Il tempo e il destino: Ignota Presenza

Ignota Presenza

 

Da sempre c’è una Presenza accanto a me. Non è di natura psicologica: me l’ha dimostrato l’esperienza. Essa mi parla, mi ammonisce, mi guida, mi spiana sempre la strada. Spesso mi fa conoscere, in momenti in cui non ci sono condizioni né moventi, fatti che accadranno. Spesso sono premonizioni che mi appaiono inverosimili. Ma, è qui l’assurdo: puntualmente si verificano, in tempi stabiliti non da me e indipendentemente dalla mia volontà.
Né posso tacere che, in periodi particolari, mi accadono fatti inspiegabili e di cui non trovo alcuna ragion sufficiente.
Racconterò queste stranezze così come sono successe e ancora succedono, lasciando che ognuno le consideri come meglio ritiene.
Fin da bambino ho una percezione del tempo e dello spazio decisamente strana, nel senso che tutto mi appare rallentato, come se le persone e le cose si muovano con una lentezza innaturale.
Un esempio antico. Quando da ragazzi giocavamo a pallone, con grande pericolo ed incoscienza, nello stretto vicolo della vecchia casa paterna dell’allora vivo Monastero, abbandonavo, senza motivo, la partita e mi andavo a sedere in cima al muro dell’orto, che era un lato del cosiddetto campo sportivo. Appollaiato lì sopra, guardavo, con questa visione di tempo-spazio, i miei amici che continuavano a giocare. In questi frangenti, mi sentivo grandemente sereno e felice. Perciò, preferivo osservare, se così si può dire, più che giocare. Ed ero assolutamente soddisfatto di questo mio stato.
Ancora. Una sera d’inverno, frequentavo la terza o la quarta elementare, me ne stavo seduto davanti al focolare e guardavo le faville. Caddi in questa trance. Le faville ondeggiavano pianissimo ed era un godimento vederle. Sembrava che entrassi in un cielo di stelle rosse, sempre più profondo. Era sensazionale. Mia madre, dopo un certo tempo, osservandomi, si spaventò e mi scrollò un po’ rudemente. A me sembrò di ritornare da un viaggio. “Sei il solito” disse” e mi raccontò che, quando ero ancora di pochi mesi, le facevo prendere grandi spaventi, perché in tutto quel trambusto lavorativo, non mi vedeva né muovere né piangere e spesso si avvicinava con grande apprensione, data la mia gracilità, pensando di trovarmi morto. Invece ero con gli occhi spalancati, intento a guardare chissà che cosa.
Con questo, chiamiamolo così, carattere, il primo ricordo che ho della Presenza risale al periodo intorno ai quattro anni, quando frequentavo il catechismo dalle suore o semplicemente le andavo a visitare, poiché il loro Istituto era a pochi metri da casa. Sentivo la Presenza in special modo salendo la scala a destra del portone ove era posto un grande crocefisso. Oppure quando ero a casa di nonna Maria. Allora la Presenza si manifestava così: quello che dicevano le suore o quello che mi raccontava mia nonna da parola si trasformavano in visione. Vivevo con persone e in luoghi mai visti. Quando cominciai a leggere, lo stesso avvenne con i libri. Ragion per cui ero quasi sempre alla ricerca di romanzi, per il grande piacere che provavo. Non leggevo, vedevo, e anche quando, all’università o adesso, leggo libri di filosofia, è un partecipare ad un dibattito.
Da ragazzino vivevo una intensa religiosità. Andavo continuamente a messa e alle novene, funzioni in cui ebbi il compito piacevolissimo di fare il chierichetto. Quando veniva sollevata l’Ostia mi sentivo come davanti a Qualcuno, a cui dovevo “ovviamente” inchinarmi. In quei momenti mi sentivo profondamente diverso.
Tutti i primi venerdì facevo la comunione, insieme a nonna, che bussava alla porta divisoria per svegliarmi, trovandomi sempre pronto, a digiuno, senza prendere nemmeno un sorso d’acqua. Con lei dicevo il rosario ogni sera o ascoltavo le sue letture da un breviario dai caratteri molto grandi. Non ostante questo, accadeva sempre un fatto poco chiaro: quando nella chiesa non c’erano funzioni, se fossi entrato, avrei sentito tanti occhi che mi osservavano, specialmente dall’altare di San Francesco di Paola e scappavo atterrito.
Passiamo ad altro. C’era un amico di papà, Vincenzo Serra, che abitava a Iassa, una contrada di Belsito, località adesso vicina per la strada nuova, ma all’epoca abbastanza disagiata, perché per raggiungere Grimaldi, si doveva fare il giro del Caselllo, all’Aria Rossa. Quest’uomo, che ricordo anziano e rispettosissimo, capitava, dopo aver fatto la spesa da papà ed essere stato a messa, a casa nostra, per salutare mia madre. Un giorno, mentre parlavano del più e del meno, tolsi la bacinella da una specie di trabiccolo in legno, mi infilai dentro, e, come in pulpito, cominciai a predicare. Raccontavo di Gesù e di quello che aveva patito. Quel buon uomo, guardandomi con meraviglia, mi ascoltò fin quando non smisi. Non solo: se prima veniva a casa non frequentemente, dopo di allora, ogni domenica si presentava e si capiva perché. Io predicavo e lui se ne stava lì. Mia madre gli diceva: “Vicé, perché non vai a sentire la messa” e quello sorrideva.
A quel tempo facevo la prima o la seconda elementare.
Un’altra cara vicenda. Le novene di maggio, il mese della Madonna, erano affollatissime. La gente spesso portava la sedia da casa e stava fuori dalla chiesa, che era stracolma. Per queste novene si faceva venire un predicatore da qualche paese vicino.
Un anno, ero alla quarta elementare, venne, con l’accordo del prete, un frate cappuccino, padre Arnaldo da Brescia, che mio padre aveva conosciuto a Fiuggi, dove entrambi curavano il mal di reni. Era un uomo bellissimo, denti bianchissimi, alto, con la barba ben curata, con una splendida dizione: un san Francesco delle statuette. Il primo giorno che predicò lasciò tutti perplessi, chi per un motivo chi per un altro, ma tutti ammirati.
La mattina dopo passò dal negozio per prendersi i rallegramenti col suo risolino compiaciuto. Poi disse a mio padre. “Vado a preparare la predica. Porto tuo figlio con me”.
Abitava in un piano della casa di Giovanni Anselmo Micarello, dove c’era una vasta camera. Quando arrivammo, si alzò le maniche come se dovesse fare a botte, prese alcuni foglietti già scritti e si mise ad andare su e giù per la stanza. Io stavo seduto in silenzio su una sedia, con i piedi ciondoloni. Dopo un certo tempo, smise quel mormorio conciso, si fermò e mi disse: “Ti piace questa predica?” Io lo guardai un po’ alterato, e gli risposi seccamente: “No!” e scappai giù per le scale. Mi raggiunse spaventato e mi riportò sopra: “Che cosa hai?” Non so il mio aspetto, ma gli dissi: “E tutto sbagliato!” Lui: “Sbagliato?” “Sì -dissi- perché parli tu! Trovi parole difficili, cose che spaventano la gente, frasi che non valgono niente… Tu ti devi presentare così, senza niente di scritto!” Poi mi misi a piangere. Padre Arnaldo, girò come un pazzo per la stanza, poi si fermò, mi guardo e si mise a ridere, strappò i foglietti e disse: “Vieni che andiamo a comprare un gelato. Come lo vuoi?” Gli porsi la mano e risposi “A fragola”.
La sera la predica fu un trionfo e lui era così preso che parlò quasi un’ora e nessuno si mosse. Finita la funzione era stremato. Mi cercò, mi prese in braccio e mi portò al negozio di papà, distante pochi metri dalla Chiesa. Papà non capì e capì di meno quando, prima di chiudere, a sera, gli si presentò dandogli una fotografia con una dedica: “Gliela dai?”. Papà: “E certo!” Quella foto la portai con me per anni, fin quando non smisi l’abitudine di gonfiare la tasca con un inutile portafoglio. Buon padre Arnaldo che vidi solo un’altra volta, nel penultimo anno del liceo e a cui diedi, allora uno stupido dolore e non ho più potuto chiedergli scusa!
Ora devo raccontare un episodio incredibile, a cui assistettero alcuni amici, ancora vivi e vegeti, tranne il povero Ercole.
Fino alla quinta elementare i miei luoghi erano il rione e la campagna vicina: lì trovavo con chi passare il tempo. In prima media mi fu concesso di uscire anche di sera e cominciai a frequentare altri coetanei in tutt’altra zona: Enzo Turco, Pierino Mauro, Franco Gagliardi e poi Ercole Magnone, Pino Filice, Giovannino Anselmo, quelli che ricordo. Insieme a loro passavo i pomeriggi, e di sera si andava a casa dell’uno o dell’altro. D’estate passeggiavamo sempre tra la Pietra di Franco e l’Ariella, scherzando, raccontando barzellette e, il più delle volte, cantando a squarciagola, contenti e squattrinati. Ma i soldi a che ci servivano?
Ognuno di noi strimpellava uno strumento. Io, nella compagnia possedevo una fisarmonica, ma la portavo rare volte, dato il suo peso. In ogni caso, cantavamo e Pierino perfino componeva.
In questo tratto di strada, non raramente vegetavamo come lucertole sotto la “quercia di donna Gilda”, che esiste tuttora. Spesso, nelle calde sere estive, restava il nostro luogo preferito. Era circa tre metri sopra la strada, da cui era separata da uno scosceso e impraticabile pendio, che aggiravamo attraverso un viottolo laterale.
Una sera, mentre eravamo lì da un pezzo, disse uno di noi: “Beh, andiamocene!” Fu a quelle parole che persi cognizione dello spazio. Davanti a me vedevo una cunetta non più larga di una trentina di centimetri. Così improvvisamente spiccai un salto, sentendo lontanissimo il grido dei miei amici che gridavano: “Ma è pazzo!!”, “Si è sfracellato”.
Sentii un palmo di una grande mano che mi prese e lievemente mi poggiò, in piedi, sulla strada. Quando vennero giù Franco e gli altri, tutti spaventati, mi trovarono tranquillo, come se nulla fosse successo. Dissero: “Che ti è saltato in mente. Dove ti sei fatto male?” “In nessuna parte” risposi. E non ne parlammo più.
Il quattro ottobre di quest’anno, al funerale zio Antonio, ero sconsolato, pensieroso, seduto sul divanetto della cucina. Come si usa, sono venuti amici, che, per distoglierti dal dolore sono soliti discorrere di quello che capita. Accanto a me si è seduto Pino Filice che dopo le condoglianze, cominciò a parlare dei nostri tempi passati. Così gli dissi: “Ti ricordi, quando sono saltato dalla quercia di donna Gilda” E Lui: “E come se lo ricordo. Ci hai fatto prendere una botta! Credevamo di trovarti morto!” Dissi: “Se lo raccontassi alla gente, nessuno mi crederebbe”. E gli raccontai quella sensazione che avevo avuto e non avevo mai raccontato ad alcuno. “Certo un tipo normale non lo sei mai stato -sorrise- ma il fatto te lo posso testimoniare io”. Gli chiesi: “Me lo devi mettere per iscritto”. “Promesso” si impegnò. (1)
Da questo periodo si sviluppò un legame privilegiato con Cristo, che era già abbastanza sovrabbondante nei miei pensieri. Lessi e rilessi la Bibbia, cominciai a fare esercizi di penitenza che solo adesso mi sento di divulgare. Penitenze di un giovincello.
Mi feci con una cordicella un cilicio che riempivo sempre più di nodi. Nessuno in famiglia si accorse di ciò, perché stavo molto accorto. Poi, ad orari comandati, dicevo preghiere su preghiere in luoghi assolutamente appartati. Cominciai non solo ad ascoltare ma a ragionare con la Presenza e i dialoghi cominciarono a prendere una piega diversa. Fino ad allora avevo del male un’idea estremamente vaga, vaghissima. Male, per le mie convinzioni, erano i peccati indicati dalla Chiesa ed io confessavo anche le più piccole mancanze veniali. Ora, in queste discussioni tra me e l’Altro, cominciai ad includere tra i peccati più gravi l’incoerenza nei confronti delle parole di Gesù. Ma non badavo alla gente, alle persone comuni, bensì ai preti, quelli che cominciavo a identificare con i farisei, i sepolcri imbiancati. Non frequentai più la chiesa.
Mi salvai contrapponendo i preti ai monaci, una distinzione che non si è mai più dissolta. Il fatto di non andare in Chiesa non allontanò da me la Presenza. Al contrario, la sentii più vicina e, se vogliamo più umana. Coltivavo in segreto il desiderio di farmi frate.
Intanto, avendo già la Bibbia, cominciai a comprare libri, specialmente di storia. Il mio mondo si popolò di eroi, ma con Gesù sempre al primo posto.
Notavo che il mio carattere era mutato, contraddittorio. Ero di natura violenta, lo sentivo. Tuttavia quel senso del tempo e dello spazio mi portava necessariamente ad una mutazione. Siccome avevo reazioni molto lente, consideravo le offese, gli affronti e così via solo dopo molto tempo, quando ogni risposta non poteva che essere inopportuna e fuori luogo. Questo disorientava molto le persone che litigavano con me. Sarebbe stata preferibile una scazzottata, ma non mi successe mai di venire alle mani con alcuno. La violenza era un atto impossibile per me. Perfino nei sogni. Un paio di volte sognai di tirare un pugno, ma non riuscivo a toccare mai l’altra persona, anzi, il braccio si muoveva con una lentezza ancora più spropositata. Devo aggiungere che la rimozione della violenza, mi ha fatto nascere e crescere qualcosa di assolutamente inopportuno, da cui non riesco proprio a liberarmi. Ho sviluppato un criterio di “lesa maestà” ovvero, siccome non riesco a reagire alle offese come tutti, se mi offendono in maniera grave, passato il giusto tempo, nella mia mente si insedia un giudizio definitivo per cui quella determinata persona non esiste più e per le cose che non esistono non provo niente, assolutamente niente. Considero questo atteggiamento grave, ma col tempo, al posto di liberarmene l’ho rinsaldato e la Presenza mi dice che è giusto. Avrò modo di ritornare su questa questione.
Torniamo ai fatti. Era terminata la terza media e, per i risultati conseguiti, vinsi una consistente borsa di studio.
Feci i cinque anni delle superiori a Cosenza: tre anni al convitto, un vero e proprio carcere e due anni, il terzo e il quarto, a casa di zio Silvio. Proprio al quarto anno, l’insegnante di filosofia ci fece comprare un’antologia di scritti di illuministi. Lo rilessi non so quante volte. Diderot, Voltaire, Helvétius e compagnia bella divennero le mie letture. Più di tutti mi fece impressione Jean Meslier, un prete che per tutta la vita disse messa e pregò e che, a termine la sua missione, quando morì lasciò un manoscritto che è un vangelo di ateismo. Fui disorientato da quella ragione spavalda e senza regole. Fu l’inizio di un feroce anticlericalismo. Ma la Presenza non andava mai via.
Un giorno mia zia, con mia cugina ed io dovevamo andare a pranzo da amici. Mi venne una febbre per la solita tonsillite. Le convinsi ad andare senza di me, anche perché ho sempre preferito starmene, di tanto in tanto, completamente solo. Zia Vincenza mi lasciò già pronta una fetta di carne e mi raccomandò di starmene a letto. La febbre andò su e giù e di tanto in tanto leggevo il Vangelo di Matteo, in un librettino.
Verso le undici e mezzo caddi in un dormiveglia. Accadde qualcosa di stranissimo che vissi senza la minima paura. Vidi entrare un monaco giovane, esile, che si sedette accanto al letto. Non disse niente, non mi guardava, ma stette per parecchi minuti. Poi girai la testa e non lo vidi più. Non posso giurare, per lo stato febbrile, se questo accadde veramente, ma è certo che dopo, per più giorni, non pensai ad altro che ad entrare in convento e, dopo quella inaspettata vista, mi ritrovai in uno stato di serenità che da tempo non provavo. Quello stesso giorno, al ritorno, mia zia mi trovò completamente sfebbrato. Mi danno da pensare le sue parole, che ricordo perfettamente. “Sembra che ti sia successo qualcosa. È venuta Anna?” Le dissi: “No, no” e lasciai che continuasse: “A questa qualche giorno ci penso io!”. Ma la fidanzatina che passava tutti i giorni con me, non l’avevo proprio vista.
Nel dicembre dell’ultimo anno di liceo, quando per una frase di mia zia me ne ritornai in convitto, comprai un giornale anarchico che il vicerettore mi vietò di leggere. Per tutta risposta, lo comprai e lo lessi clandestinamente e mi dichiarai apertamente anarchico. Feci anche proseliti fra i convittori e rimase celebre la contestazione fatta al vescovo, venuto a benedire il convitto.
Cominciò l’amicizia con Vincenzo Mauro che divenne anarchico. Era anticlericale allo stato puro, antipapista viscerale.
In quell’anno ebbi la possibilità di vedere un film che trovai sconvolgente e credo che fece analogo effetto ad altri perché, dopo un giorno fu ritirato. Era Buddha, non so di quale regista. Lo ricordo, oltre per i pregi artistici, perché d’allora, dopo Cristo nei miei pensieri si piazzò Buddha e spesso si confondevano. In quel periodo l’impermanenza era un dato rilevante, quasi univoco, del mio modo di pensare.
Poi ci fu l’università, il maggio francese, la contestazione, la laurea, il matrimonio, i figli. Restavo fermo nell’anticlericalismo e per colpa mia, inizialmente mio padre, che era abituato ad andare alla messa delle sei, prima di iniziare il lavoro e poco dopo anche i miei fratelli, non andarono più a messa. Mia madre non si curava di queste cose e mai l’avevo vista pregare: per lei non cambiò niente.
Avevo, da supplente lavorato pesantemente: Rossano, Trebisacce, Corigliano. Alcune volte tre sedi nello stesso giorno. Poi nacque mio figlio Francesco Paolo (Ciccio) e per un periodo viaggiai da Corigliano a Grimaldi. Durante il lungo percorso, la Presenza mi faceva scherzosamente compagnia. Prima mi informava quando, in curva, incontravo macchine o meno, poi fece di più. Siccome io mi dicevo: “Non vedi che sei tu, e lo fanno pure i ciarlatani”. Allora mi fece un giochetto coi fiocchi: cominciò a dirmi le marche delle macchine. Devo dire che furono viaggi di divertimento
Dopo stetti un periodo ad Amendolara e infine trasferito a Torano e finalmente a Cosenza. Nel periodo di Torano, mi spaventai, nel senso che, in alcuni tratti di strada sentivo in me stesso: “Qui farai degli incidenti” e di ognuno la gravità. Era la Presenza perché aggiunse: Non dirlo!” Io pensai che se mi fossi lasciato prendere dalla suggestione, avrei finito veramente per incappare in qualche guaio.
Dopo un anno, ero a Cosenza al “Fermi” e nella macchina viaggiava papà e Peppino G. Improvvisamente, di fronte al cimitero di Belsito, (ora lo posso dire) mio padre convinto di chissà che cosa tirò il freno a mano. La macchina girò su stessa, invase l’altra corsia e andò a sbattere contro uno di quei grossi segnali di pietra dell’Anas. Sentii un botto terribile. Scendemmo ed il parafango sinistro e la carrozzeria, allora abbastanza robusti si erano piegati verso l’esterno. Vidi che sotto c’era una scarpata non indifferente. Dissi: “Ma che ti è venuto in mente papà?” Lui: “Ma stavi per finire sotto un camion”. Ma quale camion! Fui soltanto felice perché nessuno si era fatto un graffio e andai regolarmente a scuola e nei giorni successivi riparai il danno. Esattamente lì era il punto indicatomi.
Il secondo, fu ancora più incredibile. La dove mi era stato detto, improvvisamente la macchina perse un giunto e finii nell’unica buca esistente sul marciapiede, dove avevano stupidamente piantato un pino. Io, con andatura ridotta, stavo mangiando una fresina e col colpo rimasi fortemente impaurito, quasi che vi fossi stato trascinato. La macchina fu inutilizzabile: la buca, profonda, per lo stesso peso della macchina, produsse seri danni alla struttura. Cambiai macchina, ma d’allora evito, con tutte le forze, il terzo posto che mi è stato indicato. Non posso dire di più.
Da studioso di filosofia, dovevo occuparmi per forza del senso della vita. E venne il 1987, anno che vidi la Presenza.
Era una delle tante sere d’estate, passate al solito senza grandi pensieri.
Andai a letto e presi sonno quasi subito. non so quale ora, ma era ancora notte, mi svegliai. Sul soffitto della stanza da letto era stagliato un cerchio giallo. Era perfettamente tondo senza sbavature. Mi chiesi che poteva essere e stavo per svegliare mia moglie. Sparì. Ne parlai la mattina e non mi credette nessuno.
La sera dopo, avvenne un altro episodio. Questa volta in sogno. Stavo recandomi in un luogo della nostra montagna, che sembrava un luogo conosciuto. Ero molto sereno. Ad un certo punto da una balza, non molto alta e coperta di solite erbe, come un ruscello, vidi sgorgare tanti colori e sentii una voce: “Volevi vedermi. Eccomi!” Rimasi sbalordito, perché quei colori non li avevo mai visti in natura, non esistevano in natura: fuoriuscivano a fiotti, ma senza confondersi l’uno con l’atro. Fui tanto confuso che non capii il resto di quanto dicevano. Colori parlanti? Ma che sta succedendo?
Mi svegliai riposato come non mai. Avevo visto Qualcosa che era più che Dio: questo è ciò che pensai da quel momento.
Quello che racconterò adesso non permetterò a nessuno che venga utilizzato per alcun tipo di speculazione o per fini che esulano dal semplice prenderne atto.
Ai primi di quest’anno mi sentii fortemente male, come mi era capitato più a causa della malattia da cui soffro da decenni. Niente di più: Sapevo che dopo un certo periodo potevo ritornare al lavoro con un po’ più di forza. Nel frattempo trascinavo la giornata.
Una sera mi andai a coricare proprio affranto e nel corso della notte feci questo sogno. Era pomeriggio inoltrato. Una massa di gente era davanti alla Chiesa della Concezione, quasi davanti al portone degli Amantea, ed io scendevo verso la casa paterna e tutto m’aspettavo tranne quella confusione. Tanto più che qualcuno portava una grossa Croce e non era affatto Venerdì Santo. A fianco della Croce, che enorme e con ancora la corteccia, vidi, ma in proporzione corporee tali che tutte le altre persone sembravano pigmei, Giovanni Paolo II, vestito di bianco.
Vincenzo Mauro, per tutta l’estate ne aveva dette di cotte e di crude su di Lui, ma senza volgarità. Gli era particolarmente ostile, ma non era convincente. Al contrario io mi ero reso conto, che Giovanni Paolo II era stato un pontefice di cui pochi ne può vantare la chiesa.
Avanzai pensando a questo, no a quella incredibile processione. Il papa mi chiamò e disse: “Portala” e mi indicò la Croce. “Ho la barba bianca – risposi- sarebbe fuori luogo”. Mi fece un gesto, quasi a non voler discutere.
Mi trovai con quella croce addosso. Non trovai affatto pesante. Lui mi cammina accanto, mentre la gente se ne stava senza pregare. “Vedi che ce la fai” disse ridendo.
Non ricordo altro. Tuttavia mi alzai la mattina con una disposizione d’animo nuova. Prima del sogno pretendevo che gli altri partecipassero ai miei problemi. Quella mattina pensai che non ne avevo più bisogno. Oggi ho uno spirito rinato e lo devo ad un sogno.

 

Testimonianze

 

1 – Pierino Mauro che è da quarant’anni circa emigrato ad Edmonton (Canada), leggendo il fatto su Internet, in data 11 dicembre 2006 e subito dopo il 14 mi ha scritto queste due lettere che cito, la prima in parte, la seconda integralmente:

 

Caro Raffaele,

Mi hai fatto fare una “scatastata” che non ti dico per andare a rintracciare un avvenimento, nel profondo della mia memoria, che è successo quaranta anni fa… ho dovuto sfogliare, quasi, tutto il mio archivio privato per trovarlo…

 

 

Caro Raffaele,

Il salto, del quale parli, è alquanto chiaro, anche se qualche dettaglio e, ora, un po’ offuscato dal tempo.

Sì, eravamo un gruppo che andava sempre insieme di sei o sette persone, e qualche volta si univano altri al nucleo di Enzo, Franco, Giovannino, Raffaele, Pierino, Ercole, Pino e via di seguito. Quella sera era una sera come le altre e ci trovammo a passeggio verso l’Ariella. Non so chi è scalato per primo, mi sembra fosse stato Pino e gli altri lo hanno seguito su per la scarpata, ci siamo seduti a raccontare barzellette e fare le solite critiche dei paesani, sotto una quercia, e siamo rimasti a chiacchierare qualche tempo fino a che qualcun’altro ha suggerito di andare. Ancora parlando del più e del meno, uno alla volta ci siamo alzati per riscendere, ma dato che la via diritta era troppo pericolosa per la pendenza a piombo sulla cunetta, siamo cominciati a scendere in fila dalla stessa parte che era stata usata nel salire. Io ero uno dei primi tre a scendere e mi ero messo già in cammino, quando mi voltai per vedere se gi altri seguivano, ho sentito gridare e ho visto Raffaele al margine della cunetta che si spolverava un po’ i pantaloni e gli altri intorno a domandargli se si era fatto male, il che, lui, negava.

Il “terminale” che aveva saltato era la strada diritta che noi eravamo andati in giro per evitare, data l’altezza. Raffaele ci ha riassicurato più volte che non si era fatto alcun male, nemmeno un graffio ed io con gli altri non abbiamo detto più niente quella sera. Il giorno appresso, quando alcuni di noi siamo ri-incontrati, non potevamo che meravigliarci di come Raffaele abbia potuto, non solo camminare in aria fino a sotto, se nessuno di noi lo ha voluto saltare perché era pericoloso… la ragione per cui noi siamo andati intorno alla scarpata.

 

Contemporaneamente alla lettera di Pierino, ho ricevuto quella di Pino Filice, che cito così come l’ho ricevuta:

 

Caro Raffaele,
ho navigato un po’ nel tuo sito ed ho avuto modo di “sbirciare” i tuoi scritti. Sono rimasto veramente colpito dalla tua capacità di analisi e sintesi dei fatti. Soprattutto ho letto con piacere le tue “elucubrazioni” infantili. Attento che chi non ti conosce bene o chi legge l’Eremita potrebbe pensare che sei fuori di testa: cioè, lo sei sempre stato, visto che parli di tempi che furono. Ovviamente ciò non è valido per me e per chi ti conosce o conosce le tue “stranezze” se mi è lecito, con una battuta, definirle. Certo che ricordavo l’episodio ed il periodo, peraltro indimenticabile, della nostra adolescenza. Ricordo anche che, secondo quanto mi raccontavi, quando le nostre notti s’intersecavano ed erano cosparse di fatterelli, ecc. saresti dovuto “schiattare” anche in un’altra occasione. Non ricordo i particolari, ma un’altra volta mi avevi raccontato di una esperienza di questo tipo. Devo sedermi, qualche volta che ne avrò l’occasione e la disposizione mentale, e navigare un po’ in quei bellissimi ricordi della nostra infanzia e prima giovinezza quando per ore ed ore facevamo quello che racconti nell’Eremita o quando stavamo ore a “provare”, tu con la tua fisarmonica ed io con la chitarra, “Una ragione di più” della Vanoni, seduti sul balcone di casa tua. Come tutto passa!! Ho nostalgia di altre poche cose oltre quelle!! Certo che ci hai fatto “scacazzare” dalla paura quando sei “volato” sutta u termine e Donna Girda. Certo che c’ero e che lo ricordo esattamente come tu lo hai descritto nell’Eremita. Non ci avevi mai dato la spiegazione dell’accaduto prima. Forse davvero, quella volta, “qualcuno” ti ha preso per la “cima dei capelli” e ti ha posato sull’asfalto tutto d’un pezzo! Meno male perché hai avuto l’opportunità di farmi rivivere per qualche attimo uno dei periodi più belli della vita. Complimenti per come scrivi e… alla prossima.

Un abbraccio,

Pino Filice

 

25-02-2011

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