Nonna Maria
Nonna Maria, figlia di Eugenio Pettinato, uno stravagante che possedeva un violino Stradivari che vendette per una fesseria, fu chiesta in sposa quando mio nonno poteva esserle più che padre. Quando parlava di lui, nonna lo chiamava come aveva sempre fatto: mastru Rafele.
Ebbe tre figli, Michele, Francesco (mio padre) e Antonio. Le nacquero tra il venti e il ventisei. Il ventisette, mio nonno morì. Era la Vigilia di Natale, a un anno dal compleanno dell’ultimo figlio. Da allora fu una lunga lotta.
Mio nonno non aveva lasciato la famiglia in povertà. Anzi. Era un benestante, per dirla nel linguaggio dell’anagrafe. Dopo un primo matrimonio senza figli e dopo anni trascorsi in America, aveva raggiunto nel paese una buona posizione, che lo faceva ben rispettare dai galantuomini del paese, contro cui, in ogni caso, insieme all’avvocato don Enrico Del Vecchio, grandissimo oratore e Fortunato Colistro, un bracciante integerrimo e irriducibile, aveva organizzato la Società Operaia di Mutuo Soccorso, estromettendoli dal Municipio. Per questo godette dell’amicizia di Pietro Mancini, di Malito, che spesso veniva dal nostro vicino, Fiorino P., col quale cercava di organizzare il Partito Socialista.
Quando mio nonno morì, un po’ tutti fecero a gara per rovinare mia nonna. Illudendola di gestire alcune pendenze, la riempirono di debiti, spingendola a cause inutili. Poco alla volta, le sottrassero la barberia, chiuse la cantina, diede il negozio al fratello e vendette la stessa casa alla bannicella, in cui nacque mastro Rafele. Le restò, perfino ipotecata, la casa più ampia in vico Monastero, dove abitava da quando si era sposata. Sopravvisse con l’attività di fornaia e un fazzoletto di terra detto il prato, nell’omonima località.
In tale situazione, le fu consigliata da parenti e compari di portare i figli in un orfanotrofio.
Partì di mattina presto, con una lettera di raccomandazione, per Pietrafitta, dai monaci. I monaci fecero resistenza, ma lei li convinse con la faccia della disgrazia. Stette con i figli per tutta la giornata. I bambini tremavano e piangevano. E anche lei. A sera dovette andare via e partì sola e pianse per tutto il tragitto.
Giunta a Grimaldi, sfinita aprì la porta di casa, ma non entrò. Si mise a sedere sulla scala della vicina e, appena recuperata un po’ di forza, ripartì per Pietrafitta. Arrivò a notte fonda e si accovacciò davanti alla staccionata. Quando venne l’alba, si riprese i figli e li riportò a casa.
Passò comunque il tempo e, giorno dopo giorno, lavorando dalla mattina alla sera, si sbarcava il lunario.
Poi venne la guerra e, in pochi mesi, tutti e tre i figli partirono. Per mia nonna fu un altro calvario. Infine, ritornarono, malconci, ma ritornarono.
Mio padre cominciò a commerciare di contrabbando, mentre l’Italia era, di fatto, spaccata in due. Una volta, per sfuggire ai militari, se ne stette in un pagliaio per sei mesi, in Sicilia. Riuscì a racimolare le diecimila lire, necessarie per pagare l’ipoteca. Ne era orgoglioso, ma, quando divisero la casa, i fratelli non ne tennero conto e ne fu sempre rattristato. Comunque, quando tolse l’ipoteca, essi pensavano che avesse fatto nient’altro che il suo dovere. Perché era il più capace.
Nella casa di mia nonna si respirava uno strano silenzio, simile a quello di certe chiese solitarie, dove non trovi nessuno e ti sembra di avvertire una presenza nascosta.
A mio padre mia nonna aveva ceduto una camera, così le restarono tre camere grandi più un magazzino, u cellaru con l’entrata.
Quando restò sola in queste camere, poiché nel frattempo gli altri due figli si erano bene o male sistemati, non c’era sera che non bussasse al pavimento o al muro ed era questo il segnale convenuto per dirmi di andare da lei.
Sarà per il nome che porto, certo ero il nipote prediletto, anche perché fui il primo a nascere di cinque fratelli e quattro cugine. Meritavo ai suoi occhi un dovuto privilegio, che lei mi dimostrava con affetto scorbutico, con occhiate che riempivano il mondo.
D’inverno io e nonna restavamo in cucina, d’estate, davanti ai gradini della porta della cava, nell’immediata campagna, a pochi passi dal mulino dirupato.
La cucina era la meraviglia delle meraviglie. Oltrepassato il cellaru, attraverso una scala di tufo, si passava sotto un marchingegno realizzato con travi di legno, che sembravano legare il pavimento al soffitto, con tre grandi tavolacci, dove erano sistemate pentole, provviste e quanto di commestibile portava la stagione.
In essa tutto era composto in maniera esatta. Poggiato al muro, era un tavolo con tre sedie, (le altre le preservava nella stanza attigua). A fianco del focolare, una piccola sedia, due panchetti; di fronte una panca. All’altro lato, una corta e spessa trave, nera di vecchiaia, separava la legna occorrente dal camino, al cui spigolo era da sempre collocata una grossa pietra di tufo scolpita.
Sul lato del focolare c’erano due nicchie, coperte da tendine: là, mia nonna riponeva le cose da mangiare, tranne il pane.
Nonna lavorava a maglia, facendo indumenti di lana o leggeva un libro di chiesa. Fuori il buio, nella luce della luna. Vicino al fuoco bolliva senza sosta una piccola caffettiera di orzo e una pignatta di erbe o legumi.
Io sedevo quasi sempre sulla trave, ma c’era un rito. Se mia nonna andava a sedersi alla panca, significava che voleva raccontarmi qualcosa, allora passavo sulla pietra.
Quando si sedeva sulla piccola sedia, ritornavo alla trave e poggiavo libri e quaderni sulla panca: era l’ora dei lunghi silenzi.
L’unica finestra era alquanto vecchia, rattoppata, ma mai nella stanza si sentì freddo. Anzi, c’era un tepore perpetuo. Ancora adesso non riesco a capire: il fuoco era fatto con poca, proprio poca, legna, ma quei pezzi di legno bruciavano come carboni, sempre rossi, con nonna che li avvicinava man mano, mettendo dietro altri pezzi di legna per tenerlo costantemente ardente. Cenavo quasi sempre con lei e se avessi mangiato a casa, lei mi avrebbe preparato delle grandi tazze d’orzo con un pezzo di fresa di grano.
Non raramente si diceva il rosario e si contavano con un dito i chicchi neri di legno. O si raccontava storie sacre da un breviario dai caratteri ben grandi o avvenimenti antichi.
Ai figli, nonna aveva dato una rigida educazione, anche religiosa. Tutti andavano alla messa prima, quella che era celebrata presto, prima che ognuno si apprestasse a lavorare. Quando i figli la lasciarono, rivolse a me queste attenzioni. Mi portava alle novene, alle messe e ogni venerdì del mese facevamo la comunione, con la solita ammonizione: “Ricordati che domani dobbiamo fare la comunione e non devi bere nemmeno acqua!”
Provavo molta serenità in queste pratiche e durante il rosario mi sembrava di essere quasi sotto una campana d’aria, tanta era la concentrazione e il solito silenzio. Prima di dormire, dicevo le preghiere che lei mi assegnava e poi parlavo tra me e l’angelo custode, fin quando il sonno giungeva, senza avvedermene.
Mio padre mi aveva regalato una statuetta della Madonna, in ambra, e a quella luce nella notte pensavo a come fosse il paradiso. Giunsi ad un traguardo. Divenni chierichetto insieme ad un coetaneo poliomielitico e uno a destra e l’altro a sinistra, servivamo messa. C’erano momenti stabiliti in cui si doveva suonare il campanello. Ce ne erano due: uno a cinque battagli argentati, l’altro con uno solo. A me toccò il secondo e per poter avere qualche volta il primo, dovevo dare a questo amico qualche figurina di giocatore.
A sei anni nonna cominciò a condurmi al prato. Sembrava lontanissimo. Si partiva alle otto e si sostava alla Croce del pozzo, dove riempivamo lei una lancella grande, io una piccola. Il prato era un giardino. Per metà coltivato a grano, era diviso in tante macchie, ognuno con la coltivazione conveniente e con tanti alberelli da frutta e un grande ciliegio al confine, che fu causa di litigi continui con il vicino sottostante: “Nu prepotente cu na povera vecchia”.
C’era in quel fazzoletto di terra una piccola casetta; per meglio dire, metà di una piccola casetta, perché l’altra se l’era portata via il maltempo, la temperia, come diceva lei. Ci serviva per ripararci dagli acquazzoni estivi e principalmente per riposare un po’ e mangiare quello che avevamo portato da casa.
Con noi veniva sempre qualche donna che l’aiutava ed insieme passavamo le giornate fino al vespro. Poi si ritornava a casa e lungo la via era un incontrarsi di tanta gente di campagna, stanca ed allegra. Si parlava fino al paese, poi ognuno rientrava a casa e infine ritornava la sera e la notte.
Quando cominciai ad andare a scuola, lei cambiò orario per le mie esigenze. Ma la sera, i riti restavano uguali. Anzi, si crearono tante complicità per preservarli. Avevamo studiato tanti segnali perché mio fratello e, specialmente le cugine, potessero stare con noi il meno possibile. Fummo scoperti. Allora lei cominciò a raccontare che voleva andare a dormire presto ed ero io che le bussavo alla parete e lei mi faceva trovare la porta appena socchiusa.
Poi il tempo ci allontanò.
Ricordo che ai tempi della scuola media, alla prima classe, m’innamorai, come si può essere innamorati allora, di una bella compagna di scuola, col le trecce e molto studiosa, seria, con la faccia pulita, tranquilla. Le dedicai tante poesie, assorbito da tanto amore. Su un quaderno disegnai il suo volto e tutti i miei amici vennero a conoscenza della cotta.
Ma inizialmente ne parlai solo a nonna Maria e lei, in Chiesa, cominciò a sedersi accanto alla nonna di lei, perché mi disse: “È proprio bella. Fa per te!”. E lo diceva a un ragazzino, che affogava negli occhi azzurri e dolci d’una bambina.
In quel periodo mi accadde un incidente molto brutto. Caddi dalla bicicletta in maniera rovinosa. Portavo mio fratello Antonio sul telaio, improvvisamente lui mise il piede tra i raggi della ruota. La bicicletta s’impennò d’un colpo e io fui sbalzato come un peso morto e non capii più nulla, persi i sensi. La casa del dottore Iachetta era distante dal luogo dove avvenne l’incidente. Mi portarono per le ascelle e per i piedi e il percorso creò una specie di corteo. Quando passai davanti alla casa di zia Erminia G., che quasi quotidianamente frequentavo, lei si era precipitata davanti al portone. Mi raccontò in seguito che non ebbe modo di riconoscermi: “Chi n’è chissu guagliunellu? Uh povarellu!!”
Il dottore credo che si spaventasse, perché mi dissero, anni dopo, che con una facile manovra avrebbe potuto raddrizzarmi il setto nasale.
Non so quando mi riportarono a casa. Fui messo a letto così com’ero vestito perché non riuscirono a togliermi il maglione. Vi restai due giorni senza sapere chi fossi. Non ricordavo come mi chiamassi, né sentivo dolore. Vedevo tante persone, che mi consolavano e dicevano cose strane. Sentivo cose e nomi che non sapevo che significassero. Mio padre e mia madre erano molto preoccupati. Poi il pomeriggio mio padre per caso poggiò sul comodino il diario scolastico dove, avevo scritto il mio nome e, in un alfabeto mio, quello della “mia” ragazzina.
Improvvisamente mi venne in mente tutto e, contemporaneamente, un forte dolore al corpo e alla faccia.
Ricordai nome e fatti, e la dinamica dell’incidente.
Sentivo la faccia gonfia e chiesi a mia madre uno specchio. Mia madre si rifiutò, poi venne il dottore, nelle sue visite pomeridiane, prese lo specchio e mi disse: “Fra una settimana tornerà tutto normale!!”
Vidi e riconobbi solo i miei occhi. Un naso grosso, non il mio, così ben fatto, e specialmente il labbro superiore molto gonfio e pendulo. Mi misi a piangere. Guardai la guancia graffiata e il mento nero. E pensavo una sola cosa: “Come potrà volermi più bene”.
Passarono una ventina di giorni. Quasi tutto si era conformato, tranne il setto nasale. Ma il recupero era stato così prodigioso che non mi preoccupai più di tanto.
La preoccupazione ricomparve quando dovetti ritornare a scuola. Non osai guardare la ragazzina, favorito dal fatto che io ero seduto al primo banco. Dirò soltanto che, quando uscimmo da scuola non potei fare a meno di guardarla e vidi spuntare sul suo viso un bellissimo sorriso di bentornato. Se c’è, la felicità fu quella.
Poi arrivarono gli esami di terza media. E giunse il periodo in cui la vita prese il suo diverso cammino.
Io fui rinchiuso nel convitto di Cosenza e lei in un collegio di una città lontana.
Col convitto terminò la vicinanza con nonna, piccola donna che con gli anni aveva assunto l’aspetto esatto di Madre Teresa di Calcutta. Morì d’infarto, mentre suonava al campanello della farmacia.
23-02-2011
Lascia un commento