Il convitto
Per passare dal ginnasio al liceo bisognava superare gli esami. Li sostenni onorevolmente, tanto che mi fu assegnata una cospicua borsa di studio. Mi venne consegnata in una cerimonia al cinema Citrigno di Cosenza. Mio padre era raggiante, anche perché la notizia venne riportata, con la mia foto, sulla prima pagina di un quotidiano nazionale, Il Tempo.
Il maresciallo Notti aveva fatte portare in paese venti copie del giornale e le distribuiva con gli occhi lucidi. Era un mio tifoso ed era come se avessimo vinto il campionato di calcio. Strana infanzia la mia: avevo pochissimi amici della mia età, sempre insieme e mai discussioni. Accanto a loro tanti adulti che mi seguivano passo passo e s’ informavano del mio vivere come fossi un loro figlioccio. Ne vorrei ricordare qualcuno.
Michele Bombino, ossuto come s’addice ad un guardiano di cimitero, socialista della prima ora, che, quando discuteva accanitamente, finiva sempre con l’ammonire il malcapitato: “Ricordati che io ho letto la Summa di San Tommaso!”; Amedeo Saccomanno, vecchio orso freddoloso: scompariva d’inverno e ritornava a primavera, col suo stemma di Lenin sempre in bella vista; Peppino Cuzzetto-Casello, che lavorava alle ferrovie e sperava sempre che un giorno insieme saremmo andati in Ungheria, sul lago Balaton; perfino il maresciallo dei carabinieri, un buon uomo, il quale ogni sera passava dal negozio per leggere una specie di romanzo che stavo scrivendo a perdita di tempo e non mi perdonava quando non trovava scritto qualcosa di nuovo. Ma sapevo come rabbonirlo: gli raccontavo a voce una trama che inventavo al momento e che lui, da carabiniere, amava sempre più tortuosa e con nuovi colpevoli da scoprire. Ed impiegavo un niente per accontentarlo; Peppino Cavaliere, falegname, che lasciava il lavoro per insegnarmi ad usare le sgorbie e quando vide che al posto dei soliti disegni avevo fatto un volto di vecchio, me le regalò e di tanto in tanto mi consegnava pezzi di legno morbido; Vincenzo Falcone, che mi aveva battezzato, burbero con tutti, ma non con me, mi portava con lui, al lato della casa, nel laboratorio dove c’era di tutto, perfino alcune arnie. “Guarda, non pungono !!”, ma in alcuni periodi: “Stai attento non avvicinarti alle api”; zio Michele, fratello di papà, che faceva il calzolaio, di cui devo raccontare di più, perché era il migliore dei Saccomanno. Tanti, Tanti altri, molti, di cui dovrò dire, per non darvi noia, insieme alle vicende della mia vita; quasi tutti uomini e poche donne, inversamente da quello che si verificò negli anni successivi alla mia laurea.
Per le superiori ero stato mandato in convitto, la cui retta veniva pagata dall’ufficio invalidi di guerra. Non so come considerare il periodo che vi passai. Nel convitto vigeva una disciplina militare: sveglia, colazione, studio, pranzo e cena erano scanditi rigorosamente al suono di una campanella, sempre in fila per due, sempre in silenzio. Tutti i giorni così, con una piccola variante martedì sera e domenica pomeriggio. Come carcerati. Non ci era concesso altra lettura che i libri scolastici, regola che infransi fin dal primo momento. Scrissi molto negli anni del convitto, scritti che, come tanti altri non hanno superata, la mia maniaca cura di fare e disfare, per distruggerli non appena credevo di essere andato oltre.
Una volta il vicerettore, che era il capo effettivo del convitto, il prof. Palma, affacciatosi allo spioncino della camerata, si accorse che i miei occhi non erano fermi sul tavolo. Venne a me burbero come al solito, pronto allo schiaffo, se avesse trovato il presunto fumetto. Trovò un grosso quaderno sulle ginocchia. Mi chiese: “Che leggi?” ed io “No, scrivo”. Mi strappò dalle mani il quaderno e se lo portò in direzione. Il giorno dopo mi aspettavo che mi dicesse che le uniche tre ore d’uscita domenicali, che in effetti erano il tempo per andare fuori al cinema Italia e rientrare, me le ero giocate, come prevedeva la disciplina. Invece per due giorni non seppi nulla. Il terzo giorno, prima di andarsene a sera, mi fece chiamare in direzione. Lo trovai come al solito in cagnesco con la testa abbassata sul giornale aperto e con una mano allungata in cui teneva il mio quaderno. “Tieni” mi disse senza alzare gli occhi. “Ma non trascurare i compiti”. “Grazie” risposi e girai le spalle e lui, richiamandomi e alzando gli occhi “Vedi che nel convitto c’è una biblioteca e un piano. Se porti una bella media ti ci mando.” Annuii e lo guardai sorridendo.
Era un buon uomo ed era preoccupato di non farci perdere tempo per interessi futili. Col difetto di tutti i sostituti del padre: ciò che era utile e futile lo stabiliva lui.
Al ginnasio e al terzo liceo stetti in convitto. La terza volta per mia scelta. Fu un’esperienza che forgiò profondamente il mio carattere. Studio metodico, tempi assolutamente regolari e quell’essere sempre servito a colazione, a pranzo e a cena.
(Continua)
25-02-2011
Lascia un commento