La mia bella Anarchia
Oggi, superati i sessant’anni, tutto mi spinge all’indietro, per così dire, non come un figliol prodigo, piuttosto come un emigrante che fatti e misfatti hanno condotto in altra terra, ad altre storie e che alla fine vorrebbe ritornare nei luoghi della giovinezza, ma non trova più gli stessi giorni e sta come straniero. Pur io, velleitariamente giovane di mente, torno a tutto, da sconfitto e da eremita, perché non sono più amico degli uomini e non mi richiama ormai alcun volto antico.
Quand’ero appena ragazzetto vivevo nella mente l’anarchia perché l’immaginavo simile al regno di dio, a cui mi legava fortemente la mia indole e l’educazione dell’infanzia: una prospettiva evidente. Infatti, è sintomatico che abbracciai questa idea sociale una volta che abbandonai la chiesa ed i suoi preti, ma non il Vangelo.
Ma la stessa delusione che ebbi dai cristiani si è ripetuta coi “compagni” e so che non ha senso un’anarchia senza compagni. Ma la coltivo come un puro spirito di ragione, perché è l’immagine reale della mia cocciutaggine e del mio restare solo.
Andiamo in ordine. Quand’ero in convitto, nell’ultimo anno di liceo, ebbi un inatteso permesso di uscita, subito prima delle vacanze natalizie. In un’edicola di Corso Mazzini vidi un giornale Umanità Nova, non ricordo se quotidiano o settimanale. Quello che mi colpì è che era un giornale anarchico. Le letture strane suscitavano in me una particolare inclinazione: massoni, templari, giacobini e via discorrendo. L’acquistai e, dopo altre compere per i familiari, ritornali col giornale sottobraccio. Il vicerettore, il solito Palma, me lo sequestrò subito e questa volta lo aggredii verbalmente senza ritegno. Tra le tante gli dissi che poteva continuare a dirsi democristiano, ma che la parola “libertas” poteva farla cancellare dallo stemma del suo partito. Non se lo aspettava. Restò senza parole e io mi attesi lo schiaffo che non venne.
Durante la ricreazione lo vidi arrivare col suo solito fare e mi disse: “Te la vedi tu! Ma ne parleremo con tuo padre”. Presi una sedia e mi stesi davanti alla stufa a legno della camerata, aprendolo a bella posta con le braccia larghe che sembrava un lenzuolo. “Che cos’è?” dissero gli altri convittori. “Un giornale anarchico” risposi e loro non si interessarono più di tanto.
Quando tornai a Grimaldi zio Giustino Ferraro, con cui mi trovai a parlare di anarchici, disse: “In America abbiamo difeso Sacco e Vanzetti, lì sono veramente anarchici!” e aggiunse “Ho delle copie dall’Adunata dei Refrattari. Le nuove te la faccio spedire!”. Provai una gioia enorme e un forte affetto per lui.
In questo stesso periodo feci amicizia con Vincenzo Mauro, che abitava al Timpone mentre io ai Chiurani, l’ex ghetto degli ebrei. Rioni opposti, perciò non avevamo avuto modo di conoscerci. Contrariamente al primo impatto possedeva un’ironia pungente e un’allegria contagiosa. Aveva anche una bella voce e il nostro gruppo si era sempre dilettato a cantare. Comunque, arrivai subito alla conclusione che, se tutti erano come lui l’anarchia era cosa fatta. Gli parlai del giornale e degli anarchici. Durante le vacanze comprai un libro di Woodcock, “L’anarchia”, che, sebbene critico, dava un’ampia panoramica della storia del movimento internazionale. Ne discutemmo con Vincenzo, per meglio dire non discutemmo affatto, perché ciò che leggevamo era assolutamente confacente ai nostri caratteri. A dire il vero, Vincenzo era migliore di me: era più semplice e più pacato. Io affrontavo la questione con filosofia, lui intuitivamente e con naturalezza. Inoltre, io ero narcisista e piuttosto presuntuoso, cosa che a lui era completamente estranea.
Intanto avevo disegnato un pugno chiuso sotto cui era posto un impegno: Ora e sempre. Mia madre su una bandiera rossa mi aveva cucito in nero la scritta “Anarchia” e questa bandiera, per la prima volta e in tante occasioni sventolò per le vie di Grimaldi, dal finestrino dell’ammiraglia, che non era nient’altro che la fiat cinquecento di Vincenzo.
Alcuni perfino ci confondevano con i monarchici (“Sti cioti, vonnu u re” – Questi idioti vogliono il re), ma molte coscienze passarono attraverso questa nostra esperienza scrollandosela di dosso troppo in fretta, come fa il mugnaio con la farina.
Passato il natale tornai in convitto e l’ottimo prof. Palma, con la sua faccia da buldog, butterata, mi permise non solo di leggere il giornale, ma di farmelo procurare fino a qualche mese dopo quando le cose si complicarono, inevitabilmente. La causa scatenante fu che la domenica si doveva andare tutti a messa ed io gli dissi che non aveva senso. Questa volta fu lui a minacciarmi con argomenti che oggi mi appaiono risibili: disse che mi avrebbe cacciato dal convitto. Era allora, per me, una minaccia grave sia perché avevo insistito con mio padre per potervi rientrare, sia perché stavo finendo il liceo e quello era l’ambiente adatto per studiare e vivere con cadenze regolari. Però non poteva mandarmi via, perché era un’istituzione pubblica e non confessionale, ma quando prevale l’immaginazione si finisce per esagerare le preoccupazioni. Andai a messa, ma non partecipavo né con gesti né con parole, anche se da ex chierichetto, ormai capace di intendere la lingua latina, sentivo dentro di me con chiarezza quell’ “introibo ad altare Dei….hoc est enim.. sursum corda”: ottime cose! Lui si accontentò di questa presenza silenziosa e si tornò come prima. Ma pochi mesi dopo, all’avvicinarsi di Pasqua venne la visita del vescovo a cui lui teneva moltissimo. Ci schierò tutti spalla a spalla nel lunghissimo corridoio e quando venne il monsignore si udirono i battiti delle mani mentre ci benediceva passandoci in rassegna. Quando giunse vicino a me e ad un altro convittore alto e biondo che avevo convertito (S. Cirillo, adesso medico anestesista all’Annunziata di Cosenza), ci vide rispettosi, ma impalati. Palma divenne paonazzo, il vescovo sorrise in ogni caso. Quando la visita finì fummo chiamati in direzione. Un silenzio pesante, lui con la testa abbassata, poi improvvisamente un balzo, un torrente di urla e qualche schiaffone. Ciò che lo esasperava è che tutti e due, pur restando in silenzio, avevamo negli occhi la fierezza del gesto e nessun segno di ravvedimento. Mi fu proibito di leggere il giornale e ogni altra cosa che non fosse di natura squisitamente scolastica e ci fu negato di andare a cinema non so per quante domenica. Restammo sostanzialmente agli arresti per qualche settimana, non più, poi tutte le proibizioni caddero così come era sempre stato.
L’ultimo episodio avvenne durante l’esame di stato. Dovevamo sostenere le prove in tutte le materie dei tre anni e con commissione esterna. Litigai con l’insegnante esterno di scienze, perché sostenevo che gli studenti dovevano essere valutati solo sulle materie di loro interesse. Consideravo le altre imposizioni un atto tirannico e mnemonico. Così quando venne il mio turno con quell’insegnante mi rifiutai di rispondere. Chiamò il presidente, ma non ci fu nulla da fare. Palma andava per il corridoio come un pazzo, ma a mio padre che lo seguiva non raccontò nulla né prima né dopo.
Alla fine, riunitasi tutta la commissione, poiché le prove scritte erano andate bene e gli orali altrettanto, decisero di promuovermi con la semplice sufficienza. Non mi interessava niente!
Palma ai risultati finali quando lo salutai, diede gli auguri a papà e una stretta frettolosa di mano a me, scollando le spalle come un Argo fedele ma contrariato.
Lo incontrai quattro anni dopo, come collega nello stesso liceo. Lui mi trattò con rispetto, da vero signore. Mi salutò rivolgendosi con il lei e furono vane le mie insistenze a trattarmi da conoscente. L’anno dopo, passai ad altra scuola e non ci vedemmo più.
Quando con Vincenzo, che, ironia della sorte, divenne istitutore nello stesso convitto, parlo con nostalgia “dei tempi di Palma”, lui mi racconta come sia incostante e deresponsabilizzata la gioventù d’adesso e come “quel convitto”, un tempo forse spropositatamente rigido, sia diventato una specie di pensione, in cui, lui, tanto tollerante e amico di tutti, non può esimersi dal fare richiami e note.
Acquisita la maturità classica, dovevo iscrivermi all’università. Mio padre aveva un sogno atavico, avere un figlio medico, per cui fece di tutto per convincermi, facendo pressioni anche attraverso gli amici che a sera facevano cenacolo nel nostro negozio. Andai a Napoli e mi misi a fare una fila interminabile alla segreteria della facoltà di medicina e quando, dopo qualche ora, riuscii a raggiungere lo sportello, davanti all’applicato che mi chiese cosa volessi, me ne andai e non ricordo la sua frase in napoletano. Certo è che, nella stessa mattinata, rifeci un’altra fila, ritirai i moduli, andai alla posta e mi iscrissi, com’era nei miei interessi, a filosofia. Papà lo seppe una ventina di giorni dopo, con grande cruccio.
Frequentai in maniera discontinua l’università e, il più delle volte, andavo a Napoli per comprare i libri e fare gli esami. Studiavo a casa con le abitudini del convitto.
La permanenza nel paese mi fece partecipe di tante cose che prima mi sfuggivano. Una “banda di socialardi” amministrava, si fa per dire, al posto della corrotta consorteria democristiana. Si erano impossessati della cosa pubblica e la gestivano in maniera clientelare, facendo leva sullo strapotere che a quel tempo Giacomo Mancini esercitava nella zona. Il sindaco di Grimaldi, don Emilio Anselmo, tra l’altro, era suo cugino.
Vennero assunti al comune come nel capoluogo tante persone per “chiamata diretta”. Io e Vincenzo ci indignammo in maniera bestiale, non solo perché vedevamo distrutti tutti i diritti elementari del lavoro e della democrazia, ma perché vedevamo “i miracolati”, diventare una schiera servile, sottomessa e riconoscente. Come si poteva discutere, iniziare un misero ragionamento con chi aveva venduto la dignità e il cervello e tutti parlavano con le stesse frasi?
Fu il periodo feudale del nostro paese. Anche i democristiani, per non essere da meno e mettersi in condizioni di competere per il potere, si appoggiavano a Misasi, che faceva in modo di elargire altri illeciti favori.
La bandiera dell’anarchia cominciò a sventolare per le vie di Grimaldi. Io e Vincenzo venivamo visti come degli stupidi e poi, come degli appestati. Eravamo isolati, ma appassionati e combattivi. Divennero nostri bersagli i socialisti, il brigadiere fascista, che avevamo soprannominato, non ricordo perché, “Lobrano”, il prete Giovanni Notti, che faceva politica dal pulpito.
Non poche volte l’ammiraglia di Vincenzo con la bandiera che sbucava dal tettuccio, con un altoparlante che ci prestava il fruttivendolo Rocchetto, inveiva sotto la sezione socialarda o nell’occasione del 25 aprile o del primo maggio. Dicevamo cose dure, ma tutti sapevano che erano vere. Intanto i democristiani avevano il buon senso di mantenere una sezione per formalità ed erano sempre più tagliati fuori da ogni possibile rivincita.
In famiglia fu anche un’altra guerra: a casa mia, perché mio padre veniva bersagliato col negozio, subendo tante angherie; a casa di Vincenzo, perché la madre temeva che potessero procurarci qualche danno.
Noi continuammo e qualcosa cominciò a muoversi nella coscienza di qualcuno.
A maggio del ‘68, mi trovavo a Napoli per degli esami all’università. Una mattina avevo seguito la piacevole, napoletana lezione di storia della filosofia del prof. Cleto Carbonara. Poi ero andato a mensa, fatta la solita passeggiata per tutto il corso ed ero rientrato alla pensione in via Mezzocannone. La giornata era calda, come solo a Napoli può essere. Mi misi a riposare e accesi la radio. In dormiveglia ad un certo punto ascoltai una notizia. “Gli studenti in Francia sono in rivolta. La bandiera anarchica sventola su Parigi!” Saltai come un matto per la stanza, abbracciai un sudamericano con cui dividevo la stanzetta e, nei miei ricordi, tra quella stanza e il ritorno a Grimaldi, c’è sempre stato un vuoto.
(continua)
25-02-2011
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