Modernità e riproduzione del potere

Lo studio del prof. Antonio Costabile (Modernizzazione Famiglia e Politica, Rubbettino, 1996), inizia testualmente: “Questa ricerca tratta dei processi di formazione e riproduzione del potere in una città meridionale dall’immediato dopoguerra in poi”.

Aggiunge, immediatamente, che in tale contesto, intende rilevare “il peso di alcune importanti famiglie sulla vita politica”, considerandole fino alle loro presenti ramificazioni, ossia  a coloro i quali, forse con un pizzico di ironia, vengono definiti “figli d’arte”.

In ogni caso il tutto dovrebbe rappresentare, per l’autore “un cinquantennio di grandi cambiamenti politici e sociali”.

Di ciò cercherò di discutere in seguito, dal momento che è importante, da subito, rimarcare la metodologia, secondo cui il prof. Costabile intende condurre la ricerca.

Dice il prof. Costabile, in tutta chiarezza, che i risultati a cui è giunto “evidenziano la necessità di superare vecchi modelli analitici”.

Quali sono per il prof. Costabile questi vecchi modelli analitici? Sono da abbandonare quei modelli “secondo i quali la forza dei sistemi di appartenenza si coniuga sempre e dovunque con fenomeni di arretratezza, sottosviluppo, amoralità”.

Vorrei che la cosa fosse capita in tutta la sua portata. Il prof. Costabile afferma che parlare dei Mancini, dei Misasi, degli Antoniozzi e consorteria simile, metodologicamente, può avvenire senza parlare della nostra arretratezza, del nostro sottosviluppo e della loro e, perché no? anche nostra “amoralità”.

Su questo punto il mio dissenso non può che essere totale e, proprio perché diversamente non mi sento di abbandonare minimamente “questi vecchi modelli analitici”, desidererei porre all’attenzione dell’autore e di chi ascolta alcune personali riflessioni.

Premetto che un libro non è solo valido per le analisi che propone e per i criteri che si dà. È vero anche il contrario: che un libro sia valido proprio in quanto rende possibili riflessioni diverse.

Ripensiamo, pertanto, alcune delle posizioni del prof. Costabile.

Ritengo che esaminare il contesto di una città, nella fattispecie Cosenza, sia di per sé un impegno difficile. Lo diventa ancor di più quando i parametri di quest’analisi si rappresentano attraverso la cosiddetta modernizzazione, la rete familiare e la politica.

E, tuttavia, l’esame diventa più complesso se il ruolo “extraurbano”, ovvero quello che personalmente definirei il “contado”, viene rapportato al contesto cittadino come fattore di scarsa incisività, accantonando non solo la provenienza “provinciale” delle famiglie di cui si tratta, ma anche il fatto che l’ urbanizzazione delle stesse è avvenuta principalmente per l’ apporto di voti e di consensi acquisiti nei paesi attraverso quelli che, in sede politica, comunemente indichiamo quali collegi elettorali.

E’ dal contado, infatti, che le famiglie costruiscono la loro fortuna politica e la mantengono, anche quando, com’è ovvio passano all’ occupazione di sedi istituzionali e quindi decisionali, che sono forzatamente e per natura “cittadine” e dalle quali diffondono, ancor meglio, il loro potere clientelare, presupponendo che la cosa pubblica sia ormai un loro esclusivo patrimonio personale.

Per le suddette considerazioni sarebbe stato opportuno, nel libro, dare maggiore spazio, a fatti e dati, “provinciali”, per rimarcare ancor più estesamente il peso clientelare e nefasto di queste famiglie. In tal modo, si sarebbe descritto ed individuato, nei principali paesi del collegio elettorale, le sezioni e gli “ascari” che le dirigevano come le reti o, meglio, le ragnatele della concreta formazione e riproduzione del potere.

Comunque, il problema fondamentale, così come ho detto in premessa, è l’utilizzo da parte dell’autore di categorie quali quelle di modernizzazione, famiglia e politica, che data la contrastata fondatezza epistemologica lasciano alquanto perplessi.

Sappiamo che nell’ambito stesso della sociologia non soltanto non sono unanimemente accettate, come, invece, dovrebbe convenire alla scienza, ma, al contrario trovano sempre più una “resistenza d’uso”, specialmente in senso progressista.

Infatti, proprio il legame modernizzazione-clientela-mobililità (che come è ben conosciuto era stato proposto per cogliere certi cambiamenti del Terzo mondo)[1] presenta le maggiori difficoltà di comprensione.

È chiaro, anche perché l’abbiamo vissuta sulla nostra pelle, che non sempre la mobilità sociale avviene per canali democratici, per come lo stesso prof. Costabile riconosce, ma personalmente ritengo che la clientela non possa mai, dico mai, costituire un evento positivo e tanto più necessario.

Semmai, altri studi, e non sono pochi, hanno messo in evidenza la “vicinanza” tra clientela e criminalità organizzata e, non raramente, la copertura politica della mafia attraverso l’intreccio del ricatto politico e il consenso elettorale[2].

Inviterei il prof. Costabile a soffermarsi con attenzione sulla polemica di Habermas[3] nei confronti di Horkeimer e Adorno, allorquando Habermas sostiene che è nelle “realizzazioni perverse della modernità” il segno dell’ incompiutezza del progetto “illumininistico” e  quando ritrovando nel discorso pot-moderno una forma di neoconservatorismo, invita a riprendere una rielaborazione che non spezzi il nesso tra ragione, modernità ed emancipazione.

Così com’è necessario capire nella globalità della sua portata l’affermazione di Alexander[4] che considera la modernità non come una necessità storica, ma come un processo problematico e contingente. Mi soffermerei soprattutto su questa contingenza, tenuto conto che la storia reale è certamente fatta di piccoli eventi, ma che la comprensione, alla fine, sta nell’interpretazione adeguata di quanto essi comportino a livello di progresso civile e democratico.

L’espressione tedesca Ideenkdeid significa propriamente “vestito di idee”. Non vorrei, né mi auguro, che una voglia d’innovazione metodologica diventi ideologia nel senso marxiano e dia solo risultati apparentemente concreti ma globalmente vuoti, portando ad una rappresentazione della società e del realtà “capovolta”, al punto da nascondere la reale condizione degli accadimenti  e  tralasci proprio gli uomini nella faticosa produzione della loro vita materiale.

E credo che, ancor di più, tale preoccupazione sull’uso della categoria di modernizzazione possa essere avvalorata da quanto scrive Bauman[5], allorché giunge, coerentemente, ad affermare che l’ Olocausto, l’ evento più criminale nella storia dell’ umanità, possa inquadrarsi nei termini della modernità, avendo l ‘olocausto prodotto non solo morte, ma ricchezza per il popolo tedesco e consenso per la politica nazista.

Lo stesso Bauman, riprendendo il discorso di Alexander[6], ha notato come l’ambiguità della categoria di modernizzazione, facendo tramontare un’idea lineare e trasparente della storia, abbia portato all’irrimediabile discussione sull’ambivalenza dell’esistere e sull’opacità e contingenza di ogni scelta; ossia abbia reso le analisi confacenti alla semplice, modesta quanto inutile quotidianità.

Non vorrei attardarmi, a questo punto, sul valore “categoriale” dell’élites. Notoriamente la derivazione fascista o parafascista di tale criterio la dice lunga (Pareto, Mosca, Michels per finire alle lezioni sul capo carismatico dello stesso Weber). Certamente è vero che C. W. Mills[7] aveva avvertito sulla pericolosità dell’occupazione dello stato compiuta da ogni tipo di élites e sul fatto che il potere debba essere, quasi per volere divino, ereditato da padre in figlio o secondo un sistema parentale.

Anche lui non si nasconde che il gruppo sia dotato di elevata coesione interna e che tenti sempre di mantenere un’omogeneità di valori e stretti contatti familiari e personali, prefigurando la famiglia come pura e semplice classe dominante, (un problema quest’ultimo a cui Costabile ha dedicato sicuramente attenzione), ma lo esamina col trasparente intento di far capire che l’ autoriproduzione delle oligarchie è inconciliabile con il reale esercizio e sviluppo della democrazia.

Per me non si giudicano una famiglia, una situazione, una società dalla rappresentazione che dà di se stessa.

I soggetti reali sono la miseria, l’arretratezza, il caporalato ossia tutti i volti possibili del Sud avvilito e deriso. Per cui quando si crea un’immagine capovolta della società tale operazione è sempre e comunque la giustificazione dell’esistente e, secondo una vecchia tesi, le produzioni intellettuali valgono non quando puramente descrivono il mondo, ma quando aiutano a trasformarlo radicalmente.

Perciò, ribadisco come mi colpisca profondamente la correlazione tra modernizzazione, mobilità sociale e clientela, perché dietro di essa vedo solo nascosta l’arroganza di chi ritiene impunemente di gestire ed appropriarsi della cosa pubblica, ritenendola un lascito di cui disporre liberamente. Anzi; è la stessa nostra esperienza che ci dimostra che l’esercizio del potere da parte di queste famiglie   presume che è possibile e lecito svuotare le istituzioni e la legalità e, quindi, di fare del lavoro un beneficio feudale, elevando la disonestà a virtù.

Più convincente è la lezione di Procacci quando lucidamente illustra il capitalismo da sfruttamento. Dice che esso è un sistema che produce certo mobilità sociale, ma sulla base del mantenimento di una condizione che è di arretratezza e che tale deve restare, ai fini della continuità della specie padronale.

Pertanto non mi dispiace affatto continuare a pensare con le vecchie categorie e di restare fermo nelle mie idee, ma sono convinto che più si tenta di mandare in soffitta certe metodologie più esse facilmente ridiscendono.

Chiudo qui e spero che il prof. Costabile, che sicuramente avrà inteso il senso costruttivo delle preoccupazioni che ho espresso, dia i più ampi chiarimenti e mi consenta, se è possibile, l’opportuna replica.

 

 

 

Note

[1] Il riferimento è agli studi del secondo dopo guerra.

[2] Gli studi pioneristici, così come gli atti e le inchieste parlamentari, sono stati ormai superati dalle inchieste stesse della magistratura e dalle conseguenti condanne.

[3] J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, I985.

[4] J. C. Alexander, Teoria sociologica e mutamento sociale. In’“Analisi multidimensionale della modernità”, I990.

[5] Z. Bauman, Modernità ed olocausto, I989.

[6] Z. Bauman, Modernità ed ambivalenza, I99I.

[7] Ch. W. Mills: La élite al potere, 1956.

 

(Relazione tenuta nell’Auditorium del Liceo Scientifico di Rogliano, nel  maggio 1997, con il patrocinio della Comunità Montana, in seguito pubblicata  da La voce del Savuto, luglio-agosto 1999).

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *