Allo scopo di rendere più chiara la mentalità entro cui si rese pubblico l’insegnamento del Cristo e si sviluppò l’attività della chiesa, è necessario fare una breve esposizione della concezione della storia qui sottintesa.
I popoli si elevano a civiltà quando si raccolgono intorno a qualcosa di straordinario e di manifesta attrazione, qualcosa che si presenta come un archetipo, uno scopo che determina e finisce per giustificare il senso della loro esistenza.
L’archetipo è, concretamente ciò che si crede sia sempre esistito e sempre esisterà.
Esso è simile a quello che per noi oggi giustifica la vita sulla terra: la centralità del sole e il suo effetto sulla natura.
Gli egiziani per secoli trovarono quest’archetipo nel faraone, così come i greci nella polis e l’Impero romano nella stessa Roma caput mundi. Intorno a queste forme di potere per millenni si produssero civiltà grandiose, ma più prosaicamente città, vie, tradizioni e lingue.
E, per seguire ancora il parallelismo col sistema solare, come la centralità del sole manifesta la sua azione benefica attraverso i raggi, così gli archetipi delle civiltà agiscono sull’intero sistema sociale utilizzando” figure metafisiche” o “divinità”.
Queste figure, in Egitto si condensarono in teogonie ibride, nel culto dei morti ed ebbero piena visibilità nelle piramidi e nei complessi architettonici colossali dei faraoni, “figli” di quelle particolari “divinità”. In Grecia, una cultura raffinata rese più accogliente la metafisica olimpica dando ad ogni dio, figlio del dio supremo, un particolare “ministero”: Minerva presiedeva la razionalità, Apollo la bellezza e l’armonia, Venere l’affettività universale ecc. fino ai numi tutelari più vicini alla quotidianità stagionale degli uomini.
Roma, che “era” identificata immediatamente con lo Stato e lo stato a sua volta con l’imperatore, non ebbe di queste apprensioni, ma coltivò la sola preoccupazione di accogliere nella sua “potenza universale” tutte le credenze dei popoli sottomessi facendo del Pantheon il luogo dove tutti potessero trovare il loro Dio restando sottomessi all’autorità romana, alla lex.
Nel mediterraneo un popolo sparuto, marginale, il popolo ebraico, fin dai recessi della sua storia, aveva voluto trovare nell’aspetto metafisico l’archetipo stesso intorno a cui costruire la propria identità. Schiacciato da tanti assolutismi, fece corrispondere alla sua impotenza storica una potenza terribile e vendicativa che si poneva contro la storia stessa.
Il Dio degli ebrei era ed è un Dio, per il quale la successione dei sovrani terreni è “spazzatura”, a lui invisa o tutt’al più tollerata e utilizzata. Un Dio che a spregio dei re aveva scelto un popolo di pastori nomadi nella mezzaluna fertile e ne aveva fatto il “suo” popolo.
El, nome primo di Dio, si legittima da sé e si chiamerà Javhè. Non ha paragone:
“Io sono il Signore e non c’è altri.
Io formo la luce, creo le tenebre,
opero il bene e creo il male;
sono io, il Signore, che opero tutto questo.
Il Signore dà la morte e dà la vita,
fa scendere allo sceol e risalirne,
il Signore rende povero e arricchisce
umilia ed esalta”.
Tra Israele e il suo Dio si stringe un’alleanza specialissima che è l’autocoscienza di quelle tribù, equivalente alla loro sopravvivenza.
E tuttavia la presupposizione di tale Dio sarebbe stata risibile se non ci fosse stato un riscontro storico o meglio umano. E questo giunse allorché Dio “parlò”. Chiamò Abramo, il primo degli ebrei, e disse:
“Io sono il Signore che ti ha fatto uscire da Ur dei Caldei per darti questa terra affinché la possegga”.
E se Abramo è il patto, in seguito Giacobbe-Israele diverrà il patriarca da cui si formano le dodici tribù. Ma è a Mosè che spetta il compito di esplicare le forme normative dell’alleanza.
La sua figura nella cultura cristiana è alquanto ridimensionata e distorta. In realtà è da ritenere centralissima e molto simile a quella dei fondatori delle religioni note, pari a Buddha, a Gesù stesso, a Maometto. Appartiene a quella croce angolare che ha rappresentato il primo tratto d’unione tra uomo e Dio.
Mosè, com’è noto, nella primavera del 1447 a.C., liberò il suo popolo dalla servitù egiziana, li portò in maniera leggendaria verso la loro terra, assicurandogli una legislazione perenne, sulla quale fu fondata la nazione d’Israele. Quel Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe si presentò nel suo volto definito “Io sono colui che sono (ehyeb asber ehyeh)”, il Dio unico e vero, un fondamento della coscienza nazionale d’Israele e alla cui fedeltà è impossibile sottrarsi:
“Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho tratto dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù”.
Quando gli egiziani che inseguirono gli schiavi fuggitivi furono travolti dalle acque a coronamento delle piaghe che prima erano state inflitte, Mosè trasse la conclusione che Dio era presso di lui:
“Chi è come te fra gli dèi, o Signore? Chi è come te, maestoso nella santità, terribile in atti gloriosi, operatore di prodigi?”.
Ha scritto Riccardo Calimani in Gesù ebreo[1]:
“La liberazione dall’Egitto diventò il primo momento di un’azione di salvezza in cui fu vista da Israele l’origine dell’elezione, dell’alleanza, l’inizio della sua storia di popolo modello. Gli antichi ebrei, ponendosi con questo patto sotto l’autorità di Dio, ribadirono la loro assoluta indipendenza nei confronti di ogni sovrano terreno mostrando così una violenta e motivata ostilità contro ogni falso idolo. Dio dichiara al popolo servendosi di Mosè:
“Voi avete veduto quello che ho fatto agli Egiziani e come vi ho portati sopra ali di aquila, e vi ho condotti a me. E ora se davvero ascoltate la mia voce e osservate il mio patto, sarete per me tesoro particolare fra tutti i popoli, poiché mia è tutta la terra. Sarete per me un regno di sacerdoti, una nazione”.
Un popolo santo: una condizione esistenziale utopica e terribile.
La rivelazione di Dio a Mosè è grandiosa:
“Ora il monte Sinai era tutto fumante, perché vi era sceso il Signore nel fuoco; e il suo fumo si alzava come il fumo di una fornace e tutto il monte tremava forte”. “Il suono della tromba si faceva sempre più forte: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono”.
Il patto del Sinai ha prodotto la Toràh, la Legge (da intendere non tanto e non solo in senso giuridico, quanto in un senso più ampio), che per il popolo ebreo è stato, nei secoli, insieme insegnamento, dottrina, pratica, religione e morale. In particolare, i Dieci Comandamenti hanno dato espressione all’aspetto universale della missione sacerdotale di Israele, mentre le altre innumerevoli regole rituali erano tutte tese a preparare Israele a essere, nella sua globalità, una nazione «santa per Dio».
Nelle regole minuziose contenute nella Toràh la morale e la religione sono intimamente connesse e sono costruite in modo da far scaturire una dinamica capace di influire beneficamente sia sull’individuo che sull’intera società. L’osservanza o meno della Legge non è più solo una questione privata, ma anche un fatto sociale. Le prescrizioni positive hanno un carattere educativo e un sistema di simboli, detti «segni» e «ricordi», contribuisce a fissarle nella memoria e nel più profondo inconscio dei fedeli in modo tale che il rito fatto di aspetti formali e sostanziali abbia il massimo di ripetitività, consuetudine ed efficacia. Anche le regole negative, per esempio la proibizione di mangiare la carne di alcuni animali considerati impuri, venivano associate all’ideale di santità cui bisognava non solo aspirare, ma anche raggiungere … L’equità e la giustizia non ispiravano solo la legge morale e i rapporti tra uomo e Dio, ma anche quelli tra gli uomini. Nell’Esodo e nel Levitico e nel Deuteronomio viene codificata una legge sociale e morale straordinariamente avanzata rispetto ai tempi e che culmina con la frase: «Ama il prossimo tuo come te stesso». (Pag. 16-18)
Aggiunge significativamente:
“La Toràh regolava inoltre la sfera dei rapporti civili e giudiziari e in ogni particolare restava coerente con un supremo modello di santità che si fondava direttamente sulla santità di Dio: «Siate santi perché io, il Signore vostro Dio sono santo». Santo, in ebraico, si dice qadosh e, se il significato della sua radice linguistica vuole evidenziare la separatezza dal profano, in senso traslato il termine equivale a “puro, splendente”. Santità, gloria e luce sono connesse in uno stretto rapporto:
“Santo, santo, santo
tutta la terra è piena della sua gloria”.
La santità di Dio non è solo luce e splendore; ha in sé un duplice contenuto: da un lato l’inavvicinabilità, il tremendum, la pericolosità, dall’altro la necessità di godere della sua fiducia e deIla sua protezione”. (Pag. 18)
(continua)
NOTE:
[1] R. Calimani, Gesù ebreo, Rusconi, Mi 1995.
28-10-2013
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