Antropologia del cristianesimo: Sezione 2: Gesù di Nazareth: Jeshuà di Nazareth: In laboratorio

(Gesù) – Jeshuà di Nazareth: In laboratorio

 

1 – Introduzione

Chi ha letto l’Introduzione alla mia Storia critica della filosofia capirà le ragioni che mi spingono a inserire Jeshuà (Gesù di Nazareth) in una Storia del pensiero filosofico, anzi, mi fanno ritenere che Egli abbia dato una svolta epocale al pensiero, avendo riportato definitivamente Dio all’uomo e l’uomo a Dio. Per dirla in linguaggio metafisico, Jeshuà, affermando che il Logos non se ne sta “in cielo”, ma giunge all’uomo attraverso l’uomo, ha fatto di ognuno di noi l’unico soggetto responsabile della storia umana, unico attore del vero, del giusto e del bello, attore sempre “interno” al bene e al male.

 

2 – Che cosa sappiamo di Jeshuà?

Dalle fonti che possediamo, spesso contraddittorie, rimaneggiate fin dalla loro stesura o pericolosamente fantasiose, oltraggiate da “interpretazioni” imposte dalla pura violenza fisica, forzate da adattamenti e snaturate, possiamo trarre alcune notizie abbastanza certe.

Poche anni prima della morte di Erode il Grande, avvenuta nel 4 a. C., Giuseppe, un falegname di Nazareth, in Galilea, ebbe da sua moglie Maria un figlio cui pose nome Jeshuà, in una famiglia di altri figli e figlie.

Jeshuà lavorò col padre finché questi morì, lasciandolo orfano pochi anni prima dell’inizio della sua straordinaria attività. Presumibilmente Jeshuà, ligio al dovere e alla consuetudine ebraica, ebbe un’educazione rabbinica, acuita da una particolare predilezione per Dio, la Torah e le correnti apocalittiche contemporanee.

Fino al suo battesimo nel Giordano, ad opera di un predicatore molto popolare, noto come Giovanni il battezzatore, si sa poco e niente di Jeshuà, a meno che non si voglia tenere in considerazione alcuni racconti inutili e folli.

Dopo il battesimo e una conseguente crisi esistenziale devastante, iniziò la sua breve e intensa “attività pubblica”, la cui durata, è ritenuta dagli esegeti da uno o a tre anni.

L’insegnamento, dapprima sulla linea dello stesso Giovanni il battezzatore, poi espresso in una nuova, personale, definitiva enunciazione, fu gradatamente teso a far coincidere la sua figura di Maestro, prima con il Messia atteso da Israele e infine con il Salvatore universale, “figlio di Dio”, “luce del mondo”.

Questa proclamata messianicità entrò in urto con i poteri religiosi del Tempio, ossia con scribi, farisei e sadducei, e dopo, direttamente con il Sinedrio di Gerusalemme.

Jeshuà svolse quasi tutta la sua predicazione nella natia Galilea, dove era sempre vissuto, in un clima di particolare attivismo politico-religioso. Qui trovò i primi fedelissimi, uomini del popolo lavoratore, animosi e predisposti, che scelse come “apostoli”: lo zelota Simone; il barjona (“terrorista!”) Pietro; Giacomo e Giovanni, “figli del tuono” […].

La predicazione di Jeshuà fu finalizzata alla creazione di una società profondamente rinnovata, basata sulla solidarietà fraterna, su una radicale pulizia morale, sul rispetto e sull’uguaglianza degli uomini: una società non violenta, senza alcun potere, tutti ubbidienti a Dio, unico, solo Signore e Padre.

Questa “progetto” radicale, questa strategia non violenta e quest’utopia, furono e sono la differenza con l’ebraismo, con tutti i messia di quel tempo e con i progetti sociali di ogni altra epoca.

Durante la predicazione in Galilea, Jeshuà fu circondato da un alone di autorevolezza, di santità e ritenuto un potente guaritore e taumaturgo, un uomo capace di suscitare eventi prodigiosi.

Quando si spostò in Giudea e, nel periodo fatale per la sua vita, a Gerusalemme, il suo insegnamento si concentrò fortemente contro il Tempio e la casta sacerdotale d’Israele e, in misura minore, contro Cesare e il potere romano. Quest’ultimo fatto fu alla base del “tradimento” di Giuda Iscariota, apostolo molto sensibile e interessato a un rivolgimento politico.

Di questo evento ci danno testimonianza concorde Marco, Matteo e Luca (Mc. X: 33-4; Mt. XX: 17-19; Lc. XVIII: 31-4) i quali fanno chiaramente stabilire che la morte di Jeshuà, nel 30 o 33 d.C., fu voluta, in un impeto di rabbiosa quanto improvvisa controversia, dai capi religiosi del Tempio e in particolare dalla ricca fazione sadducea, filo romana.

Costoro fecero di tutto per suscitare l’intervento sanzionatorio del “potere” ebraico e quindi del procuratore romano Ponzio Pilato, il quale, alla fine, fu costretto a decidere con perentorietà per risolvere queste azioni concitate e soprattutto per prevenire ogni sedizione violenta da parte di noti gruppi di facinorosi, attivi, in quel particolare momento “pasquale” nella città e nel paese.

Fu condannato a morte, per crocefissione, con l’accusa di essersi dichiarato “re dei Giudei”.

Jeshuà morì tra malfattori e fu seppellito nel sepolcro di un fariseo. Il suo corpo non fu mai ritrovato.

I suoi discepoli, dopo pochi giorni di dispersione, restarono a Gerusalemme e predicarono la sua resurrezione e la sua messianicità perfino nel Tempio.

Cinquanta giorni dopo la morte di Jeshuà (periodo conosciuto come Pentecoste) essi erano già liberamente riuniti, con a capo i dodici apostoli (avendo Mattia sostituito il traditore Giuda) e un buon centinaio di seguaci.

Il resto è storia, non più di Jeshuà ma della comunità cristiana (e, in qualche modo, dell’azione di Paolo di Tarso) fu tesa a un’inarrestabile espansione. L’elaborazione dottrinale delle vicende e della predicazione del Maestro, fino al IV sec., messe già per iscritto dopo circa venti anni dalla crocifissione, furono affidate a Concili molto eterogenei e litigiosi. Con Costantino il Grande, l’unità di cristianesimo e impero, segnarono le sorti dei Vangeli, non più di Gerusalemme ma di Roma. Nell’età premoderna, le vicende cristiane si complicarono per le “nuova” predicazione del profeta Maometto e, internamente, alcuni secoli dopo, dalle “eresie” di Lutero e di Calvino.

C’è effettivamente dell’incredibile nell’espansione del cristianesimo, non solo quando, dopo tre secoli, trovò legittimazione presso l’Impero romano, ma soprattutto, agli inizi, quando si affidò a dei poveri “ignoranti”, che dovettero contrastare le religioni e mentalità consolidate, il sofisticato pensiero greco e il diritto romano, vincendo su tutti i fronti.

Sul cristianesimo, nel corso di duemila anni, venne formandosi la mentalità europea sotto la guida principale della Chiesa di Roma e dell’Impero, che, collaborando, la esportarono nei possedimenti coloniali.

Dopo l’espansione islamica, il cristianesimo perse la sua centralità, ma resta a tutt’oggi la religione dell’Occidente europeo, ideologicamente diversa dall’oriente buddista, induista e musulmano.

La nascita della borghesia occidentale ha indotto man mano il cristianesimo a uno spirito ecumenico, tendente a raccogliere i vari cristianesimi e a confrontarsi con le altre religioni, nell’evoluzione straordinaria, nelle gravi contraddizioni e nella violenza inaudita della società moderna e contemporanea.

 

3 – La filosofia greca e Dio
In premessa all’esame della filosofia di Jeshuà è opportuno fare delle precisazioni preliminari.

In primo luogo, volutamente, non è stato tenuta qui in alcuna o poca considerazione la tesi che individua in Jeshuà un fondatore di una religione. Jeshuà annuncia un Regno, che è una “condizione sociale”, uno stato di fatto, in cui si “pratica” un determinato “convincimento”. Essere o non essere cristiano è un problema di coerenza esistenziale proprio in quanto è un problema storico-razionale e non religioso. In questo senso la filosofia jeshuista può stare perfettamente alla pari a quella buddhista, che facilmente troviamo nei manuali scolastici.

D’altronde l’avversione di Jeshuà alla religione, quale fonte di smarrimento personale e sociale, sarà il motivo fondamentale del suo scontro con il Tempio e prefigurerà la ragione della sua condanna. Vedremo che scegliere il Bar-abba (Figlio del padre) del Tempio o il Bar-abba di Nazareth significò l’inutile resistenza dei sacerdoti d’Israele contro la diffusione di un movimento sociale che teorizzava un Dio “nuovo”, padre amoroso e giusto, guida per l’affrancamento dei popoli e, di converso, speranza e garante misericordioso di un’unità umana solidale ed universale, soggetta fino alla fine dei tempi alla ragione ossia soltanto a Dio stesso: il Dio della filosofia, appunto.

Altri fatti, quali ad esempio la diffusione del cristianesimo favorita dall’esistenza dell’Impero universale romano; l’Editto di Costantino e la concretizzazione di una religione cristiana “di stato”; la resistenza dei ceti della campagna (i pagani) e tante altre diatribe, fino alle vicende poco edificanti delle Chiese cristiane e della Chiesa Cattolica in particolare, pur importantissime, esulano da questa Storia.

Per quanto riguarda le Testimonianze, esse saranno considerate alla stregua di quelle che utilizziamo intorno ai filosofi in genere. In questo senso, per Jeshuà, oltre ai Vangeli canonici si è tenuto presente, con poco beneficio, i Vangeli dell’Infanzia, gli Apocrifi più validi, mentre si è considerato nella giusta rilevanza il Vangelo di Tommaso, messo al bando dalle Chiese e ogni altra fonte che non si collocasse oltre il 150 a.C.

Per quanto riguarda la Storia della Filosofia è necessario ribadire alcune posizioni storico-gnoseologiche.

La filosofia, ponendosi come altro dalla poesia e dal mito, doveva necessariamente porsi al di là della religione. La Scuola di Mileto, a cominciare da Talete attraverso Anassimandro, il più esposto a contaminazioni religiose, non concepì alcuna frattura nella realtà. Non c’era motivo di pensare un mondo delle cose opposto a un mondo “altro”. E storicamente questo fu il grande merito che permise il sorgere della conoscenza. Ma gli elementi individuati come archè dai milesi si misuravano soltanto con la mera realtà empirica (l’yle e le sue affezioni), anche quando si presentavano in forma labilissima come in Anassimene. Non a caso, nei fisiocrati, scienza e filosofia, viste anche come immediate fonti di ogni norma morale, erano poco distinguibili l’una dall’altra. Bastò ad Anassimandro, spostare leggermente il punto di vista naturalistico, per capire di più il processo del comprendere, ma non il Logos stesso.

I pre-eraclitei, non ebbero, in effetti, il coraggio di interrogarsi sull’intimità del Logos e non gli rivolsero la fatidica domanda: cosa sei? cosa siamo? come agisci? Ovvero: in che misura siamo in Te e Tu in noi? E tutto quanto a questo consegue. Errore che in seguito commisero Anassagora e Democrito, tanto per fare altri esempi di falsa prospettiva.

Fu Eraclito e Parmenide che posero con maggiore evidenza il problema “Logos” in termini chiaramente filosofici. Nel frammento 32 Eraclito aveva affermato proprio in riferimento al Logos:
Quanto è unico e solo Sapiente vuole e non vuole essere chiamato Dio”.

Per comprendere pienamente il senso di quest’affermazione occorre ricapitolare alcuni risultati stabiliti in precedenza.

Uno dei principali modi d’essere e di operare del Logos, in verità già individuato dai saggi precedenti, era la “Giustizia”, però non mai come Soggettività, che è il vero e proprio peccato originario della filosofia. Ricordiamo, a tal proposito, Anassimandro che delle cose diceva ch’esse “pagano l’una all’altra la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”, facendo il paio col duro appellativo che, nel Proemio, Parmenide dice della stessa Giustizia, guardiana della porta della Verità: “Giustizia, che molto punisce”.

Anche nell’epoca di Socrate e dei Sofisti, quando si tentò di chiarire il particolare rapporto che lega l’uomo al Logos, il Logos al Bene, il “divino” come Soggetto portatore di Giustizia, si mantenne estraneo al pensiero. Infatti, ben poca cosa sono il Demone socratico e il Demiurgo platonico.

Aristotele nei libri che formeranno la Metafisica, aprì la strada con molto disagio al concetto di Dio. Ma non andò sostanzialmente oltre il concetto, peraltro fortemente contraddittorio.

Adesso possiamo chiederci con Eraclito: perché il Logos vuole e non vuole essere detto Dio? La risposta è lapalissiana: perché intorno a Dio, nell’ambito della religione e della stessa conoscenza, si sono dette infinite sciocchezze, tutte nate dall’arroganza umana di fare di Dio una proiezione di sé e delle proprie specifiche condizioni. Quindi tutti i filosofi sapevano cosa non doveva dirsi di Dio e maggiormente non ripetere; sapevano cosa essi stessi avevano detto intorno al Logos: che in quanto Bene si manifesta secondo Giustizia e Verità; principalmente sapevano che essi potevano predicare del Logos fino ad un certo punto, oltre il quale si costruivano favole, e questo “oltre il quale” è la stessa natura umana e la sua storia.

E quando la natura umana fu infine chiarita essenzialmente come razionale, essi affermarono che è lecito dire di Dio solo ciò che è “secondo ragione” ovvero secondo un’intima coerenza logica che debba scaturire da Dio stesso.

Solo col Jeshuà si affaccia nella Storia del pensiero, in forma immediata e assolutamente autonoma,  il Logos nelle connotazioni di Giustizia e Verità e principalmente come Soggetto, anzi Soggetto specialissimo perché misericordioso. E con questo la filosofia dà definitivamente sostanza a tutti i propri pensieri, salvo a cadere, di tanto in tanto, in morbosi smarrimenti.

 

4 – Roma, il potere e Satana
La tolleranza romana, sappiamo che era semplicemente, come nell’antico Egitto, la “predominanza” del dio-potere, incarnato dall’imperatore, il “divino” Cesare, contro cui non poteva consistere un’opposizione costituita. Il culto di Cesare era la stessa cosa del culto di Roma ovvero l’esplicarsi del Potere per eccellenza.

Jeshuà, già nel periodo giovanneo aveva definitivamente individuato la negatività dell’”ubbidienza” ad altri, il “satanismo del potere”, la pericolosità dello Stato per lo spirito. Ma col tempo perfezionò il suo giudizio.

L’opposizione tra Cesare e Dio è assurda, improponibile per natura, ruolo e azione. Rispondendo a delle miserabili provocazioni Jeshuà aveva contrapposto, in exemplum, Dio e l’imperatore, nella stessa misura in cui aveva fatto tra Dio e Denaro (il malcelato Mammona delle traduzioni) e già nel paragone evidenziò che, se Cesare è rappresentato da una misera moneta, egli vale tanto. Su questa opposizione ed inconciliabilità non si può mai transigere, se la Buona Notizia vuole essere rettamente intesa.

Ciò non ostante Jeshuà non intese combattere una battaglia meramente politica, bensì una più vasta e assoluta “guerra” sociale. Infatti, in Jeshuà l’opposizione reale è tra due “popoli”: il popolo di Dio e il popolo di satana. L’uno si serve dell’autorità, l’altro del potere; l’uno vive affidandosi a due semplici comandamenti, l’altro ha bisogno di leggi e tribunali; l’uno ha bisogno di Maestri, l’altro di “Capi”.

Nelle Beatitudine il popolo di Jeshuà è descritto dettagliatamente: i poveri, gli afflitti, i miti, coloro che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati “politici”, coloro che saranno insultati, perseguitati, calunniati perché perseguiranno la realizzazione della “volontà” divina. Costoro sono “i cittadini” del Regno di Dio, fratelli di Jeshuà.

È evidente che questo popolo non ha nulla di comune con “i soggetti dello Stato”, i sudditi di Cesare, i potenti, i proprietari, gli affaristi, i violenti e coloro che sprecano, in mille forme, vita e pensiero.

Jeshuà è comunque assolutamente realista. Sa che il popolo, nel suo complesso, ma anche il suo popolo, è un “gregge” allo sbando, uomini che scambiano l’effimero per la sostanza, soggiacenti alla fantasia e pronti a servire un vitello d’oro. Sa che gli uomini tradiscono, si illudono, peccano e sono d’animo duro. Sa di più: che alcuni sono inevitabilmente vite sbagliate, “immondizia” degna solo di bruciare. Perciò né Cesare né la Legge mosaica potranno essere abolite. Ovvero l’estinzione del regno di Cesare è direttamente proporzionale all’affermazione del Regno di Dio.

I dieci comandamenti sono riproposti in toto per i “non gesuisti”, mantenendo, in contrapposizione alle Beatitudini, la loro caratteristica di essere divieto, precetti del “non” è lecito:

 

Io sono il Signore, tuo Dio, non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

Ricordati del giorno di sabato per santificarlo; sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. T tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.

Non uccidere.

Non commettere adulterio.

Non rubare.

Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

Non desiderare la casa del tuo prossimo.

Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

 

I malvagi, coloro che non trovano, e dunque non hanno, davanti ai loro occhi alcuna salvazione, resteranno “zizzania” che dovrà essere estirpata, erba malefica, consegnata e sottomessa a Cesare ed ai sacerdoti.
Perciò Cesare resta, nella stessa misura in cui continua l’opera di Satana, la “reiterata menzogna”.

 

5 – La preghiera-memoria: il Padre Nostro
Santificare il Logos, credere e agire per l’edificazione del Regno, esaudire la volontà liberatoria di Dio, sia in cielo (in cui vige) sia in terra (dove dovrà vigere), non cadere nella tentazione del potere, era l’unica preghiera che Jeshuà desiderava che i suoi discepoli imparassero ed enunciassero come impegno rinnovato, quotidiano; preghiera che li aiutasse nei compiti immani, dati loro in eredità.
Essi s’impegnavano, pregando, a lottare contro il Maligno, che non è un mitico demone, un ridicolo caprone o una fantasia orribile, ma a tentazione continua che quotidianamente s’insinua nella mente, poiché è la più subdola che esista. Satana è l’inganno che vorrebbe annientare la Verità. Perciò Satana è realmente il Male. Tutto è legato strettamente: non indurci in tentazione e liberaci dal Maligno, dal male che da esso proviene.

Non c’è stato né prima né dopo un ateo (ossia un annientatore di idoli, dei degli uomini) che sia stato più radicale di Jeshuà. Il suo Dio trionfò su ogni altro perché più di ogni altro appariva diverso e spropositatamente nuovo. Il Dio di Jeshuà era Logos Padre, un Logos rispetto al quale salvarsi compete solo ed esclusivamente ai figli, che si fanno da se stessi eletti, disposti alla salvezza, pronti a servire la Verità. Dio è Ragione e gli uomini hanno il dovere di essere ragionevoli.

In Jeshuà la famiglia assume un valore cosmico ed in essa il Padre una valenza ineguagliabile, indistruttibile. Dio è Padre e, in quanto tale, persegue i suoi scopi nei figli e con essi vive e per essi. In Lui non si dà trascendenza, intesa come “altro”, ma la trascendenza come similitudine: nei figli c’è la somiglianza del padre, la discendenza che mai si rinnega, la condivisione della “fatica”, la continuità progettuale, che fa del Figlio compartecipe dell’opera divina, opera che è fonte di ispirazione, di rispetto e di educazione.

Dio è tutto quanto nei figli, perché si sente esaltato nei figli e dai figli.

Jeshuà, in questa famiglia assume il ruolo di figlio più ubbidiente, più laborioso, più compartecipe, più rispettoso. Egli conosce appieno la grandezza e l’agire del Padre e si esalta, come mai si era fatto prima e mai si farà dopo, nella Volontà paterna, con tanto affetto da assimilarsi a Lui, fino ad essere una stessa realtà intenzionale. Se non si comprende la grandezza di questa predicazione, il senso preciso di rapportarsi con il Logos, è inutile dichiararsi Cristiano, poiché Cristiano è essere Padre e Figlio, è seguire il figlio per intendere il Padre.

Da questa posizione di “figli di Dio” possiamo giudicare ogni religione e troveremo che il non-Dio orientale è “riap-pacificante” solo apparentemente; che solo letterariamente può giovarci l’Olimpo greco e men che mai il Dio degli Ebrei, che nella sua positività è completamente riassorbito nel Dio di Jeshuà. Ma forse nemmeno ci serve trovare paragoni e, viceversa, è più utile impegnarsi alla realizzazione dei fini razionali che ci sono stati assegnati.

Padre: è l’origine più prossima, la saggezza, l’esperienza, Colui che razionalmente agisce e pensa, Colui oltre il quale nessuno può amare di più.

Nostro: è essere fedeli a sé, riconoscendosi “da altro”, che non e dissimile, che è e dà senso e appartenenza, “altro” che, in quanto altro, è completamente fuori e pure in noi, a cui ci rivolgiamo per ogni evenienza e aiuto, la fonte che disseta e che mai inaridisce, “padre mio e padre tuo”. Il “nostro” che non tradisce.

Che sei nei cieli: è questa la visione che ogni figlio può avere di un Padre irraggiungibile. Incompreso concettualmente, appena avvertito intuitivamente, ma fermo in qualche parte di sé ad ascoltarci. L’uomo può amare Dio solo attraverso l’anima e la natura, i luoghi del suo vivere, “immaginarlo” nella sua potenza: il resto gli deve essere dato, se è vero che il padre-che-si-china è appena ciò che può chiedere un figlio sempre piccolo.

Dio non è qui o là; non è in cielo o in terra. È qui e là, un punto e un piano, qualcosa che non si sposta: è tanto il punto che il piano e contemporaneamente è qui e là, in cielo e in terra, sotto e sopra; in noi e fuori di noi. Dobbiamo sentire Dio qui e in tutto, sempre ed imprescindibilmente. Il Figlio ama un Padre esclusivamente suo: perciò lo sente qui e lo sente “in alto” e in alto (nei cieli) della purezza; perché ne conosce la distanza, che pur gli abita dentro, in quell’ambito solitario che è la sua più intima stanza (cubiculum). Sa che, se lo chiama Padre è perché tutto da Lui apprende e, dunque, non può che immaginarselo se non diverso. Perché può collocare solo in alto ciò che tutto riempie senza nulla togliersi, perfino la sua labile durata. Proprio da quest’ultima può sperare che Dio di lui abbia memoria, che è la sua vera salvazione.

Sia santificato il Tuo Nome: l’uomo agisce “comunicando” e come fa per le cose, che possono essere comunicate perché hanno un nome, così comprende che Dio è Nome, un nome-innominabile, un Nome che bisogna santificare perché è il-Nome-senza-pari, che non è un nome di un ente, ma “il nome”, che bisogna lasciare inespresso, traslato nell’appellativo iniziale di Padre.

Venga il Regno Tuo: l’uomo sarà uomo, non sotto i Cesari o in un pezzetto di terra, ma uomo-del-mondo sotto l’autorità di Chi gli ha dato il pensiero come coscienza, il mondo come casa.

Sia fatta la Tua Volontà: è alla volontà del Padre che l’uomo delega la sua vita, non perché rinuncia alla sua libertà, ma perché sa che nelle decisioni gravi ed essenziali, la volontà del Padre è l’indicazione sicura. L’uomo, quando marcia nel deserto, non vuole miraggi di indicazioni, ma indicazioni che siano certezze ed ausilio, perciò si affida in mani sicure, restando libero perché nulla gli viene in effetti tolto.

Così come è già in cielo e sarà in terra: è l’affidarsi totale, la consapevolezza che, senza la Verità, si agisce erroneamente tanto in cielo che in terra, perché nulla corrisponderà alla perfezione se non la perfezione stessa che è puramente Dio.

Dacci oggi (!) il nostro pane quotidiano (!): l’uomo deve cercare solo il pane quotidiano, perché il futuro non gli appartiene. È questo l’unico modo di essere sicuro di stare alla mensa del Padre, dove “i tesori” e “il profitto” solo stupidaggini di vite inutili.

Rimetti a noi i nostri debiti: la nostra vita inizia sempre con un debito verso il Padre, un debito verso la Verità, perché senza la Verità siamo bruti e ciò non ostante dimentichiamo spesso, allettati dalla menzogna e dall’inutile.

Come noi faremo con i nostri debitori: debiti “altri”, di poco conto, “la pagliuzza” dei nostri fratelli, che facciamo pesare immemori del nostro libretto-di credenza, della nostra perdurante irrazionalità.

Non ci indurre in tentazione: le concrete tentazioni della vanità, della banalità e della prepotenza, tutte compendiate nella nostra presunzione di essere “potere su altri”, la più grande bestemmia agli occhi di Dio, “tentazioni del deserto”.

Ma liberaci dal Maligno: toglici la Causa del male, il produttore della banalità e del tradimento, l’accecante allettare, venditore di effimero, giacché la nostra è una storia sbagliata, in cui non solo patiamo ma diamo dolore.

Amen: non è una volta per tutte, ma è il rinnovamento giornaliero di desiderarla casa del Padre, guardarlo.

 

 

(I seguenti paragrafi sono in elaborazione)

 

6 – La buona notizia e la nuova alleanza: la fine di tutti i poteri
L’attesa del Logos come pastore non era una novità nell’ambito religioso né nello stesso ambito filosofico. Ma l’annuncio dell’avvento del Regno di Dio ebbe sulla bocca di Jeshuà una portata devastante. Tale annuncio era precorso da una constatazione: che i tempi fossero maturi e la liberazione possibile.

E dire non solo possibile ma subito, non poteva che determinare un’ostilità senza pari.

I sacerdoti d’Israele intesero per primi e chiaramente che l’annuncio della prossima venuta del Regno di Dio non significava altro che la fine d’ogni potere. Nel Regno nessun uomo era più legittimato a comandare; nessuna forma di potere poteva stare di fronte all’unico potere possibile: il potere di Dio; nessun potere poteva farsi visibile contro il potere di Dio, che era in noi. La schiavitù, non solo, ma la semplice sudditanza politico-religiosa era definitivamente allontanata dalla storia, poiché i sudditi di Dio erano corrispettivamente fratelli e figli, uniti in amore tra loro e col Padre.

I sacerdoti ebrei compresero senz’ombra di dubbio che completare la Legge significava abolirla e che questa fine avrebbe ineluttabilmente portato alla fine del Tempio e alla fine di Cesare. La loro arguzia dovette lottare con ogni mezzo per far comprendere tutto questo all’empirismo scettico di Pilato, che mal intendeva le guerre di religione ebraiche.

Per scribi e farisei la verità proclamata da Jeshuà era semplice, dunque pericolosa: la fine del potere era la fine di tutto quanto si era fino allora creduto certezza e necessità, poiché il potere interiore di Dio equivaleva alla pura estrinsecazione della libertà totale, anche davanti alla Legge.

Essi capirono che solo apparentemente il Dio di Jeshuà era simile al Dio di Israele (perché anche Geova si era preso cura sempre del suo popolo), ma seguendo Jeshuà nella sua predicazione, compresero anche prima dei discepoli, che il Dio di Jeshuà era il Dio indissolubilmente legato al Regno e non esisteva indipendentemente da esso. Traendone le logiche conseguenze compresero definitivamente che seguire Jeshuà, significasse negarsi come sacerdoti e come ebrei, annullando tutto il patrimonio levitico nella prospettiva messianica antipotere di Jeshuà.

Israele, in sostanza, doveva scomparire come popolo eletto e doveva aprirsi ad un mondo cosmopolita in cui non esisteva più alcuna distinzione di razza, di potere, di credenza e, tutti, nella diversità esistenziale, finivano per essere espressione solo del Logos, che non stava più fuori, ma originava una storia divina.

 

7 – La crocifissione del Grande Liberatore
La Croce è un simbolo molto equivoco, se non si capisce bene la Notizia dichiarataci da Jeshuà.

L’idea del mondo come valle di lacrime è totalmente estranea alla mentalità di Jeshuà. Per Lui, l’uomo è nato per essere felice e soddisfatto in quanto figlio di un Padre Buono e Santo, che così lo ha concepito e a cui provvede.

L’autenticità dell’uomo non è l’essere per la morte. Al contrario: l’essere autentico diventa estraneo alla morte e non per puro decisionismo o per fatua fede. ma perché in questo lo supporta il pensiero stesso e, principalmente, la Ragione ritrovata che non lo fa più pensare orfano, ma lo riporta, in ogni sua azione, al suo intimo legame col Padre. Questa Ragione (che è poi il cristianesimo perfettamente inteso) annulla definitivamente dalla mente dell’uomo ogni lacerazione tra ciò che è al di qua e ciò che è al di là, superando, come ai vecchi tempi della filosofia, il divario (artefatto) tra fisico e metafisico.

È questa una condizione permanente, a meno che non si recidano i legami col Padre.

Il male è un prodotto umano, in quanto è l’uomo che si fa Satana.

Il Regno dei Cieli è un regno di Beati, di puro godimento (altrimenti “beatitudine” non significherebbe più niente!!), un Regno che viene restaurato e di cui godranno i Beati.

Esso rappresenta la reale resurrezione, non mitica, ma storica e perfettamente umana. È il paradiso non in chissà quale emisfero, ma visibile in questo mondo, in “questo” che è non più quello che “è stato” finora. La sua costruzione è nostra e rinunciarci è un fatto nostro. Dio ci assicura, con la sua autorità, che “ne abbiamo facoltà”.

Con la Croce si apre non l’eternità per noi, che sarebbe un assurdo logico, una incomprensibile presunzione, ma la storicità eterna che è tutt’altra cosa. Fermo restando i diversi disegni della potenza divina.

 

8 – Il dolore
Il dolore è un dato storico, nato dall’autonomia che pre-serva l’uomo che è concepito libero e non schiavo.

Dunque il ritorno a Dio è un ritorno all’uomo riappacificato con sé e col mondo.

La breve passione di Jeshuà è il tributo pagato ai malviventi, ai malriusciti, non è una passione necessaria: è la passione imposta dai nemici del Regno, è la passione che subisce chi lotta per il sovvertimento di un mondo, una rivoluzione nella storia.

Dio sa soltanto che la via dolorosa deve essere percorsa per colpa degli uomini. Egli sa che Jeshuà deve sopportare l’oltraggio da parte di chi ostacola un mondo nuovo: una crocifissione consequenziale.

La sofferenza della Croce è poca cosa, breve e simbolica contro il conservatorismo del male.
Perciò noi dobbiamo pensare un Cristo beato, non crocifisso.

 

9 – Il destino dei figli

Può un Padre misericordioso far perdere un proprio figlio? No, non può farlo. Ma non può violare la legge ossia la Giustizia-che tutto-regge, altrimenti che ne sarebbe degli altri figli? Salvare un figlio che sceglie le tenebre è consentito a patto che il figlio ritorni verso la luce: solo se le tenebre non divorino il suo stesso apparire. Nella Parabola del figlio sprecone Jeshuà illustra l’abbandono e il ritorno al Padre, ma non si stanca mai di ripetere che “non tutti quelli che diranno, Signore, entreranno nel Regno” e specialmente che molti sono i chiamati e pochi gli eletti.

La Giustizia c’è, se c’è libertà. Questo è ben inteso anche dalle leggi dello stato. Il Logos riconosce i diritti, perché vuole riconosciuto il suo diritto, che s’identifica con l’ordine universale, con la sua esistenza stessa. Solo da questo punto di vista è possibile discutere di destino.

Se ci si pone degnamente di fronte al Logos essere liberi o darsi alla volontà del Padre non sono altro che due azioni assolutamente simili, dettate dall’ autodeterminazione. Per quest’ultima la via della ragione è obbligata, giacché in entrambi i casi la ragione rassicura, dà fiducia, dà fede ma non la fede cieca che si crede autonoma dalla ragione. Solo la fiducia o fede fondata dalla ragione e nella ragione rende liberi. Ogni altro contrabbandare avvia alla perdizione.

Tuttavia, non comprenderemmo alcunché, se nell’insegnamento di Jeshuà intorno al rapporto padre-figlio non cogliessimo l’assoluta novità dell’idea dello sforzo congiunto dell’uomo e di Dio (Introduzione) tanto nell’agire che nello stare insieme.

L’Idea del rapporto indissolubile padre-figlio è trasposta nell’equivalente Dio-uomo che è la premessa alla naturale conclusione Dio-Jeshuà. Tutto questo è evidente in chi sa effettivamente capire l’affermazione, altrimenti incomprensibile, di Jeshuà: “Chi bestemmia il Padre sarà perdonato e sarà perdonato chi bestemmia il Figlio. Ma chi bestemmia lo Spirito Santo non sarà perdonato né in cielo né in terra” (Tomm. v. 44). Lo Spirito Santo è l’Unità Permanente, la ri-composizione per cui, come spesso sarà ricordato (vedi Vangelo di Tommaso in particolare), ogni cosa diverrà Uno, giacché non la sintesi, ma il superamento annulli l’astrazione dell’unilateralità (Hegel e poi Marx).

 

10 – L’Inferno e la Gehenna
Una vita sbagliata è una vita “buttata”, una vita fuori dalla legge del Logos è una vita “rifiutata”.
Jeshuà, nell’immediatezza del messaggio parlato, comunicato nell’immediatezza del dialetto, come poteva spiegare meglio il rifiuto  della verità, che è contemporaneamente l’atto di buttare la vita, se non equiparando la vita sbagliata alla “spazzatura”?

A Gerusalemme la spazzatura veniva gettata in un luogo chiamato Gehenna, anticamente già sede di sacrifici umani, che era anche un luogo di fiamme perché  la spazzatura veniva opportunamente incenerita.

Dunque l’ammonimento “i malvagi patiranno le fiamme della gehenna” significa dichiarare chiaramente che il naturale destino dei malvagi è diventare spazzatura.

C’è dunque in Jeshuà un deprezzamento e un riferimento tutto storico che non ha niente da spartire con il fantastico “inferno” escogitato da religiosi sadici e malati, che mal si concilia con la predicazione liberatoria del “regno”.

 

Appunti di lavoro

Dai Comandamenti alle Beatitudini.

  1. A) Mosè fu il più grande legislatore del popolo di Israele.
  2. B) Per quanto riguarda il suo ruolo religioso esso è affidato ai cosiddetti “Comandamenti” a cui Jeshuà stesso farà spesso riferimento.

Per chi conosce Il libro dei morti degli Egiziani esiste una filiazione notevole, tranne i primi due precetti che fanno della redazione mosaica un dato storico fondamentalmente originale.

  1. C) “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.

Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

Ricordati del giorno di sabato per santificarlo sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio.

Non uccidere.

Non commettere adulterio.

Non rubare.

Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

Non desiderare la casa del tuo prossimo.

Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.

 

  1. D) La Legge mosaica è una serie di prescrizioni “in negativo”. Le Beatitudini sono indicazioni di “stati positivi”.

 

  1. C) Le Beatitudini

 

Beati i poveri nello spirito, perché di loro è il Regno dei cieli.
Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati perché chiedono giustizia, perché di loro è il Regno dei cieli.
Beati sarete quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e diranno ogni sorta di male mentendo contro di voi a causa mia. Godete e rallegratevi, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così hanno perseguitato anche i profeti prima di voi.
(Mt, V,3)

 

(continua)

 

01-11-2011

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