Antropologia dello spirito: Capitolo 3_L’Intelletto

1 – La sensazione è un’azione rivolta verso un oggetto particolare e ancor più lo è il sentimento. Il loro procedere è induttivo, muovendo dal particolare verso il generale.

L’uomo sembra che voglia liberarsi dalle nebbie che lo circondavano alla nascita e “circoscrive” ogni sua conquista. Crea strutture in cui si muove con sicurezza e da cui esclude l’incursione dell’ignoto, che deve stare ai margini, non più ’interno al “suo” mondo.

In questo processo, che è, di fatto, un’appropriazione espansiva, la mente comincia a tenere fermo un dualismo sconosciuto, quello tra “il sé” indifferenziato e l’altro indifferenziato, che nel caso del sentimento diventa parossistico in quanto “non lo distingue” e contemporaneamente lo vuole del tutto far proprio.

Esistere è “sé”, centralità del proprio ego, delle proprie scelte e del proprio operare.

In questa prima fase, ciò che vedo o sento e “mi piace” deve essere “mio”. Il sé costituisce una relazione tolemaica al cui centro sta lui stesso e intorno gira tutto l’universo e l’universalità del proprio sentire e del proprio volere.

Quando l’intelletto inizia a definire il suo ambito, il suo è l’identico atteggiamento delle precedenti facoltà.

Il concetto delimita. L’intelletto incatena l’oggetto alla particolarità che gli assegna e lo fa dandogli “la” rappresentazione concettuale. Quest’oggetto è “questo tavolo” e resta “tavolo” perché è così definito e non può essere detto diversamente.

Questo incedere assiomatico costruisce il linguaggio e ne fa il veicolo del sapere. Attraverso l’intelletto, l’oggetto è uguale al “suono” che l’uomo gli assegna e le operazioni che s’incominciano a fare sono prerogative di pura associazione e sommatoria.

Il concetto dunque diviene categoria e il ragionamento pone, con apparente semplicità, l’immediatezza descrizione dell’empiricità nella sua presenzialità. Detto in altre parole, la rappresentazione è “calcolo” attraverso il quale ogni cosa è detta e posta “nel” sistema che è ritenuto, dato, provato, oggettivo.

Questo dell’intelletto è il primo grande dommatismo che comincia ad impossessarsi della coscienza, superando “genericamente” le “variazioni” proprie della sensazione e del sentimento. Con l’intelletto, tutto è reso “freddo”, “certo”, si forma la condizione mentale della sicurezza e su di essa la possibilità di costruire “sistemi”.

Questa maniera di intendere il mondo “in forma egocentrica” è l’esemplificazione dell’atteggiarsi e del procedere dell’intelletto. Infatti, la questione di fondo è che l’intelletto si arroga di prerogative che non sono assolutamente certe, ossia la stabilità del concetto, la conquista della verità e la saldezza della mente, quando esse non sono altro che “verba”, facendo riferimento a tutto un mondo illusorio che è, proprio “in sé”, insicuro, incerto e instabile.

Tuttavia, siccome questo modo di procedere permette all’uomo di gestire la sua piccola struttura, esso è ben accolto come tutte le fantasie che assicurano il sonno.

L’intelletto è l’equivalente della casa di cui si è parlato in precedenza: è per definizione un rifugio, anche quanto tutte le esperienze dimostrano il contrario.

La quasi totalità degli uomini non è uscita da questo sonno dommatico e quando per avventura perviene ai sistemi della ragione e, molto raramente alla “condizione” dello Spirito, li sente come un fastidio, un fardello di cui liberarsi.

L’educazione è dunque questa iattura: inquadrare, circoscrivere, determinare ecc., un modo si spezzare continuamente l’essere, di fatto, un abbandonarlo, un volerlo rinnegare.

Naturalmente il punto di errore è tutto nell’aver creato un’insanabile frattura tra soggetto e oggetto, tra io e mondo, tra sé e gli altri e in questa lacerazione aver prodotto mondi unilaterali, pericolosi e assurdi nella loro semplicità.

E non si può dire che l’uomo l’abbia fatto per utilità, poiché è utile, al contrario, guardare il mondo senza sovrastrutture, avere la coscienza libera e aperta, coscienti non delle “cose che si toccano”, ma del destino che ci spetta.

 

2 – Il compito dell’intelletto è comunque essenziale per il pensiero, poiché la coscienza si costituisce quando una cosa è portata a concetto. Sulla rappresentazione si fonda la certezza del sapere, proprio perché ad una cosa corrisponde un atto del pensiero.

Se io do ad un oggetto la denominazione di tavolo, non solo lo presento a me stesso, ma rendo possibile la considerazione di ogni altro tavolo presente e futuro.

Ciò non significa che io, rappresentandomi un oggetto, lo faccia esistere. L’oggetto esiste indipendentemente dalla sua concettualizzazione, ma, è “in sé” ed essendo in sé non si rende disponibile per l’intelletto che pertanto non lo può considerare. Come si vede, c’è una capziosità sofistica quando si sostiene che la rappresentazione “dà esistenza”, mentre è vero che senza “l’esistere” di un qualcosa non è possibile che si dia il concetto e dunque la rappresentazione.

Posta correttamente la questione, presenta “un soggetto conoscente” ed “un oggetto della conoscenza”, che, presi in maniera indipendente sono entrambi vuoti. Non esiste “un pensiero in sé”, né d’altra parte “un oggetto in sé”, se per pensare intendiamo l’azione di ricapitolare il mondo nella coscienza ossia il fatto che il pensiero è sempre pensiero di qualcosa e il qualcosa giunge a farsi rappresentare se diventa oggetto per il pensiero.

Che l’oggetto abbia esistenza in sé non è interessante per il pensiero, poiché certamente esso “non è in grado” di preoccuparsi di qualcosa “di cui non sa”. Pensare il non pensato non è un assurdo logico, ma la non esistenza del problema stesso.

“La cosa in sé” serve a ricordarci che il pensiero non esaurisce il mondo e per dire che il mondo resta sempre un’officina inesauribile per il pensiero. Esso forte di quest’apprezzamento non considererà se stesso come un “creatore” del mondo, ma continuamente si rivolgerà all’esperienza quale fonte del sapere.

E’ con quest’attenzione che noi ci rivolgiamo agli altri e ci aspettiamo che anche gli altri condividano le nostre rappresentazioni, per cui possiamo dire che “l’esperienza comune” è l’emarginazione continua della cosa in sé.

Non secondario è che su di essa si costituisce l’attività della ragione che supera i limiti descrittivi dell’intelletto e fa della rappresentazione il momento fondativo delle sue costruzioni logiche. Così possiamo dire che l’esperienza sta all’intelletto come la logica sta alla ragione e non perché l’intelletto sia sprovvisto di logica, giacché “una logica” in quanto tale esiste per ogni facoltà, ma perché la logica in quanto “idealizzazione” della realtà è propria della ragione.

 

3 – Lo spazio e il tempo sono le condizioni del pensiero in generale. Nel caso del concetto significano che io trovo “quell’oggetto” in un particolare luogo e in un determinato tempo, senza i quali non si fa presente alla mia coscienza. Come già detto sono questi limiti che fissano l’azione dell’intelletto e costituiscono anche la sua forza nella coscienza. Essa, infatti, quando nutre dei dubbi sulle azioni delle sue facoltà si rivolge, in ultima analisi, all’intelletto, a cui spetta di stabilire se ciò di cui si ha sensazione, si parla ecc. esiste “veramente”.

Spazio e tempo sono dunque la casa della certezza e in essa consiste la validità del nostro operare “intellettualmente” senza aggirarsi per mondi illusori.

Anche l’illusione stessa ha bisogno dello spazio e del tempo in quanto, nel suo vagabondaggio, deve credere che le sue chimere debbano esistere almeno per un cero periodo e in qualche modo.

Ciò vuol dire che, analogamente, tutte le facoltà sono debitrici all’intelletto del loro operare, poiché hanno bisogno del richiamo della rappresentazione spazio-temporale per comprovare la validità delle rispettive affermazioni.

 

4 – All’interno dello stesso intelletto avviene la subordinazione dello spazio al tempo e non perché sia realmente così, ma perché nell’intelletto si forma “l’io” quale somma di tutte le rappresentazioni.

Quest’io diventa il vero gestore della mente. La sua azione unificatrice, il suo corrispondere alle “esigenze del tutto”, garantiscono che tutta l’esperienza non si disperda, anzi non vada perduta. Infatti, è propria dell’io, che impone la priorità del tempo, la formazione e la conservazione della memoria.

Tutto è in un certo senso memoria e lo è nel senso più ampio. Infatti, già la rappresentazione non potrebbe darsi se non venisse conservata. Di modo che siamo costretti a ritenere che la memoria sia una “condizione innata” dell’uomo e che nessun’altra specie possiede. Già prima del nostro ingresso nel mondo conosciamo “le condizioni” entro cui “vedremo” il mondo. Su questa certezza si fonda la possibilità di affrontarlo e la prospettiva di “non dimenticare” le cose che ci verranno incontro.

 

5 – Nel momento in cui l’intelletto si costituisce in “io”, cioè ha la consapevolezza di possedere una capacità di memorizzazione innata che permette e conserva la conoscenza, rende partecipi di questa consapevolezza le precedenti facoltà. Sensazioni e sentimento sono costretti a ristrutturare il loro campo e ad inserirsi sotto il dominio dell’io.

Con l’io, l’individuo è adulto. Non che sia esente dal commettere errori, ma in questa nuova condizione di “individuo” è capace proprio di individuare e superare gli errori, essendo ormai divenuto qualcuno che conserva memoria di ogni tipo di esperienza.

 

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