Il tempo e il destino: La svolta

La svolta

I

Ci sono problemi propri dell’essere umano, altri che sono prodotti dall’epoca in cui si vive e da circostanze immediate, altri che sono propri di ognuno.

Ho affrontato i miei problemi come fanno, in generale, gli umani, ma nella maggior parte dei casi, con la fiducia che il tempo risolve tutto, nel mutare di uomini e di situazioni.

Così ho vissuto, apparentemente e per la gente, senza grandi difficoltà, senza problemi: un’esistenza come tante.

Vorrei parlarne, se mi è possibile, con franchezza e sincerità, cominciando da un problema, un grandissimo problema, che mi sono portato continuamente nella mente: Dio e quello che s’intende sotto questo nome.

Ho creduto in tutti questi anni a presupposto che Dio rende la vita più semplice, accettabile. Infatti, se viviamo e moriamo come animali, le cose si complicano maledettamente e tante questioni non possono essere affrontate e men che mai risolte. Anzi, non potrebbero essere poste.

Ho passato l’infanzia non nutrendo il minimo dubbio sulla presenza di Dio. Poi, intorno ai sedici anni, a causa dei preti e del comportamento dei cristiani, ho sviluppato un forte risentimento verso di loro e verso Dio stesso: quasi che il loro Dio fosse il vero Dio.

Così quell’ordine, quella giustizia, quell’aiuto, che provenivano prima da Dio, li richiesi agli uomini, su cui mi feci molte, moltissime illusioni. Questo periodo è durato dagli ultimi anni del liceo, periodo in cui frequentavo anarchici ed ero anch’io un militante attivo, fino alle circostanze che fra poco dirò. Le vicende dure degli anni sessantottini e specialmente gli accadimenti successivi, tra delusioni, stragi fasciste e governi inetti fecero da cornice alla vita quotidiana, in cui poco c’era da sperare sulla bontà e sull’onestà della gente.
Restai, per quasi trenta anni, senza quel Dio e senza quegli uomini e mi costruii uomini immaginari e un Dio domestico. Mi fu facile capire, da subito, che ero in una situazione senza senso, ma non riuscivo a capire da quale parte spiegarmi.

All’epoca della nascita del mio primo figlio, proprio a causa della sua nascita, mi ritrovai con un compagno che non era stato mai ai margini di nessun momento del mio esistere: si può dire che mi si proponeva con la presenza solenne del suo stare in croce.

Continuavo intanto con il lavoro a scuola e con l’attività politica e fui presentato perfino alla Camera dei deputati. Non racconterò tutte queste vicende perché sia l’attività scolastica, pur con i ruoli che ebbi e l’affetto degli alunni, sono nella coscienza, insieme ai fatti politici, come in un limbo: buoni ricordi di fatti generici.

Intanto avevo ricostruito la casa di mia nonna Saveria, dove mi ero sistemato, nascevano altri tre figli e divenni sempre più consapevole della mia situazione inutile, anche se all’apparenza c’erano tante giornate che mi recavano soddisfazione, tanto che coloro che mi stavano accanto invidiavano affettuosamente la prospera e felice condizione.

Restava il dilemma: che ne sarebbe stato di me, della mia famiglia e della mia casa? Cosa valevano le cose che facevo se tutto era destinato inesorabilmente a passare? Cosa facevo di utile senza che qualcuno garantisse a me e ai miei cari una situazione di serenità, una permanenza nelle azioni giuste?

Mi ripetevo quello che mi ero sempre detto: senza Dio, la vita è vuota.

Le stesse persone che vivevano intorno testimoniavano sulla pochezza dell’esistenza. Tutti: disperati che avevano lavorato una vita, crapuloni che avevano passato i giorni a rincorrere donne, a gozzovigliare, a non far niente; gente misurata e di buona condotta, così come i piccoli poveri esseri che pativano ai confini della società, tutti mi dicevano: la vita è niente!!! Che te ne fai di questa vita!!! Tutto passa.

Il senso di queste considerazioni consisteva nel ritenere che la morte, che accompagna la vita ogni attimo, alla fine uscisse sempre e inesorabilmente vittoriosa. E dalla parte di tutti stava l’esperienza quotidiana e una lunga consuetudine di racconti di vite passate come un soffio.

Ricordavo spesso i tempi quando nessun dubbio mi tormentava, quando vivevo ascoltando mio padre che non si faceva mai mancare l’espressione “in grazia di Dio” o con “l’aiuto di Dio”, e allora credevo sinceramente che i buoni sarebbero stati premiati e i cattivi, se non proprio all’inferno, almeno sarebbero stati messi di fronte ai danni che avevano provocato; quando ognuno aveva un angelo custode, forse un po’ guardone, ma comprensivo, mentre nelle circostanze più dure c’era un santo a cui rivolgersi e quel crocefisso sofferente che partecipava così tanto alle nostre pene, innocente e perseguitato, giovane Dio che aveva dato la sua vita per darci una grande speranza.

Venne il tempo in cui non potevo sopportare che gli uomini vivessero come se non ci fosse Dio e contemporaneamente credevano in Dio solo per evitare di pensarci, in ciò collaborati dall’abitudinaria e formale azione della Chiesa. I più intimi capirono che credevo in Dio in silenzio, meglio in segreto
Ero in questa situazione quando mio padre morì, il primo grande, vero dolore, la mia prima grande sconfitta, una specie di abisso improvviso nella mia vita.

Il vuoto dell’esistenza, intravvisto ma eluso molte volte con vari marchingegni, ora stava davanti a me, nella sua realtà, nella sua voragine mostruosa nella quale mio padre, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze, le sue delusioni, veniva macinato come in un tritacarne.

Ecco il punto della mia vita in cui cominciai a cercare un Dio comprensibile alla ragione, misericordioso, affettuoso, guida e misura delle azioni, grande artefice della bellezza della natura.
Non so se la perdita di mio padre sia stato il presupposto della ricerca di un Dio Padre. Sicuramente ho pensato che, se non fosse esistito Dio, avrei perduto definitivamente e senza alcuna speranza chi mi aveva dato la vita e tant’altro e, insieme a lui, me stesso e tutti coloro che amavo o avevo conosciuto. Naturalmente, se non avessi più ritrovato mio padre questa era la dimostrazione che tutto avveniva senza scopo e perciò ogni cosa valeva niente.

Improvvisamente, in queste circostanze tormentate, quel Dio, che alcuni filosofi dicevano comprensibile ma nascosto e la scienza un’inutile ipotesi, quel Dio di cui la fantasia umana aveva costruito un racconto di turpitudini, mi apparve dove era sempre stato: davanti ai miei occhi, in me stesso, ovunque. Rimasi senza parole.

Ecco: un Dio Onnipotente, Immenso, Inarrivabile. Un Dio a cui niente era impossibile, che non incuteva paura, perché umano e padre; perché non aveva niente di umano e non aveva nessuna caratteristica e inefficienza del mio padre terreno, ma anzi era all’origine del vivere mio e di tutti; un Dio che con tutta la sua ineffabilità e infinita potenza, pure mi stava accanto.

Era di nuovo un grande inganno, l’illusione che tanto serve per vivere?

Se avessi avuto davanti un fantasma, tutta la realtà non sarebbe stata altro che un sogno ed io non ero affatto convinto che tutto quello che mi circondava, che io stesso, che tutto fosse solo un sogno.

Io sono qui; gli altri, la natura, tutto è qui, tanto che posso toccare, udire, vedere ogni cosa: perciò è impossibile che Dio non sia qui, tanto concreto da poterlo vedere, toccare e ascoltare!

 

II

Dio è scienza e coscienza e, quanto più c’è scienza e coscienza, tanto più c’è Dio. Consegue che dove allignano l’ignoranza e l’abiezione non abita Dio, o, come ci insegnavano al catechismo, abita il Male e s’estendono il regno di Satana, l’assenza e il disordine.

La terra è perciò vissuta dagli uomini che amano il progresso, la vita e la serenità, accanto a coloro che vogliono vivere senza Dio.

Dio è una realtà unica per entrambi e tutto ciò che si allontana da Lui è illusorio, perdente, refrattario alla vita. Laddove ci sono ragione e volontà, c’è pace.

Tutto è comprensibile con chiarezza se l’uomo si fa estremamente forte dell’umiltà, giacché è solo per essa che abbiamo una visione certa di Dio e questo in quanto sappiamo usare in maniera corretta la ragione. Proprio la ragione capisce che l’Assoluto è inconcepibile, inarrivabile, infinitamente lontano dalle nostre possibilità. L’Assoluto è non confine, non termine, ciò davanti a cui si deve soltanto tacere. Ma di esso si può parlare quando diventa a misura d’uomo, quando una sua parte, minima del minimo, si avvicina alla sorte degli uomini e, appunto si fa uomo. Questo Dio è immensamente potente, perché è la ragione che non disdegna di darsi agli uomini, la causa prima di questo mondo, il suo mondo e il nostro mondo. Dobbiamo essere sicuri che Dio ama il mondo e attingiamo questa sicurezza dalla prova storica che Dio è stato tra noi.

Facendosi uomo, Dio ha rinunciato alla sua divinità per comprenderci nella parte più reale del nostro essere: il dolore, la solitudine, l’incomprensione e l’oltraggio. Gesù ha vissuto il mondo da uomo e ha dato soluzioni da Dio. La sua vicenda è paradigmatica dell’esistenza: Egli ha visto la famiglia così come è e l’ha rifiutata; ha osservato il modo di avvicinarsi a Dio da parte degli uomini e l’ha criticato violentemente; ha considerato l’uso formale della Legge e l’ha reso concreto e adeguato all’uomo; ha notato l’uomo assoggetto a valori superflui, dedito al profitto e ha contrapposto ciò direttamente a Dio come immane scelta; ha sofferto il tradimento e ha pagato fino alla condanna. Niente di umano Gli è stato estraneo: la gioia e il dolore, l’affetto e l’ipocrisia, la dedizione e l’abbandono; il formalismo e la concretezza; la partecipazione e la solitudine; la fiducia e il tradimento. E tutto ha vissuto da uomo che soffre fino a sudare sangue e ha paura della morte più di quanto ha paura l’uomo stesso e come uomo ha accettato il suo destino che lo porta innocente ad essere impiccato ad una croce, dopo essere stato flagellato e deriso. Cos’altro avrebbe potuto fare Gesù per essere uomo più di quanto è stato?

Ma se è vissuto da umano, Gesù, da Dio, ha detto agli uomini del suo tempo, ai bambini venduti e abbandonati, alle donne inermi davanti all’uomo e alla storia, ai sofferenti e bisognosi, agli ultimi della Galilea e della Giudea parole eterne.

 

III

Passati i cinquant’anni, ad un certo passaggio dei miei ragionamenti sulla vita mi sono accorto che, se non si tiene ferma l’assoluta trascendenza di Dio rispetto al mondo, si approda a conclusioni palesemente assurde. Infatti, non è detto che essendo tutto in tutto, i vari destini degli uomini siano parte della vita di Dio e che tutto ciò che facciamo preveda la Sua misericordia e perfino la Sua corresponsabilità. Sarebbe troppo comodo e troppo umano.

Per capirlo, basterebbe tener ferma le distinzioni che stabiliamo nella nostra vita quotidiana o nelle nostre azioni o nei nostri pensieri: ognuno è sempre al di là di ciò che produce, anche se ne resta protagonista o artefice. E questo deve valere principalmente per Dio.

Oggi dobbiamo pensare a noi e a Dio con più impegno e coerenza. Capiremo che questa terra è solo uno degli infiniti progetti di Dio che ad essa ha dato uno specifico campo e una particolare possibilità d’esistenza.

Se dunque pensiamo che questo mondo sia inconsistente, fugace e passeggero, che nella vita tutto passa ed è, a volte o sempre, senza senso e insignificante, tutto questo riguarda le nostre esistenze e nient’altro, poiché non siamo stati ne saremo mai degli dei.

Anzi, è proprio soffrendo questa inutilità, questa miseria quotidiana che non raramente confina con lo squallore, che dobbiamo andare oltre riferendoci a chi è oltre, a Dio.

Questo mondo è un esperimento tragico, se è pensato come fatto a se stante. L’uomo è un idiota e un presuntuoso se tutto è solo vicenda umana.

Solo vivendo in questo mondo, senza essere di questo mondo, siamo liberi e solo essendo liberi possiamo essere presenti a queste vicende che affannano ognuno.

Si è fatto dire a Dio: “Mi sono pentito di aver fatto l’uomo” (Gn 6,7). “Voglio farla finita con gli uomini! Voglio distruggere l’uomo e anche la terra”. (Gn 6,11)

Allora, al Signore niente può essere imposto, ma Gli può essere chiesto che in cielo e in terra le cose accadano diversamente: secondo la Sua volontà, appunto, che è sempre una grande utopia.
Quando la mente ragiona senza pregiudizi, il pensiero si trova tra due abissi: l’infinita pochezza del tempo e l’assoluta presenza dell’eterno.

Tutti coloro che hanno rappresentato degnamente questa condizione, lo hanno fatto dal proprio particolare punto di vista e pur chiamando le cose con nomi diversi hanno appagato non solo il sentire dei propri contemporanei ma hanno volato alto e sono stati stimati grandi filosofi e grandi artisti. Le loro opere muovono sempre a commozione e i tratti di strada che ci permettono di percorrere portano certamente i loro nomi.

Il tempo, questo magnanimo orco, tutto fa nascere e tutto fa morire e nella gioia e nel dolore la vita continua. Alcuni sono più disperati e altri lo sono meno e quest’ultimi sopportano maggiormente perché vanno oltre il tempo stesso, non restandovi stretti ma lanciando un continuo sguardo sull’eterno.

Gli uomini cambiano condizioni economiche, assumono più importanza nei ruoli sociali, ma non vanno oltre i meccanismi di salvezza dei loro padri, giacché la soluzione consiste sempre nell’interpretare con freschezza i ruoli antichi del fare e del sognare, del dire sì alla vita e alla visione di quanto le sta oltre.

Chi stima più il tempo è sempre segretamente in colloquio con l’eterno e chi possiede la calma del distacco verso la vita ha pur sempre un grande tormento per l’esistere: perché, in fondo, i cammini del tempo sono infiniti e le vie del signore sono alquanto impervie e piene di pericoli per l’esistenza.

Se non ci soccorresse il canto dei poeti, se non ci muovesse l’animo la musica, se non avessimo il caldo ragionamento dei saggi allora nemmeno Dio sentirebbe il bisogno di ascoltarci.

Chi non cammina solo, ma ha vicino una Ignota Presenza può constatare che conta agli occhi dell’Assoluto ed egli possiede non tanto la verità e la giustizia, ma la disposizione a farsi amante d’entrambe ed è perciò un’anima bella.

 

09-03-2011

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