Il tempo e il destino: La mia infanzia

La mia infanzia

Era appena finita la guerra, almeno così dicevano in paese. Invece era stato annunciato l’armistizio e si era ancora ai primi di settembre del quarantatré. Il re e Badoglio erano scappati verso Brindisi, Mussolini faceva ancor più danni illudendosi di non essere prossimo alla fine.

I nostri paesani continuarono così a morire, alcuni da partigiani, altri in Russia, un altro a Cefalonia. Tutti si erano trovati in queste situazioni per una strana sorte.

In paese dicevano di tutto, senza comprendere né il passato, né il presente. E tanto meno il futuro.

Mio padre, poco più che ventenne, era sergente maggiore carrista. Si trovava ricoverato all’ospedale militare da cui fu mandato in convalescenza a Grimaldi. Al ritorno della licenza fu trasferito e finì a Mazara del Vallo, dove il suo reggimento non esisteva più. Vagò per mesi nelle campagne del luogo e infine fece ritorno a casa, rischiando la diserzione.

Finita la guerra, lui, che era il più attivo della famiglia, si ripromise di spazzare via la penuria ritrovata. L’avevano atteso i debiti familiari, la fatica e i due fratelli, anch’essi reduci e disoccupati, una madre sfinita come un’Addolorata, un paese dalla fame mai cessata.

Adoperandosi in vari modi, anche col mercato nero, riscattò in breve l’ipoteca sull’unica casa rimasta alla famiglia nella “cava di’ chiurani”, vico Monastero, ove si narra che un tempo fosse ubicato il ghetto, la Judeca del dialetto.

Suo padre, mio nonno, era morto quando aveva appena cinque anni e di lui non gli era restato altro se non il buon nome, che la madre ripeteva sempre, da ammonimento: “Siti figli de mastru Rafele”.

Papà aveva voluto sposarsi appena cessata la guerra e per questo aumentò il lavoro. Creò “una comune” di personaggi emarginati così da portare il pane in famiglia e fare in modo che non mancasse ad altri.

Avviò al Timparello un forno e all’angolo un piccolo negozio di” generi alimentari e diversi”. Costruì un porcile poco distante da casa, tra le mura diroccate del vecchio mulino e acquistò i maiali bianchi d’Arezzo, che ingrassavano meglio dei maiali neri ed erano molto prolifici.

Mia madre, per non essere da meno, aveva organizzato in casa una “sartoria”, dove a turno andavano donne e ragazze che la chiamavano mastra.

Nei periodi in cui occorreva lavorare, ognuno si massacrava. Non di rado, per guadagnare tempo, si mangiava insieme, seduti a casaccio, sui sacchi di farina e si ripigliava il lavoro con il pane in bocca, fin quando la stanchezza giungeva pesante come la sera. L’alba giungeva repentina.

In questo falansterio, iniziò la mia esistenza. Venni alla luce, un pomeriggio di domenica di novembre, prima che il sole tramontasse, prematuro. Il mio scarso peso fu commentato dallo scuotere di testa del buon dottore Iachetta e dal sorriso rassicurante della signora Rizzuto, la mammana del paese.

Mi adottò l’intera compagnia. Durante la giornata fui collocato in un’ingegnosa incubatrice che consisteva in una cassetta di legno imbottita di cotone e panni di lana, con varie bottigliette d’acqua calda.

Accanto c’era sempre una gatta nera, che mi adottò anch’essa e mi protesse con molta aggressività come un animale che teme per i propri figli.

Lo capì Mariuzza B., che, scambiando la cassetta del lievito con la mia, aveva steso la mano verso di me, fermata dal grido di mia madre e dai graffi del gatto. Era una gatta dal pelo corto, occhi di ghiaccio, che, contrariamente all’aspetto, era molto affettuosa e mansueta.

Questa compagnia della mia infanzia non era tanto normale. C’era una storpia, soprannominata “bicicletta”, perché sciancata dalla nascita, di cui s’ignorò per tanto tempo che, non ostante la bruttezza, se la intendeva con un uomo sposato. Lavoratrice fissa avevamo Carmela F., una sorda, una condanna per papà, perché non comprendeva le cose da fare con urgenza e tra l’altro abbandonava il lavoro per starmi accanto. C’era ancora Giovannina R., che sudava come uno spaccalegna, tanto che spesso correva a lavarsi le ascelle, con gesti plateali. Ancora, Maria Teresa V., che ogni tanto soleva nascondere nel petto, già prosperoso, un pezzo d’impasto e tutti ridevano quando mio padre, che sapeva e non se ne curava, la rincorreva per un controllo: “Fammi vedere se ti sei presa qualcosa oggi!”. C’era ancora L.M., tignosa d’aspetto, che aveva la barba come un uomo e ogni mattina per radersi doveva alzarsi prima.

Tra loro, mi fu più vicino un poveretto, che parlava a mezze sillabe e a gesti, che nel mio ricordo si muoveva come un uomo terremotato. Si chiamava Divico. Sicuramente aveva un nome e un cognome, ma a me non è mai interessato. Mia madre lo invitava frequentemente, anche se lui ogni volta diceva di avere già mangiato “la grazia di Dio” e anche perché ne aveva bisogno. Sapeva farmi addormentare. Soffrivo a volte di dolori addominali, mi stancavo, m’innervosivo, non riuscivo a dormire.

Allora lui mi prendeva in braccio e iniziava una cantilena. Dopo poco mi addormentavo. Vorrei riportare quella strana canzoncina che ancora ricordo, ma è bella solo con le sue parole storpiate, con quella particolare cadenza e dunque deve restare un suono, un mormorio.

Pochi anni fa, vidi una sua foto e sono rimasto molto amareggiato. Un volto opaco, dagli occhi sperduti. Divico era ben altro, un uomo generoso, cui ho dato senza saperlo un po’ di serenità.

La famiglia M., numerosa come le famiglie d’allora, passava a turno la giornata a casa nostra. Una loro figlioletta chiedeva insistentemente a mia madre di potermi sposare (“quando diventa grande”) e nessuno le faceva notare che io avevo poco più di un anno e lei quattordici. Un’altra, V. N. voleva tenermi sempre in braccio e portarmi in giro. Un giorno al “ponte” caddi dalle sue braccia e mi sollevò da terra con un “buco” in fronte. Cercò di trattenere con la camicetta il sangue abbondante. Tornò in fretta verso casa, piangendo e gridando, tutta insanguinata. Avendola vista giungere in quello stato, nell’intero vicinato si sparse un grande spavento, nessuno trovò il tempo di sgridarla, accovacciata in un angolo piangente e tremante. Mi bendarono e col tempo tutto passò, ma lei, da quel giorno non volle più tenermi in braccio. In seguito, come molti paesani, partì con la famiglia in Canada e vi restò. La rividi trent’anni dopo, quando fece una breve vacanza in paese. Venne a visitarmi e notai che osservava di nascosto quel segno che rimane a tutt’oggi. Fu un incontro tra diversi e ognuno riprese il cammino della vita.

Il lavoro della “comune” era concentrato nel forno, fatica che iniziava alle quattro del mattino e finiva alle nove, ora della consegna del pane, quel pane odoroso che riempiva le vie, ben messo sulle tavole lunghe che le donne, sulla testa, trasportavano ai negozi e alle case.

Il resto della mattina ognuno pensava alle faccende proprie e comunque, tra una cosa e l’altra, finivano per ritrovarsi a casa mia, giacché c’era sempre qualcosa da cucire, pettegolando, perché, pur con tanto lavoro, s’impicciavano di tutto, ridendo nella camera, che era tutta la mia casa. Ma non doveva esserci mio padre.

In certe umide sere d’autunno, quando avevamo una buona scorta di castagne, in casa c’era riunione. Le castagne si preparavano e si consumavano in vari modi, ma non mancavano mai lo sgombro, le ulive e il pecorino, col pane nero e tante fresine. Era una maniera per restare più a lungo raccolti al focolare, quasi a dimenticare la notte che giungeva più fredda e precipitosa, succhiata da un paese senza luce e case illuminate fioche secondo le possibilità d’ognuno.

Quelle sere, al centro della comitiva era Antonio B., che si faceva pregare come un santo per “fare la tromba” con le mani. Alla fine, finalmente suonava e poi non voleva più andarsene, ma a un certo orario papà chiudeva l’adunanza.

Un Venerdì Santo, Antonio fu invitato in chiesa e con “la tromba”, accompagnato dall’organo e dal coro, eseguì la bella melodia, che fino a pochi anni fa, quando le messe erano messe, era cantata da tutti: “Gesù mio, di dure spine, chi la fronte ti coronò”. Dopo quell’esibizione lo tenni in gran conto, sopra coloro che, in quel tempo, strimpellavano una chitarra o un mandolino nelle cantine, sui gradini della “barberìe” di zio Ernesto o nelle sartorie.

Così scorrevano anche i giorni del freddo, allietati dalle abbuffate canoniche, quando si macellavano i maiali.

Arrivava Natale. Odorava tutto d’impasto, mostarda e cannella e le donne mandavano le pietanze: “Cummà, cosa ci hai messo?”. I dolci duravano oltre l’Epifania.

Gli uomini, piccoli e grandi, facevano il presepe, con pietre “riccie”, terra e farina per imitare la neve. Si andava alla ricerca di muschio e a sera, di casa in casa, si passava a “stimarli”. I grandi criticavano ognuno il presepe dell’altro e si lanciavano infine sfide per “il focaru”, il grande falò che si accendeva nella parte larga dei rioni.

Poi si aspettava, fino a carnevale quando si andava, piccoli e grandi, dietro il “nonno” che sbeffeggiava i difetti e le faccende di ognuno, senza nulla temere e si mangiavano per giorni le purpette. Finite le mascherate, bisognava rimanere in attesa di Pasqua e della scampagnata.

Precocemente capii che la felicità ciascuno se la costruisce con quello che ha, se è saggio, poiché ognuno è figlio degli anni suoi.

L’amore esistente tra papà e mamma mi rallegrava. Li osservavo mentre conversavano con una sola mente.

Papà, se si tacciono certe scappatelle regolarmente scoperte, era un “uomo di casa”, fermissimo nella difesa della famiglia, porto e meta.

In concreto, il solo diversivo che perseguì fu il lavoro, fatica che iniziava all’alba e terminava a notte tarda. Non si concedeva nemmeno quei piccoli passatempi consentiti dal bar e dalle cantine, da cui venivano ogni tanto le urla per le partite a briscola e specialmente per i tornei di padrone e sutta, conclusi con le solite invettive: “Me la pagherai, quando è vero Iddio”.

Papà si fermava qualche volta quando andava ad aprire il negozio e aizzava quei giochi di vendetta che concretamente finivano in una solenne sbornia tra i “nemici”: svaghi che richiedevano tempo libero e papà ne era sprovvisto.

Tra un lavoro e l’altro, per riposarsi, come diceva lui, si recava in campagna, al prato, dove, zappando, fantasticava ad alta voce di nuove attività, in cui voleva coinvolgermi da grande. Io ascoltavo e lavoravo il mio pezzetto di terra, accanto a lui, in quella striscia di campagna.

Papà non era alto, ma a me sembrava un gigante, specialmente quando conficcava con la mazza i pali per la staccionata dei maiali o per il cancello. L’ammiravo. Era un uomo “popolare”, affabulatore, intrigante, e, con la sua quinta elementare, si faceva rispettare ed era un riferimento per i piccoli bisogni d’allora: compilare un conto corrente, scrivere una lettera, inviare una pratica di pensione.

Conservava un gran timore della guerra ed era convinto che a breve potesse scoppiare la “terza guerra mondiale”. Grazie alle Forze Alleate, fascisti e mafiosi erano ancora ai posti di potere o ne avevano occupati nuovi. I preti tuonavano dal pulpito di comunisti che mangiavano bambini e un cartello in chiesa minacciava la scomunica, anche per i socialisti, di cui mio padre aveva la tessera.

Sì, pensava proprio: “ci sarà di nuovo una guerra!” Così, quando nacqui, la sua preoccupazione era non tanto la mia sopravvivenza, ma nientemeno il giorno in cui mi sarei dovuto presentare alla leva. Per questa ragione, concepì una balzana idea. Benché fossi nato il 14 novembre del 1948, mi tenne nascosto con l’intenzione di iscrivermi all’anagrafe l’anno dopo. “Non sai che significa un mese in più o in meno”, diceva a mia madre allarmata. Ma, con tanta gente in casa, era il segreto di pulcinella. Senza contare che il padrino di papà, guardia municipale, frequentava regolarmente casa e negozio.

Mio padre restò sempre convinto che fosse stato proprio lui a far intervenire i carabinieri, che furono molto comprensivi e lo invitarono a recarsi immediatamente al Municipio, dove fui iscritto nel registro delle nascite il 18 dicembre del ‘48, data che mi trovo affibbiata per questo paterno vaneggiamento.

Le mie nonne, Maria e Saveria, discendevano da Pietro Amantea, figlie rispettivamente di Assunta e Filomena, cugine carnali. Papà e mamma erano dunque cugini in secondo. S’innamorarono giovanissimi.

Nonno Francesco Bruno Bossio, che aveva sposato Saveria, nonno Cicco, era decisamente contrario. Fece di tutto per sconsigliare mia madre. Finì, perfino, per sprangare la finestra da cui mamma comunicava a segni con mio padre. A quel tempo non c’erano altre abitazioni fra le due case, che distavano poco in linea d’aria, divise solo da qualche ettaro di terra e dal fiume. I suoi sforzi furono tutti vani anche per la complicità di amici e parenti.

Ricorse a mezzi drastici. Conobbe un giovane, lo portò a casa e impose a mia madre di fidanzarsi. Dopo un brevissimo periodo, insistette perché si sposassero. Erano fidanzati di giorno, come diceva mia madre. Di sera lei, con sorelle e fratelli, continuava a vedersi con mio padre, nelle case dei vicini.

Intanto furono fatti i preparativi del matrimonio. Il giorno prima, così come allora si usava, si chiamò un certo numero di donne, per portare a Lago, paese dello sposo, le ceste e i bauli della dote. Giuseppe, lo sposo mancato, da parte sua, aveva già preparato il necessario per una cerimonia fastosa.

Quando venne il giorno, la sera stessa, mia madre “scappò” con mio padre e andò ad abitare da lui. La dote non fu mai più restituita.

Per ripicca mio padre non sposò subito mia madre, come conveniva. Nonna Maria, che era stata informata (cosa che nonna Saveria non le perdonò mai) aveva già preparato una camera della casa e lì furono posti il letto, un tavolo e due sedie, una panca e alcuni panchetti di legno.

E venni io. I miei genitori si sposarono in chiesa, un pomeriggio, quando ero in grado di camminare. Papà, quando pensò di raccontarmi i fatti, gonfiò l’accaduto, sostenendo che fu anche il giorno del mio battesimo. Mia madre l’ha sempre smentito. Penso che avesse ragione lei, perché la mia nascita prematura, in caso di disgrazia, mi avrebbe portato, come le avevano insegnato, diritto all’inferno: fui battezzato in casa.

Per riappacificarsi con mio padre, nonno Cicco attese fino al giorno in cui nacquero i miei fratelli gemelli, quasi dieci anni dopo, nel 1957. Fu riconoscente nei confronti di mio padre perché uno dei due venne chiamato come suo figlio Eugenio, morto giovanissimo.

La loro sempre più inconsistente inimicizia non pregiudicò mai i miei rapporti con nonni e zii. Quando nonno Cicco, ai tempi dell’inimicizia, passava dal negozio, papà, fingeva di uscire con inutili sotterfugi. Nonno, che era contadino, mi portava dalla campagna frutta di stagione, noci, pronti da mangiare, spellati, oppure certe ciliegie grosse, dure e molto dolci.

La campagna è stata per me scuola e maestra. Nel vecchio mulino diroccato, dove crescevano i maiali, avevo imposto un nome a ciascuno ed essi mi seguivano come cagnolini.

Ai poderi vicini nessun proprietario aveva posto confini. Perciò, a capo di una banda di altri ragazzi, potevo andare al cibbione dei Mauro, non molto profondo, alla fontana dei Monaci, che s’immetteva in una cibbia molto bassa in cui si stava spesso a sguazzare.

Il mio mare era il runzo nel nostro torrente, dove giocavamo nudi per ore intere. Accanto, le donne lavavano i panni, ognuna alla propria pietra, cantando o litigando, con le gonne annodate tra le gambe.

Il nostro territorio di gioco arrivava fino a Santu Petru e, alla Pasquetta, col tempo buono, ci spingevamo fino a Santa Lucerna. I contadini non avevano motivo per sgridarci, perché curavano solo parte del terreno e quel terreno noi lo rispettavamo. La frutta era varia e abbondante e tutti la offrivano o la lasciavano abbandonata.

I ruscelli mi affascinavano. Erano numerosi, scroscianti, limpidi, assolati, contornati da suoni. Intorno vi era, a primavera, l’odore intenso di viole, margherite, campanule e tanti fiori e pianticelle di cui nessuno si chiedeva il nome e che raccoglievo per portarli alle suore o alle maestre.

Tra il rumore delle cicale e dei grilli, volavano centinaia di farfalle. Osservavo per ore la bellezza delle ali, sempre diverse, con colori accostati genialmente.

Quando andavo ai ruscelli, preferivo stare solo. Mi portavo dietro un barattolo di vetro, in cui raccoglievo girini, granchi, a volte farfalle che liberavo a sera, quando il viottolo della cava, che portava al retro della casa, si riempiva di mille lucciole, che “dovevo” catturare per tenerle di notte sul comodino a farmi luce.

Nonno Cicco, nel suo piccolo terreno al Perrupu, mi lasciava utilizzare una casupola di pietre a secco, dove conservava gli attrezzi. Era proprio bassa ed io vi costruivo dei forni, in cui cuocevo pane di terra e pupazzi di creta, mentre altre volte mi coricavo sul tetto per leggere e rileggere i tre soli libri che possedevo: un libro di lettura, un sussidiario e un altro bellissimo, le favole dei Grimm, che, vecchio e spaginato, ancora conservo.

Mio nonno parlava poco. Soleva raccontare qualcosa ogni tanto, mentre mangiavamo, col paese di fronte, ed erano fatti della guerra di Spagna. Mai uscì dalla sua bocca un pettegolezzo. Parlava, a volte, del suo lavoro, di potature, d’innesti, di pietre per consolidare i muri. Quando era soddisfatto, prima del ritorno in paese, mi faceva salire su qualche albero, sempre con apprensione, per via di papà.

Possedeva un coltellino, che usava con delicatezza per tagliare a strisce il grasso del prosciutto, le cipolle, a volte un pezzo di provola piccante, di pancetta o per sbucciare la frutta. L’osservavo mentre tagliava il pane di grano, (“l’unica cosa che sa fare tuo padre” mi diceva) e spesso utilizzava quell’arnese come forchetta o per aprire i gusci delle noci. Il suo modo d’essere mi piaceva. I suoi modi erano asciutti e solo quando usava quel coltellino sembrava più umano. Raccontai, tempo fa, queste cose a mia figlia Paola e lei me ne comprò uno per il compleanno.

Mio nonno morì con me vicino, solo, i figli lontani e la moglie che l’aveva preceduto nella tomba da due anni, in una cameretta di quella casa che diventerà la mia casa.

Quando mio padre comprò i Valloni, mi sentii proprietario di un terzo podere, dopo il prato di nonna Maria e il perrupu di nonno Cicco. Ai Valloni c’era un castagno, quasi accasciato, che chiamavamo ’a castagna bucata, rifugio e pulpito, giacché quasi alla sommità c’era una grossa buca, in cui m’infilavo per predicare ciò che ascoltavo dalle monache, a imitazione dei predicatori che nel nostro paese erano di casa.

Ai Valloni, il periodo più gioioso era la raccolta delle castagne, con quei fuochi che bisognava controllare per non farli sconfinare. Ma andavo lì in ogni tempo. Potevo arrampicarmi su tutti gli alberi, ad eccezione dell’unico ciliegio, che era infido, perché i rami si spezzavano facilmente e diventavano coltelli. Trovavo la cosa molto piacevole e mi rinforzavo il corpo.

Giorni di paese e di campagna, così trascorsi la mia infanzia. Tante ciavole (cornacchie) e rondini rumorose che, a sera, a centinaia popolavano in piazza i fili della luce. Le rondini erano animali di famiglia, perché non raramente facevano il nido all’interno delle case. E vi ritornavano ogni anno. C’era un nido da nonna Maria e avrei anch’io voluto che lo costruissero a casa nostra, ma non avvenne mai, nonostante tenessi sempre aperta la finestra.

Che strano paese era il mio, in cui si fingeva un benessere inconsistente.

Lo sapevo anche dai conti del negozio. La maggior parte delle famiglie tirava a campare con una minestra, qualche frittata e persino con pane di lupini, di castagna, di granturco e simili. Era la vita che poteva permettersi una comunità di contadini, di calzolai, falegnami, fabbri e così via. Quasi tutti analfabeti. La poca e scarsa cultura era quasi tutta appannaggio dei don Tizio e don Caio.

Chi fra questa povera gente possedeva un vestito, non faceva altro che girarlo e rigirarlo, per indossarlo ai matrimoni o alle feste comandate.

C’era scarsissima igiene. Tutti allevavano maiali e galline, conigli, che erano ciclicamente sterminati da non so quale malattia, animali che erano domestici nel pieno senso della parola. Circolavano, infatti, liberamente nei vicoli e alcuni stavano perfino in casa. Dopo pranzo si lanciavano gli avanzi in strada, dove gli animali aspettavano. Un giorno, dopo che avevo chiuso il negozio al Timparello, passando davanti alla casa di za Aldina, fui investito da una colossale casseruola di brodaglia. Tornai ai Chiurani ridendo pensando alla sua preoccupazione mentre chi mi incontrasse, si chiedeva cosa mi fosse successo.

A prima sera, quando gli animali ritornavano nei catoji, si pulivano i vicoli e la spazzatura era portata negli orti vicini. La plastica non esisteva; le bottiglie di vetro venivano conservate o ridate a pagamento al commerciante; le scatole d’alluminio del latte Nestlé erano vendute ad un ambulante che passava periodicamente.

Pochissimi disponevano di qualcosa che potesse definirsi un bagno. Alcuni avevano un gabinetto, che spesso era fuori casa, come nel nostro caso, che l’avevamo ricavato accanto ai gradini della scala. In genere, si usava un vaso che veniva svuotato nei catusi attraverso nicchie, ricavate nel muro, coperte a volte da una tavola dondolante. Più volte al giorno, per evitare il cattivo odore, si buttava acqua prendendola dalle fontane pubbliche.

La gente in maggioranza si lavava in grandi bagnarole, con acqua riscaldata al fuoco, giacche l’acqua non era stata portata nelle case.

Prima che Gaetano Iachetta s’industriasse per dare alla comunità grimaldese la corrente elettrica, costruendo una centrale presso il fiume Savuto, si utilizzavano bicchieri d’olio usato, su cui galleggiava il miccio. I più benestanti, tenevano piccole candele oppure lumi a petrolio e tutti per il tempo necessario.

All’epoca, la popolazione era un po’ più di quattromila e cinquecento abitanti. Tanti però, partirono tra gli anni Cinquanta e sessanta, portandosi dietro le proprie famiglie, di modo che oggi non c’è paragone tra i grimaldesi che si trovano fuori e quelli che restano. Non ostante ciò, le abitazioni, moderne e comode, sono illecitamente raddoppiate e le storiche case dei contadini sono state ristrutturate, con poco gusto, cancellando ogni ricordo di quella civiltà.

A cinquant’anni di distanza, tra quella situazione e l’odierna, esiste un abisso. Non pochi vivevano come primitivi, in ambienti malsani, in veri e propri tuguri, umidi e bui, pieni di pidocchi e pulci. Non a caso, all’ingresso dei negozi erano posti bidoni di ddt, un liquido che in seguito è stato dichiarato cancerogeno, ma di cui allora si cospargevano le teste periodicamente rasate della maggior parte di bambini e adolescenti, con quelle pompe di latta a stantuffo che ogni famiglia possedeva.

Nel paese la fame era durissima. Una volta trovai steso su un parapetto un coetaneo, a pancia in giù, pallidissimo. Mi disse: “La fame si sente meno, stando così”.

Accadevano cose terribili, fatti che possono muovere a pietà o possono ancora gridare vendetta: omicidi per futili motivi, infanticidi, segregazioni, violenze sproporzionate, dentro e fuori le case, infezioni diffuse come la tubercolosi, malattie mentali malamente tenute nascoste.

Un penare sproporzionato, di massa.

Si viveva in una normale promiscuità sessuale, e spesso gli stupri, diventavano consensuale convivenza.

Era un morire. Appena grandicello mi domandai se le disgrazie rendono tutti innocenti e se gli uomini abbiano trame già scritte. Non so ancora rispondere, ma sicuramente non c’è nessun inferno da attendere, perché in parecchi l’hanno vissuto qui in vita.

 

21-02-2011

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