromessi e rinunce.
Si potrebbe dire che un simile socialismo partecipi alla razionalizzazione del capitale, secondo la stessa pretesa borghese, avviandosi a costruire un sistema burocratico mondiale al di fuori delle divisioni “ideologiche”.
Si potrebbe dire che per molti il passaggio da borghese a socialista non sia altro che la continuazione dell’educazione borghese e dei suoi rapporti produttivi, spesso anche potenziati.
Si potrebbe anche dire, tra le altre ragioni, che forse l’uomo si avvia alla propria distruzione più facilmente che alla propria liberazione.

 

 

 

 

(Pubblicato su Volontà, numero speciale per il centenario della Conferenza di Rimini, n. 5, 1972.)

 

13-08-2012

 

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