Se è conclusione
Prima Parte
Un uomo si distingue da un altro per le preoccupazioni che ha, per come le affronta, con quale spirito e con quale energia. È molto importante anche sapere insieme a chi si fa tutto questo. Ciò mi ha insegnato la vita o me ne sono reso conto da me.
Mio padre, lasciato orfano dal padre a cinque anni, venne allevato con le difficoltà e con i mezzi che introdusse la madre, erede certamente di una favorevole condizione economica, ma incapace di gestirla. Affidandola ad altri si trovò a faticare duramente. In precedenza, ho descritto le vicende dettagliatamente.
Mio padre, quando si creò una famiglia, fu segnato da quest’esperienza e si mise a lavorare su più fronti. Altri, che, quando non aveva ancora deciso di sposarsi, insieme a lui tiravano la mazza sul ferro alla forgia di Pasqualino Fiorino avevano avuto un destino diverso. Gabriele Vetere, un brillante e arguto intelletto, aveva messo su una falegnameria, con tanti “discepoli”, altri due avevano profittato delle facilitazioni che davano allora ai reduci e si erano presi prima un diploma poi la laurea. I fratelli di mio padre, l’uno, Michele, aveva continuato una delle tante attività di mio nonno e faceva il calzolaio, lottando in maniera allegrissima contro la mala sorte delle malattie e della solitudine che lo circondava ma non lo piegava. L’altro, Antonio, girava a vuoto e si capiva benissimo che era destinato ad una vita inutile, senza figli, in compagnia di altri nullafacenti e con fini di semplice goliardia, che s’addice ad una certa età, ma poi finisce per essere una stupida cosa.
In generale il paese, in quel periodo, ribolliva. Per dirla grossa, la guerra aveva portato una svolta di quelle radicali: niente doveva restare come prima. I galantuomini erano per proprio conto avviati alla sconfitta, i poveracci avevano tanti e tanti progetti.
Col tempo mio padre aveva abbandonato tante attività e noi figli non capivamo che perdeva energie e principalmente diventava sempre più solo. Una volta al forno giravano un sacco di persone che lavoravano sotto di lui. Il forno era faticoso e quando venne chiuso ognuno se ne era andato per conto suo. E così anche la porcilaia, le vendite di pomodoro, delle castagne, che avevano costituito un commercio stagionale ma attivissimo. Insieme se n’era andato anche il camioncino a cui un tempo, quando lo comprammo, facemmo niente meno il battesimo con tanto di prete.
Insomma all’età di settanta anni, mio padre restò con il solo negozio di alimentari e cinque figli e una moglie che nel tempo non aveva più seguito le sue immaginazioni. Era diventato solo. Lo capivo chiaramente quando mi parlava, a me che non avevo più tempo per lui, preso anch’io dal lavoro e da quattro figli da crescere.
C’era stata sempre una relazione specialissima tra me e mio padre già da quando avevo pochi anni. Io non avevo mai lasciato mio padre solo. In tutte le sue attività avevo dato il mio contributo: spontaneamente e perché sapeva perfettamente coinvolgermi vedendo che tutte le più strane sue idee le assecondavano apertamente. Senza nulla togliere ai miei fratelli, io ero io e mio padre cercava malamente di nasconderlo. Sapevo la nostra situazione, esattamente quanti soldi avevamo, perché insieme avevamo costruito una cassaforte e alla banca, quando avevamo iniziato a lavorare in grande, andavo a versare personalmente, facendo distinte e perfino la sua firma. Sapevo cosa avevamo in progetto: una casa nuova all’entrata della piazza e una in campagna. Insomma, di papà sapevo tutto, anche le sue scappatelle e le sue cose intime. Perché io e papà eravamo padre e figlio.
So benissimo che papà puntava fortemente su di me per dare un peso maggiore alla famiglia. Quando gli chiedevo, così tanto per chiederlo, soldi per l’acquisto di libri non disse mai “vediamo”, anzi quando cominciarono a venire offerte per corrispondenza era lui che mi invogliava a comprare. Perché aveva capito la mia intelligenza e non voleva che la sprecassi, com’era successo a lui che sarebbe stato certamente un buon avvocato se non avesse dovuto affrontare situazioni così pesanti.
All’università voleva che frequentassi, ma io non riuscivo a stare lontano da casa, dalla sua casa, e studiavo al focolare con i miei fratelli che facevano baccano e per coprirlo accendevo una radio e non sentivo più niente. Anzi si sviluppò una strana facoltà, quella di registrare tutto quello che avveniva fuori dal libro come un insieme di suoni a parte, che risentivo dopo. E questa facoltà ebbe un ruolo nel mio modo di vivere con gli altri. In genere stavo sempre con i miei pensieri, anche quando eravamo in compagnia, qualunque fosse la compagnia. Poi, a notte, ascoltavo e vedevo tutto quando s’era fatto. Così mi capitava di mettere in evidenza le due cose che mi interessavano maggiormente: chi mi voleva bene e chi mi offendeva e classificavo gli uni e gli altri e li “cernevo”, abbandonando quelli che non soddisfacevano le mie aspettative, senza appello. Cosa che voleva dire o siete come mio padre o non siete niente.
Quando mi laureai in filosofia, mio padre non pensava che lo lasciassi. Ma la vita è la vita e lui capì che questa volta doveva adattarsi a me e lo fece nel nostro solito modo. Cominciò a partecipare alle mie preoccupazioni e rendersi utile. Lo vidi invecchiare, lo vidi solo col suo negozio, con le continue spese che doveva affrontare per crescere la famiglia. Diventammo due esistenze e questa volta ero io pieno di entusiasmo, con mille iniziative, con mille impegni e tanti progetti.
Avrei potuto riflettere su di lui e non lo feci. Lui stava riflettendo non più sulla vita bensì su che cosa era stata la sua vita e divenne sempre più critico, sempre più taccagno, sempre più vuoto e me lo raccontava spesso quando mi fermavo la sera al negozio e stavamo a ragionare e lui che mi raccontava tutte le cose storte che gli accadevano.
Certe sere di inverno, quando la gente in giro era poca perché faceva un freddo cane, lui dietro al bancone con la stufetta scriveva lettere e faceva conti. Mi fermavo o scendevo apposta da casa e mi dava sempre qualcosa da fare. Correggere una lettera, che era un fastidio durissimo, o se gli dicevo che gliela scrivevo direttamente lui non era mai soddisfatto. Un paio d’ore stavamo a “litigare” insieme. Lui avrebbe desiderato, con queste discussioni, di riportare il tempo indietro, io avevo la mia famiglia.
Mio padre quando ero piccolo era molto attento alla mia salute, un’apprensione morbosa. Poi non se ne curò più. Riprese questa sua manìa, pochi anni prima che morisse, proprio perché sentiva le forze affievolirsi e contava su di me per i tanti dolori e le malattie che gli vennero col tempo. S’era dispiaciuto proprio tanto, quando frequentavo la scuola media, della mia caduta dalla bicicletta, caduta che mi aveva cambiato il setto nasale. Quando mi guardava a tavolo, mangiando, diceva: “Ti faccio operare! Ti farò fare il naso com’era prima”. Ed effettivamente mi portò da tanti dottori. Io non me ne curavo perché mi ero abituato e l’aspetto non mi aveva mai ostacolato in niente. Ma quando, dopo, ebbi un avvelenamento da cibo avariato, e quando mi diagnosticarono una policitemia vera e dovetti prendere per tutti gli anni a venire un chemioterapico, lui restò insensibile. Capii dopo perché, perché credeva, in entrambi i casi, che morissi e non voleva che nemmeno l’idea gli attraversasse la testa. Quando superai l’uno e mi stabilizzai con l’altra, pensò quello che aveva sempre pensato: che io fossi diverso.
Nei suoi ultimi tre anni mi vide abbattuto, stanco, deluso e si preoccupò. Nel 95, quando restai a casa solo con i miei figli ed ero proprio fuori di testa, veniva a trovarmi spesso e, qualche volta, portava anche mio zio Antonio. Quel periodo soffrivo molto di artrosi e la cosa non mi abbandonò più, ma fu proprio in quel periodo che ebbi la sua maggiore attenzione: veniva e mi strofinava con quelle inutili creme e si lamentava con mia cognata medico che non mi curava a dovere. Siamo fatti così. Non sappiamo essere soli e se lo diventiamo, non c’è da meravigliarsi se diventiamo insensibili e moriamo.
La cosa sconvolgente è che tutti fanno lo stesso percorso. Ognuno vive in un periodo determinato, che gli dà in parte o gli toglie le proprie possibilità. Quindi, ognuno si preoccupa di procurarsi un lavoro, perché con il lavoro può procurarsi ciò che basta per vivere e, quando gli va bene, a vivere sopra le righe, spesso al di là di quanto gli è permesso. Insomma, una lotta per vivere e lo fa perché può contare sulla salute e sul fatto che qualcuno gli è vicino.
Ma la vita non è così, È un’infinita varietà di esistenze, che sono volti noti. Tuttavia, gli errori che ho notato in tutti, non sono infiniti: si possono contare con una mano.
Mio padre si illudeva molto e fu un bene, perché è questa la fonte dello stare meglio. Col tempo avrebbe dovuto essere più realista, ma era testa dura e il realismo glielo sbatté in faccia la vita. Devo dire che non reagì bene, perché come tutti la maturità degli anni e la vecchiaia non trovano mai spazio adeguato nella mente. E un po’ come la morte. Si pensa che solo gli altri invecchiano e muoiono. Ecco il primo errore: non sapere gestire le illusioni.
C’è poi un’altra cosa legata a questa: bisognerebbe pensare che le cose finiscono, anche se è la cosa più penosa e cattiva da potere accettare. Nessuno ci ha insegnato questo, ci ha educato a questa dura evenienza. L’unica cosa che ci hanno insegnato è quella di dimenticare prima possibile e cambiare al più presto situazione. Cosicché l’infelicità presso gli uomini è diventata un fatto permanente e lo spreco dell’esistenza è un difetto ormai stabile.
Il terzo difetto è che tutti vivono di chiacchiere. Il chiacchiericcio è la colonna sonora di questa società. È come quella perniciosa musica che vorrebbero farti ascoltare e che è rumore o note messe a caso, come colori sulla tela. L’armonia è invece il sale dell’essere e questo gli uomini lo vogliono nasconder a se stessi solo perché non hanno più occhi e orecchie.
Ma l’errore degli errori è che gli uomini non hanno più Dio. Non il Dio di Noè, che ha un senso, ma è in fondo una barzelletta; non il Dio della Torah, a cui si richiamano le tre grandi religioni, insomma non il dio dei tanti preti di ogni foggia, ma il Dio che ti parla e ti ascolta, quello che ho visto sulla bocca della generazione di mia nonna, quello che non mi ha mai lasciato, che mi è di conforto, perché è un Padre buono, un Padre intelligente e a cui puoi chiedere ragionevolmente, che ti riporta sulla giusta via, se tu ti affidi a lui come buon Pastore. Questo Dio è un progetto, e noi non possiamo vivere senza progettare; è uno scopo e noi abbiamo bisogno di scopi; è un valore e noi non possiamo mettere tutto sullo stesso piano e rendere tutto banale; è un compagno e noi abbiamo bisogna di stare bene insieme.
È un Dio che garantisce la giustizia, perché dà e toglie, così come è giusto che sia, finché non avrà fatto capire, anche ai riottosi, cosa è la vita.
Oggi giorno vedo tanti bastardelli che alla minima contrarietà bestemmiano in maniera spaventosa e moltissimi usano bestemmiare proprio il Padre Eterno. Dalla bocca mia e di mio padre non è mai uscito un suono tanto miserabile e stupido. Noi due abbiamo saputo sempre pregare, perché così ho visto fare da papà: dire in silenzio, senza farlo sapere a nessuno, la preghiera che Gesù aveva detto di rivolgere al Padre. Ed è stata cosa buona, perché non ostante gli innumerevoli errori che abbiamo commesso, le nostre stupidità, la nostra pochezza, io e mio padre abbiamo avuto fiducia, questa bellissima parola che chiamano non fiducia ma fede. Se siamo vissuti come ci è stato possibile, è stata così la vita. Però abbiamo detto al Signore che quello che c’era dato e quello da cui eravamo stati preservati non era merito nostro, ma vicinanza sua.
Non desidero dire ad altri quello che non vogliono detto, tuttavia camminare con le nostre necessità, i nostri sogni defunti, le nostre pericolose tendenze, il nostro naufragare è cosa giusta se avviene sotto gli occhi di Dio, che è misericordia e che capisce.
Nel silenzio consumiamo le cose più degne della nostra vita perché nel silenzio riflettiamo e consideriamo le cose nel loro legittimo valore. Un giorno quando fermerete questo vostro viaggio infernale, viaggio senza meta e faticoso, vorticoso da mare a mare, quel giorno non cercherete in luoghi lontani quello che Dio vi dà in ogni posto, vi dà già nella vostra anima, che è piena di tutto se lasciate che lì stiate con Dio.
Quando mio padre pensava alle proprie cose e vedeva quel molto che non gli era riuscito, i suoi insani propositi che non erano giustamente maturati, aveva lo sguardo di chi guarda lontano, di chi sa e non considera la pochezza del momento fatta di gesti e, purtroppo, di persone care, da cui si è profondamente delusi perché pur tanto vicini, così tanto poco hanno visto.
Gli uomini hanno diritto ad essere folli. Ho visto cose che sono state dettate da pura miseria, da quell’idea meschina ed incensata che detta di guardare negli altri cosa ci può essere utile. È giusta l’idea che ognuno dia agli altro quanto è possibile dargli, e, senza risparmio: ma questo avverrà solo nello spirito della compartecipazione, della lungimiranza, della gioiosità, che è tipica dell’essere bambini. Ma bisogna essere bambini per vedere la vita senza peccato.
Gli uomini anziani che ho conosciuto erano uomini rispettosi, capaci di intendere quello che è sale alla vita. Perciò mi trattavano, me bambino, come un loro coetaneo. “Figliulè”, era il loro modo di rivolgersi a me ed io li vedevo come signori, come spiriti inviati da dimore dove abitano uomini saggi, a cui si apprestavano ad andare.
Nonno Francesco, uomo dalle mille fatiche e dalle mille disgrazie, a cui la vita non concesse nulla di riposante, di tregua, uomo che decise di vendere la sua vita andando volontario ad una guerra stupida al solo scopo di essere ucciso, per lasciare una pensione alla propria famiglia, uomo che, seppellito da cadaveri colpiti da bombe nemiche, stette fermo per non essere catturato e di notte, venuto il silenzio, si allontanò per sete dal quel carnaio: si abbeverò in una pozzanghera che alla luce del giorno scoprì essere sangue dei soldati.
Lui che taceva e fu colpito dal fulmine violento del figlio, che morì salendo verso casa e non arrivò mai, perché la vita è sempre interrotta, là dove nessuno immagina che avvenga. Tacque e si disperò mio nonno Francesco, dopo avermi raccontato. La memoria è l’unica vita e l’unico vantaggio concesso dal tempo, che si lascia sconfiggere solo da chi nutre la religione unica e grande del ricordo.
Seconda parte (in costruz.)
06-03-2011
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