Antropologia del cristianesimo: Sezione 1_Alle origini del cristianesimo_Essere cristiani

Un individuo è cristiano se riconosce come certo che:

  • Gesù ha proclamato l’avvento del Regno di Dio contro i religiosi e le autorità del suo tempo.
  • Ha compiuto molti fatti e guarigioni, entrambi ritenuti “straordinari”.
  • È stato crocefisso.
  • È risorto.

Su queste certezze, che rappresentano l’essenza del cristianesimo, chiunque, legittimamente, può ritenersi un seguace di Gesù.  E poiché la natura della certezza non implica la veridicità, nel credente potrebbero coesistere tanto il credo quia absurdum (credo perché la cosa è incomprensibile) di Tertulliano (155-230) quanto il credo ut intelligam, intelligo ut credam (credo per comprendere, comprendo per credere) di Agostino (354-430).

Chi ritiene, al contrario, che Gesù sia un uomo pio e giusto, un riformatore sociale, un rivoluzionario, un uomo saggio e virtuoso, un illuminato ecc. e ne osserva la morale, può dire di vivere cristianamente, magari assecondato da una propria disposizione naturale, ma non può considerarsi propriamente cristiano.

In quest’ultima condizione si trova anche chi, per una serie di ragioni, sviluppa presunti convincimenti, che lo portano a ritenere che Dio si sia incarnato in Gesù, facendo di Maria, sua madre e sposa di Giuseppe, oggetto di culto parossistico e di “rappresentazioni” insensate.

Quest’aberrazione, nata già nelle primitive comunità cristiane, è frutto di uno zelo pietistico e di un fanatismo che marginalizzano la stessa “figura” di Gesù e il suo insegnamento, alterando con manipolazioni e invenzioni le fonti apostoliche.

Il cristiano, come l’ebreo, dovrebbe avere un sacro timore nel trattare di Dio e dovrebbe totalmente astenersi dal concepire e divulgare false credenze, come ammonisce la Legge:

 

“1 – Io sono il Signore, il tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre me.

 

2 – Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il Signore, il tuo Dio, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione, verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.

 

3 – Non pronunciare il nome del Signore, Dio tuo, invano; perché il Signore non riterrà innocente chi pronuncia il suo nome invano”.

 

La “divinità” di Gesù come la “divinità” di Maria, sono un’insensatezza contro Dio e non hanno niente che li possa rendere indispensabili all’insegnamento di Gesù, che su di essi non ha predicato assolutamente nulla.

Così come, in ogni tempo, è pregiudizievole per il cristiano avere un atteggiamento abitudinario e limitarsi a fare della sua “fede” una mera ubbidienza formale e declamatoria alla tradizione o alla Chiesa di appartenenza.

Di modo che è da attribuire proprio ai critici del cristianesimo il maggiore contributo per un cristianesimo secondo Gesù, ammesso che Gli si possa attribuire l’antica profezia ebraica del Messia (Cristo).

In ogni caso, sulle credenze della Chiesa primitiva s’incontrano tanti vuoti e tante difficoltà, che pregiudicano fortemente la dottrina del cristianesimo e non diventano insormontabili, se si sgombra il terreno da rancori e contrapposizioni poco fraterni tra santi uomini, i quali avrebbero dovuto colloquiare e ascoltarsi con maggiore spirito cristiano.

Per esemplificare, già nel primo secolo, si può fare riferimento alla storia degli ebioniti, una comunità giudeo-cristiana, abbastanza considerata dai padri della Chiesa e dallo stesso Gerolamo (m. intorno al 420). Riguardo a costoro si è agito il modo da non conservarne neppure il vangelo[1], che pure era ritenuto il vangelo in lingua aramaico di Matteo[2]. Dopo averli bollati come eretici (perché non prendevano in considerazione la verginità di Maria, la divinità di Gesù e perché ritenevano superflua la genealogia[3] che solitamente funge da premessa al vangelo di Matteo, loro fonte) vennero, emarginati, condannati e dimenticati.

D’altra parte, gli ebioniti stessi consideravano vero solo il loro vangelo e chiamavano Paolo di Tarso “apostata della Legge”[4].

E’ evidente, al di là della controversia e delle reciproche ostilità, che la perdita di questo documento, di cui si era servito Origene (III sec.) e che era conosciuto fino ai tempi di Eusebio di Cesarea (IV sec.) è di per sé un fatto di estrema gravità e che con altri episodi simili segna la diaspora della Chiesa.

Tutto ciò porta ancora a ribadire con quanta presunzione e faciloneria i religiosi trattano di Dio e come ardiscano mentire e manipolare fatti e cose da mantenere come sacre e inviolabili.

Ritornando alla quadruplice certezza che specifica l’essere cristiani, ognuno può notare come tale accettazione implica non pochi contrasti col senso comune, con modo di essere del contesto naturale e con l’esperienza. Perciò essere cristiani, non è una condizione facile.

Affermare la messianicità “nuova” di Gesù, i miracoli, la resurrezione dei morti, un radicale cambiamento sociale che veda quale unico signore Dio, è propriamente folle. Questo è ben presente nelle Lettere di Paolo di Tarso che sono ritenute scritte pochi decenni dopo la morte del Maestro.

Eppure, l’adesione e l’appartenenza al cristianesimo sono definite già nella costituzione della comunità di Gerusalemme per bocca dello stesso Pietro:

Uomini di Giudea, e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme, vi sia ben noto questo e fate attenzione alle mie parole.  Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino … Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazareth – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -, dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso. Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere[5].”

Confessione di fede che è ribadita dopo la guarigione miracolosa dello storpio:

Uomini d’Israele, perché vi meravigliate di questo e continuate a fissarci come se per nostro potere e nostra pietà avessimo fatto camminare quest’uomo? Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre questi aveva deciso di liberarlo. Voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni. Proprio per la fede riposta in lui, il nome di Gesù ha dato vigore a quest’uomo che voi vedete e conoscete; la fede in lui ha dato a quest’uomo la perfetta guarigione alla presenza di tutti voi … Pentitevi dunque e cambiate vita”.[6]

L’incontro con Gesù redivivo, se non è stato un inganno collettivo più vote ripetuto, conferma le numerose prediche attribuite allo stesso apostolo negli Atti degli Apostoli:

Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”.

Paolo di Tarso, pur essendo personalmente “chiamato” sulla via di Damasco, si rifà a queste testimonianze:

“… apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me …” (I Lettera ai Corinzi)

L’atmosfera è descritta nel vangelo di Marco, che per primo narrò l’evento:

Passato il sabato, Maria di Magdala, Maria di Giacomo e Salomè comprarono oli aromatici per andare a imbalsamare Gesù. Di buon mattino, il primo giorno dopo il sabato, vennero al sepolcro al levar del sole. Esse dicevano tra loro: Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro? Ma, guardando, videro che il masso era già stato rotolato via, benché fosse molto grande. Entrando nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura. Ma egli disse loro: Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro che egli vi precede in Galilea. Là lo vedrete, come vi ha detto. Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura”.

Posto ciò, non possiamo dire che la resurrezione di Gesù sia una semplice speranza per gli uomini, poiché è anche questo e molto di più.

Essa è la conferma al fatto che il Regno di Dio è “già”. Afferma la “messianicità” di Gesù, che non può restare più “segreta”. Testimonia che Gesù, “voce del messaggio di Dio”, ha un posto privilegiato e che attraverso di Lui si può arrivare a Dio. Conferma che Dio si immette, attraverso Gesù, nella storia, configurando il suo Regno come la promessa di una “vita dopo la morte” “in dimore” che si trovano in un mondo oltre la morte.

Così nei racconti, anche se permane la differenza tra il tempo dell’attesa e il tempo della certezza, essi continuamente s’intrecciano, così come s’intreccia la definizione del Regno di Dio, che incide sugli uomini ravveduti di questo mondo e il Regno di Dio come continuità di pienezza in Dio dopo la morte.

E’ dunque chiaro che dirsi cristiano significa essere consapevole dello stretto rapporto dialettico che collega la fondazione del Regno di Dio, la persona di Gesù e la resurrezione di tutti dopo la morte e Dio come soggetto storico.

Il “tipo” gesuano costituisce il “soggetto reale” che è delegato a realizzare il Regno e dunque è parte integrante e sostanziale di questo insegnamento non comune.

Nel primo e nel secondo racconto di Giovanni detto Marco (primo e quarto vangelo), questi soggetti sono dati per scontati, poiché nel periodo in cui veniva scritto il Vangelo di Marco, essi erano i protagonisti delle comunità che si richiamava a Gesù, mentre nell’ultimo racconto c’è la rappresentazione del dramma “umano e divino” di Gesù con l’intento di rafforzare in loro la “fiducia” in ciò che Dio aveva promesso e dato.

Viceversa i racconti di Matteo e Luca, scritti per fini di proselitismo, avendo un intento divulgativo, ne danno una connotazione ben precisa anche se con diverso linguaggio.

Matteo li elenca scrupolosamente:

 

Beati i poveri in spirito, beati gli afflitti, beati i miti, beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati i misericordiosi, beati i puri di cuore, beati gli operatori di pace, beati i perseguitati a causa della giustizia, beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. (5,3-12)

Luca ne fa un ritratto più sociale:

 

Beati voi poveri, beati voi che ora avete fame, beati voi che ora piangete, beati voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo, (Lc 6,20-23)

 

contrapponendoli agli altri:

 

Ma guai a voi ricchi, guai a voi che ora siete sazi, guai a voi che ora ridete, guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi (Lc 6,24-26).

 

In Matteo gli eletti “saranno consolati, erediteranno la terra, troveranno misericordia, vedranno Dio (…), saranno chiamati figli di Dio (…); di essi è il regno dei cieli”.  (Mt)

 

A loro è detto in Luca:

Vostro è il regno di Dio, sarete saziati e riderete”.

Ai reprobi non spetterà nulla perché hanno già la loro consolazione e anzi avranno fame, saranno afflitti e piangeranno (Lc).

Gli Eletti devono rallegrarsi ed esultare, perché grande è la loro ricompensa nei cieli (…). (Mt e Lc).

 

4 – Non si comprende tuttavia né la natura né la portata dell’insegnamento di Gesù se non si determinasse il suo “fondamento”, ciò che sta a premessa e nello stesso tempo a conclusione del suo “messaggio”.

Questo “punto” è la predicazione dell’avvento di un “Dio Nuovo”, di cui gli Israeliti avevano avuto un qualche sentore nella Legge di Mosè, un qualche barlume nelle rampogne dei Profeti, ma che in fondo era totalmente altro dal “loro” Dio. Non c’è dunque alcuna meraviglia che il Sinedrio chiedesse la morte di Gesù con così tanta determinazione.

Il Dio Nuovo non è più il dio degli eserciti, il dio dell’ira, il dio razzista, il dio “di una parte”, è un Dio che è, come detto più volte, Padre di tutti, provvidenziale, munifico, benevolo, un tutt’uno con i figli.

Nella visione di Gesù egli è tanto “amante di ciò che è suo” che si “stabilirà” tra gli uomini per partecipare alla loro condizione, alle stesse disgrazie, allo stesso dolore. Attraverso Gesù, “il primogenito”, “il prediletto” egli realizzerà il suo Regno in terra.

Il vecchio mondo, come il vecchio dio sono al tramonto e il “Dio Nuovo” giunge a partire da “quel tempo” poiché “il tempo è compiuto”.

Sicuramente chi non crede all’esistenza di un Dio avrà difficoltà a capire questa concezione gesuana, questa tensione che coinvolge tutto un pensiero e tutta un’esistenza, ma troverà che esse indicano la più intrigante cognizione di Dio che non trova paragoni in nessun altro pensiero vuoi filosofico vuoi religioso[7].

 

 

 

 

 

[1] Questo Vangelo è conosciuto come Vangelo degli Ebrei e ci restano pochissimi frammenti.

[2] “Matteo in Giudea è stato il primo a comporre il Vangelo di Cristo in lingua e scrittura ebraica, per la salvezza di coloro che si convertivano alla fede dal giudaismo; chi lo abbia tradotto in greco, non si sa con certezza. Ad ogni modo il testo ebraico stesso è tutt’ora conservato nella biblioteca di Cesarea …  Anche a me … è stato dato il permesso di ricopiarlo.” (Gerolamo, De viris illustribus 3)

[3] Epifanio, Panarion haeresium

[4] Ireneo, Adversus haereses I 26

[5] Atti degli Apostoli, traduzione CEI

[6] Atti, Idem

[7] Gesù, in tutti i riscontri che andremo a verificare in merito al suo pensiero, fu denominato in tanti modi, e spesso “dopo” che di Lui si era consolidata una certa rappresentazione, ma per chiarezza, non fu mai definito né si lasciò definire “padre” stabilendo senza equivoci la differenza che esiste tra l’umano e il divino.

 

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