Antropologia del cristianesimo: Sezione 1_Alle origini del cristianesimo_La morte e l’illusione

Ogni forma tenta di conservare il proprio stato ma è attaccata da una forza micidiale che prima la svilisce e poi la rende niente. “Tu sei polvere e in polvere ritornerai”.

Questa forza la chiamiamo morte ed è il fenomeno più devastante osservato quotidianamente dagli uomini nella natura di cui essi sono parte integrante.

Essa ha instaurato nello spirito terrore e dolore e nella coscienza ha fissato l’idea che gli uomini non hanno alcuna possibilità di sfuggirle. È l’azione impassibile che compie inesorabilmente l’atto di far mutare le forme esistenti in altre esistenze che vanno incontro ad un uguale destino.

La morte ci consegna ad una fine irreversibile che non consente chiacchiere di continuità. La nascita e la morte sono i limiti entro cui affrontiamo, recitiamo, atteggiamo la nostra storia arbitraria.

La morte non ha giudizi, la morte “è cieca” e se per noi è amara e dolorosa, è una faccenda che riguarda la passione che abbiamo inserito nella nostra inconsistenza e nella nostra impermanenza.

Noi siamo il niente che ritorna al niente, poiché prima di nascere “non eravamo” e dopo la morte ritorniamo a tale stato. “Il prima” della nascita è il “dopo” della morte: tutti l’hanno sempre saputo.

Noi non abbiamo nessun mezzo per cambiare tale ciclo, siamo assolutamente impotenti e inermi. Eppure, l’illusione, madre della speranza, è il testamento che lasciamo a chi resta e che consola in parte noi stessi quando sentiamo, se lo sentiamo, il freddo che arriva e ci inchioda.

L’uomo sa perfettamente come finisce un corpo in questa catena infinita in cui “ognuno vive la morte dell’altro”. Quando l’uomo uccide un animale per cibarsene, lo vede patire con strepiti spaventosi e quando lo scuoia, lo cucina e ne fa una pietanza, di questo nutrimento conosce l’intero percorso.

Perciò l’inesorabilità della fine quasi mai è tema confacente ai discorsi umani, tanto è evidente. L’uomo per parlarne utilizza un’espressione tautologica: la morte è la morte. E ne conferma l’inevitabilità quando, dubitando di tutto, afferma che certo ed evidente ciò che è “sicuro come la morte”.

Così su di essa non dovrebbe crearsi illusioniEppure, la ragione è pronta a ritirarsi sempre in buon ordine, lasciando spazio all’immaginazione, tanto il suo essere è intimamente atterrito.

È dunque sperimentabile come la più parte delle azioni umane sia dettata dal profondo desiderio di dimenticare la propria estinzione e si lavora, si produce, ci si affanna, per tante ragioni ma soprattutto per non ricordare.

La paura e il dolore sono i piedi d’argilla che sostengono tanti giganti di bronzo, dai quali spesso l’uomo si attende che possano perfino dargli “memoria” tra gli uomini, più lunga di quella assegnatagli dalla natura. Le imponenti opere architettoniche, il grande progresso che in ogni epoca progressivamente raggiunge, i libri che scrive, le scoperte che compie, la musica che compone, tutto serve a inebriarlo e a fargli presumere di “allontanare” il pensiero della morte.

La storia diventa un cammino falsamente organico, unitario e celebrativo, mentre ognuno sperimenta nella vita di ogni giorno che non c’è la minima continuità “reale” nella sua esistenza. Caparbiamente coltiva in ogni tempo la “speranza” della durata oltre il divenire e pensa sul piano dell’unità fittizia dell’essere posto come reale e infinito, mentre è evidente che l’Essere è fatto di esistenze che si avviano a morire per scomparire per sempre.

La religione è l’amministratrice di ogni illusione e organizza i meccanismi più consoni a farle assolvere grandiosamente il suo ruolo. Innalza altari e templi molto al di sopra delle case degli uomini, costruisce palazzi immensi in cui alleva le classi da cui seleziona il proprio personale d’eccellenza e si fa potenza economica per assoldare politici, artisti e mezzi di comunicazione che possano tenere gli uomini in questa presunta beata ignoranza e sotto il suo dominio.

Se prestiamo attenzione critica al passato ciò che ci resta dei popoli di un tempo è sempre la “scenografia” che essi hanno costruito contro la morte.

E anche chi non è coinvolto in tale ingrato compito e scrive e riscrive in tutte le lingue e in tutte le forme che l’uomo è una delle tante forme possibili della natura, niente di più, niente di meno, condannato a morire come ogni altro fenomeno, coltiva in cuor suo una qualche idea di glorificazione e di vanità.

La realtà illusoria che ci porta a stare oltre le nostre reali condizioni è di conseguenza una “realtà magica” a cui gli uomini non sanno sottrarsi.

Ma quando “l’apparato scenico” diventa sproporzionato, esagerato tanto da diventare ridicolo, oppressivo, vistosamente irreale, la stessa ragione, che pur vuole essere illusa, non sopporta più queste comparse e chiede di lasciarsi ottundere da altre “fantasie” più sostenibili e coerenti, capaci di conservare un certo ordine razionale anche nell’esagerare e nell’immaginare mondi inesistenti.

Le illusioni sono quindi direttamente proporzionali allo stato delle conoscenze, giacché, in contemporanea, la ragione non abdica al suo compito di comprendere la realtà in cui vive. Accanto al ruolo di “ancilla immaginationis”, che le dà coraggio, essa continua a costruire un “mondo di esperienze” che agevolano il cammino dell’uomo nella vita, alla quale consegna quegli strumenti che l’aiutano a prodursi in maniera più comoda e meno asservita alla penuria e perfino al dolore.

Così per fare in modo che l’immaginazione possa rinnovare le sue funzioni tradizionali, la coscienza le fa dono di un armamentario sempre rinnovato che serve a farle costruire ciò che definiamo “mondo divino” e che ha il suo nucleo nell’idea di Dio. Culto e teologia sono rinnovati di continuo.

La ragione sa perfettamente di non potersi interrogare su Dio, in quanto per definizione “oggetto non fenomenico” posto, dunque, fuori dalla sua portata logica.

Dio non è mai una “cosa”, poiché non ha forma, né termine. È dunque “inconoscibile”, absconditus per sempre. Dio è l’infinito dell’infinito, se volessimo restare sul piano della logica formale.

Deviando da queste conclusioni, la ragione ne parla però continuamente all’immaginazione che la ricompensa con quei regni fantasiosi che inebriano l’esistere.

In concreto, entrambe sanno benissimo che si affliggono a creare “un altro mondo”, un cielo di un “giardino” di eterna felicità, che possa ripagare gli uomini, i singoli uomini, dalle ingiustizie e dalle sofferenze patite in questo.

In tale rovesciamento della realtà, la solerte immaginazione crea un oggetto irreale che funge da mezzo per trasportarci in questo mondo celeste: l’anima.

Essa è la forma illusoria più avvincente perché appaga il nostro “desiderio del sempre”, la nostra fuga dal dolore e dall’arido vero. E la sentiamo evidente quando scopriamo nella semplice esperienza individuale quello “strano” processo per cui il corpo sembra invecchiare più precocemente dello spirito, quasi che i nostri pensieri, in una specie di senile esaltazione, avanzino cavalcando l’antico cavallo di razza che è in realtà un asino stremato.

Questa “presunzione d’essere” ancora giovani, permette ciò che la ragione, rinsavendo, non ci lascia permettere: la resurrezione e l’immortalità.

Così, dimenticandoci l’arroganza ad esse sottintese, ci facciamo simili a Dio e vorremmo anche noi che di queste illusioni si possa e si debba tacere.

Da qui giungiamo al cristianesimo come religione del mondo moderno, alla storia illustrata di un uomo di Nazareth, il quale desiderava concretamente la felicità, la sperava in questo mondo, che è il nostro unico mondo.

Egli, nel suo sforzo titanico, fece una proposta religiosa che di religioso non aveva più niente, essendo senza templi, sacerdoti, liturgia, testimoniata soltanto da piccole comunità di seguaci, che fedeli al maestro, predicavano e restavano in attesa dell’avvento.

Fece una rivoluzione copernicana mettendo al centro un uomo piagato, assistito da un padre celeste che non indossa più armature e spade, ma tende la mano, conducendo più degnamente verso l’illusione vissuta del suo “regno”, nel quale, come avevano predicato gli antichi profeti, l’epoca della gioia diverrà realtà e senza ritorno:

 

“Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra;

non si ricorderà più il passato.

Non si udranno più in essa

voci di pianto, grida di angoscia.

Non ci sarà più

un bimbo che viva solo pochi giorni,

né un vecchio che dei suoi giorni

non giunga alla pienezza,

poiché il più giovane morirà a cento anni.

Fabbricheranno case e le abiteranno,

pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto.

Non fabbricheranno perché un altro vi abiti,

né pianteranno perché un altro mangi,

poiché, quali i giorni dell’albero,

tali i giorni del mio popolo.

I miei eletti useranno a lungo

quanto è prodotto dalle loro mani.

Non faticheranno invano,

né genereranno per una morte precoce,

perché prole di benedetti dal Signore essi saranno,

e insieme con essi anche la loro discendenza.

Prima che mi invochino, io risponderò;

mentre ancora stanno parlando,

io già li avrò ascoltati.

Il lupo e l’agnello pascoleranno insieme,

il leone mangerà la paglia come un bue,

e il serpente mangerà la polvere,

non faranno né male né danno.” (Is 65,17-25)

 

05-12-2013

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