Il tempo e il destino: Nel paese di nessuno

Nel paese di nessuno

 

Quando nonna Maria si recava in campagna lasciava la chiave del portone appesa ad un lato. Intorno c’era il vicinato, attento, vigile, con tutti i suoi cristiani, che s’ingegnavano, vagando tra le galline che restavano libere di entrare e uscire dai catoji e ognuna andava a depositare le uova nel proprio posto.
A sera, quando si ritornava dai campi o dalla montagna, non era raro che avvenisse una specie di baratto di quelle povere cose. Quando fuori era buio tutti si rintanavano con le proprie famiglie al lume fioco di una candela o dei vasetti d’olio col miccio. Poche volte si andava da altri, giacché le famiglie non erano come ora, ma un “convento” di nonne, di zie, di nipoti. Ce ne era abbastanza per aspettare il riposo della notte ed ognuno sapeva quando era il turno per andare a letto.
Non era raro che la moglie desse al marito l’appellativo di vussuria (vossignoria) e la madre educava i figli a rivolgersi al padre solo raramente e con il “voi”. Ma già durante la mia infanzia queste abitudine erano andate spegnendosi, anche se non estinte.
Non c’era festa comandata che non si andasse a “trovare” il compare o i più stretti amici, così come gli “obblighi” verso alcuni personaggi, come il medico, l’avvocato, perfino il segretario comunale e, ancor più incredibile, ma con ragione perché era solito chiudere un occhio per i ritardi, l’esattore comunale.
Toccarsi la punta del capello e perfino scappellarsi davanti al compare era un gesto consuetudinario come davanti al crocefisso e quando non lo si incontrava davanti al suo portone come davanti alla Chiesa.
Un mondo strano, dove si litigava spesso con infinito schiamazzo e ancor più facilmente si ritornava amici. Era un mondo tenuto insieme da un principio ferreo: il rispetto.
Non è semplice da spiegare questo sentimento, perché pur esso assumeva spesso connotazioni aberranti, tanto che gli omicidi avvenivano per un difettoso connubio di rispetto e giustizia personale. A me importa, per ora, dire quello che il rispetto era un principio gerarchico non fondato sulla forza, ma sul discernimento delle qualità e dei meriti. A controprova, basti pensare che i galantuomini che lo pretendevano, erano tenuti, nel chiuso delle case, in grande disprezzo, ma per la verità “i nobili” erano pochi e ridotti col tempo a più sane consuetudini.
Si potrebbe farmi un’obiezione: che erano tempi di miseria brutale; che la società è cambiata radicalmente e se non è cambiata come volevamo, è sempre meglio della nostra.
Sono perfettamente convinto che i progressi compiuti, specialmente in quest’ultimi decenni, sono vertiginosi. Basta solo guardarsi intorno. Ciò che mi lascia fortemente perplesso è credere che questa società sia più felice, che la gente d’oggi sia più soddisfatta. Credo che sia solo l’ipocrisia diffusa che nasconda i tanti malesseri, il male profondo su cui si fonda questo benessere o benestare. Sono convinto che quella società della miseria e della malattia non dovesse durare, ma altrettanto fortemente credo che questa di oggi è solo nauseante, sporca, degenerata. Vecchio anarchico per indole e, un tempo per militanza, sono come reduce della guerra di Spagna. Rassegnato, impotente, sopravvissuto, ma vigile.
Quando resto solo, ossia la più parte del tempo, mi monta sempre più frequentemente una rabbia animalesca: non trovo affatto giusto mettere sulla stessa bilancia il progresso scientifico con la perdita di tanti valori. La fine della famiglia, la falsità della religione, la protervia del potere, la stupidità della sinistra, ecc. Cose d’ordine generale. Gli uomini in generale sono degli imbecilli, egoisti, prepotenti. Ma bisogna prenderne atto? diventare un notaio del malessere o un medico che osserva un malato terminale?
La gente di un tempo era sicuramente priva di scolarizzazione, ma non di cultura. Infatti, proprio per l’assenza di questa incapacità di leggere e scrivere si dedicava ai mestieri che più erano confacenti e in cui mostrava grande perizia, tanto che nel popolo si distinguevano chiaramente i “mastri” e i “discipuli”, cosicché chi voleva andare ad apprendere un mestiere non solo non veniva pagato, ma doveva pagare per essere tenuto in bottega. E c’era l’impazienza di imparare, di prestare attenzione, di non commettere errori, di osservare. Questo permetteva ai discepoli di diventare maestri ed acquisire uno status di rispetto.
Nascevano ovviamente delle caste e spesso chi si sentiva più che maestro elementare, difficilmente desiderava insegnare ad altri le proprie competenze. Ricordo in quale grande considerazione era tenuto mastro Luigi F., che aveva fatto un bel pulpito nella Chiesa Madre, oltre vari capitelli, tanto si sentiva un Michelangelo e si faceva chiamare “copomastro”. E certo non mancava di senso estetico. Se non altro per la scarsità di gusto nella maggioranza.
Per le faccende d’ordine sociale, quando non si andava dall’avvocato, esisteva una cerca di anziani che fungevano da pacieri, e dirimevano le classiche liti di confine, di pagamento, di danneggiamento e così via. Era la giustizia degli usi e dei costumi come d’addiceva ad una società rurale.
La svolta che avvenne dopo la guerra fu stomachevole. Bastava un semplice diploma di maestro di scuola per pretendere di farsi chiamare professore, diventare un semplice geometra par sentirsi ingegnere, oppure andare dietro un politico per sedersi dietro una scrivania e da caporale atteggiarsi a generale. Forse era anche giusto, se non fosse che i più idioti si accaparravano queste misere sedie e si sentivano in dovere di sparare sentenze su tutto.
La mia generazione poteva aggiustare le cose, perché non pochi frequentammo l’università e i laureati furono festeggiati in quasi tutte le famiglie. Ma i vecchi marpioni fecero muro e la vecchia presunzione si trincerò nelle sezioni di partito che divennero un incrocio di associazioni a delinquere ed uffici di collocamento, favorendo proprio i più lecchini, i più faziosi, costringendo parecchi di noi a trovare lavoro altrove o ad emigrare.
Poi diventando adulti non sopportammo più steccati, anche perché i vecchi “capizzuni”, venivano distrutti dal tempo e la società dimenticava le campagne, i vecchi mestieri e tutto si modernizzava. I presuntuosi ignoranti vivacchiavano, ma erano residuati bellici, idioti che si parlavano addosso.
La mobilità sociale che si verificò a partire dagli anni Ottanta sembrava partorire quel mondo che non eravamo riusciti a creare nel ‘68. (E che si pretendeva da noi: avevamo solo vent’anni !!) Ma fu il più grave errore di valutazione che feci. Non solo la cultura diventava sempre più specialistica, ma la gioventù nata dalle nostre viscere era boriosa, dedita principalmente a fare soldi, a divertirsi con i sudori della famiglia. Ciò, però, non indica, in fondo nulla: io la vedo profondamente sola, senza riferimenti, educata da madri che ritengono di essersi emancipate solo perché hanno indossato da tempo i pantaloni e i difetti degli uomini.
La miseria di queste donne credo che non abbia paragone in tutta la nostra storia. Distrutta la famiglia patriarcale non sostituirono che il nulla ovvero il libertinaggio più totale e noi ci facemmo castrare, stremati da tante delusioni.
Non trovi un giovane senza un telefonino, un parassita che non pretenda la liturgia del ristorante a fine settimana, un meschino che si prenda la briga di leggere un libro l’anno.
E non posso tacere la cornice: impazzano stupidi cartoni animati davanti a cui ridono persone di venticinque anni, senza parlare di beceri film americani, i soliti poliziotti con i loro cani, i soliti iperbolici scontri di macchine e con loro che con 700 morti addosso restano sempre intatti., col finale scontato davanti a cui mamme e figli stanno attenti e risentiti per ogni minimo disturbo.
Ho elencato solo un po’ di spazzatura. E questa la trovi anche altrove di modo che non esiste più la distinzione di paesano e cittadino.

 

(continua)

 

06-03-2011

 

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